Il venir meno di un contratto d’appalto legittima il licenziamento individuale del dipendente adibito a mansioni allo stesso inerenti e non comporta l’applicazione dei criteri di scelta ex art. 5 della L. 223/1991 nell’individuazione del licenziando. Tale principio emerge, da ultimo, dalla sentenza n. 25653 del 27 ottobre 2017, con la quale la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata riguardo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un autista, a seguito della cessazione del contratto di appalto tra la società di trasporti e il Comune.

In particolare, nella controversia in oggetto, il dipendente si era visto comminare un provvedimento espulsivo, unitamente ad altri tre autisti impegnati nel medesimo appalto, alla luce della soppressione da parte della società della relativa posizione lavorativa, direttamente consequenziale alla fine dell’appalto per il servizio di trasporto pubblico locale. Sia il Tribunale in primo grado che la Corte d’appello di Milano avevano respinto il ricorso avverso il provvedimento, con riferimento, in particolare, al corretto adempimento dell’obbligo di repechage da parte del datore di lavoro che, occorre ribadire, consta nel dovere in capo allo stesso “di provare l’impossibilità di adibire il lavoratore da licenziare ad altre mansioni nell’ambito dell’organizzazione aziendale”(Cassazione, sentenza n. 24265 del 2016). Più precisamente, la società, nell’impossibilità di una riutilizzazione a tempo pieno per altre tipologie di servizi, aveva offerto al ricorrente la possibilità, poi rifiutata, di ricoprire posizioni con orario part-time al 50%; sulla base della recente elaborazione giurisprudenziale, infatti, qualora il datore dimostri la non sussistenza di posti vacanti a tempo pieno non può imporsi allo stesso “di modificare l’intera organizzazione del lavoro per creare una posizione diversamente inesistente” (Cassazione, sentenza n. 16897 del 2016).

In base a quanto riportato dalla difesa del lavoratore, poi, il recesso sarebbe risultato affetto da illegittimità, in virtù della mancata applicazione dei criteri di cui all’art. 5 della Legge 23 luglio 1991, n. 223. Giova precisare come, ai sensi della predetta disposizione, qualora il titolare si ritrovi a dover collocare taluni dipendenti in mobilità, questi sia chiamato ad individuarli, se non disposto diversamente dalla contrattazione collettiva, rispettando il concorso dei seguenti criteri:

  • carichi di famiglia;
  • anzianità;
  • esigenze tecnico-produttive e organizzative.

Tali parametri, seppur riferibili in base alla norma alla fattispecie dei licenziamenti collettivi, erano stati utilizzati in più di una pronuncia giurisprudenziale, per mezzo di un’interpretazione di tipo analogico, al fine di valutare l’effettiva conformità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo ai dettami di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c.. La sentenza in commento, nel negare l’applicabilità dei criteri sopra richiamati al caso di specie, ha colto l’occasione per effettuare una compiuta ricognizione dei principi alla base della scelta del lavoratore cui comminare il recesso.

In particolare, dalle argomentazioni della Suprema Corte emerge come l’individuazione datoriale dei licenziandi, in caso di giustificato motivo oggettivoex art. 3 della Legge n. 604/1966, possa ritenersi limitata, oltre che dal divieto di atti di natura discriminatoria, dalle regole di correttezza e buona fede esclusivamente ove il licenziamento trovi ragione “in una generica esigenza di riduzione del personale omogeneo e fungibile”. Data l’esigenza, nella controversia in oggetto, “della soppressione dei posti di lavoro di personale adibito all’espletamento di un servizio per un appalto venuto meno”, continua la Corte, ad essere sufficiente ai fini dell’identificazione del destinatario del provvedimento espulsivo era la sussistenza del nesso di causalità tra la “ragione organizzativa e produttiva posta a fondamento del recesso” e la “posizione lavorativa non più necessaria” (si veda, in questo senso, anche Cassazione, sentenza n. 25201 del 2016).

Il giudice di legittimità ha, per di più, chiarito come i criteri legali di selezione ex art. 5 della L. 223/1991 si prestino ad offrire, quand’anche utilizzati con riferimento al licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ove ne ricorrano le condizioni precedentemente esposte), esclusivamente “uno standard idoneo a rispettare l’art. 1175 c.c.”, non potendosi, di conseguenza, escludere la possibilità di valutare parametri differenti. Invero, l’eventuale utilizzo di criteri ulteriori deve in ogni caso attenersi, a dire del collegio, al principio di razionalità, escludendosi con ciò l’impiego di regole arbitrarie e non improntate alla “graduazione delle posizioni dei lavoratori interessati” (in linea con tale interpretazione, si legga Cassazione, sentenza 25192 del 2016).