Con la sentenza n. 22451 del 2017, la Corte di Cassazione si è nuovamente pronunciata con riferimento alla risarcibilità del danno tanatologico (o “danno da morte immediata”), intendendosi con tale espressione l’evento costituito dal decesso derivante da un altrui fatto illecito e contestuale o strettamente consecutivo allo stesso. Dalle argomentazioni della Suprema Corte emerge come la richiamata e controversa forma di danno non possa ritenersi risarcibile nei confronti degli eredi del de cuius, in continuità con l’orientamento giurisprudenziale ormai prevalente.
Nel caso di specie, gli eredi di un uomo deceduto trascorse quattro ore da un sinistro stradale ricorrevano avverso la sentenza della Corte d’Appello che aveva negato agli stessi il risarcimento dei danni patiti prima della morte.

La Cassazione ha, in primo luogo, ribadito la non risarcibilità del danno da perdita della vita, già affermata dalla sentenza delle Sezioni Unite, n. 15350 del 2015, in quanto la lesione di tale bene giuridico “per il definitivo contestuale venir meno del soggetto” non può considerarsi rientrante “nel suo patrimonio”, a ciò conseguendo la possibilità di ricevere tutela esclusivamente in sede penale. Nel caso di morte immediata, infatti, al sorgere di un credito risarcitorio in capo alla vittima si accompagna la perdita della capacità giuridica dello stesso, così che il diritto astrattamente configurabile non può considerarsi trasmissibile. E’ stato ritenuto, a tal proposito, non condivisibile l’indirizzo minoritario atto a configurare, in virtù di una simile “ingiustificata privazione della tutela civilistica”, nell’evento morte conseguente a fatto illecito “la massima lesione del bene salute”, ossia la compromissione totale “dell’integrità psico-fisica”, nonché “un costo per la società al quale” far corrispondere un risarcimento idoneo a “trasmettere ai consociati il disvalore dell’uccisione e la deterrenza della reazione dell’ordinamento” (si legga, in questo senso, Cassazione, sentenza n. 1361 del 2014). Tali argomentazioni risultano, a dire della Corte, eccessivamente ancorate alla risalente concezione di responsabilità extracontrattuale, nella cui prospettiva a venire in rilievo era la “natura soggettiva e psicologica” dell’autore dell’illecito. Invero, in una logica funzionale riparatorio-compensativa non parrebbe poter trovare spazio la tesi della deterrenza; il sistema di responsabilità aquiliana prefigurato dal legislatore, infatti, mira all’esclusiva tutela della vittima e delle conseguenze negative dalla stessa subite in virtù del fatto illecito, non potendosi, di conseguenza, ipotizzare una funzione sostanzialmente retributiva dell’agire illecitamente che finisca per ristorare il danno-evento anziché il danno-conseguenza.

Il giudice di legittimità ha, poi, avuto modo di riassumere, sulla base delle risultanze delle principali elaborazioni giurisprudenziali intervenute negli anni, il quadro delle residue tipologie di danno per le quali sia da considerarsi riconoscibile un ristoro agli eredi del defunto. Trattasi, primariamente, del c.d. danno biologico terminale che, a differenza del tanatologico, consta nei postumi invalidanti riferibili al periodo intercorrente tra il momento del compimento del fatto illecito da parte del terzo e il decesso. Ai fini della relativa risarcibilità iure hereditatis, v’è uniformità interpretativa nel ritenere necessaria la sussistenza di “un apprezzabile lasso temporale” che permetta di presupporre la presenza di effetti pregiudizievoli (così Cassazione, sentenza n. 1877 del 2006, n. 15491 del 2014, n. 22228 del 2014, n. 23183 del 2014).
Può, per di più, configurarsi una particolare tipologia di danno morale, il c.d. danno catastrofale (o “danno morale soggettivo”), allorquando la vittima, durante il lasso di tempo precedente l’evento morte, rimanga cosciente e consapevole della gravità della sua condizione, nonché dell’inevitabilità delle conseguenze della lesione (si legga, in questo senso, Cassazione, sentenza 12722 del 2015). Più precisamente, ai fini del risarcimento è necessario che il soggetto “si sia mantenuto lucido ed abbia così potuto preconizzarsi l’incombenza dell’inevitabile evento catastrofico a suo danno, con conseguente sofferenza morale massima, benché concentrata in quel breve lasso di tempo, perché correlata alla prossima perdita della vita” (Cassazione, sentenza n. 23183 del 2014). La risarcibilità, in questo caso, può trasmettersi agli eredi in quanto il danno morale patito dalla vittima può considerarsi, al momento del decesso, rientrante nel relativo patrimonio.

Il quadro sin qui tratteggiato attiene esclusivamente al campo dei danni risarcibili agli eredi del defunto; occorre, a tal proposito, rilevare come l’ordinamento si presti a tutelare, a diverso titolo, gli eventuali danni patiti dai prossimi congiunti dello stesso, intendendosi con tale qualificazione coloro che, indipendentemente dall’eventuale qualifica di erede, godano di una particolare relazione affettiva con la vittima dell’illecito. In questo senso, oltre al coniuge, ai figli, ai genitori, ai fratelli, possono considerarsi tali altri parenti ed affini, nonché, come recentemente ribadito dalla Suprema Corte, i membri della c.d. famiglia naturale la cui relazione con il de cuius sia caratterizzata “da uno stabile e duraturo legame” che, unitamente ad una comunanza di vita ed affetti, permetta di ritenerla “equiparabile al rapporto coniugale” (si legga, a tal riguardo, Cassazione, sentenza n. 13654 del 2014, nonché Cassazione, sentenza n. 7128 del 2013).
Una simile tutela, apprestata ai prossimi congiunti, trova giustificazione nella potenziale plurioffensività di talune tipologie di fatti illeciti, ossia la predisposizione delle stesse a ledere gli interessi di una pluralità di soggetti. La Cassazione ha, in proposito, introdotto il concetto di “prevedibilità della colpa”, statuendo come, in caso di omicidio colposo, sia “sussistente, in capo al soggetto che ha posto in essere la condotta che ha causato la morte” una prevedibilità della lesione in capo ai congiunti “dell’interesse all’intangibilità delle relazioni familiari”, valutando la stessa in astratto. Rientrerebbe, infatti, nell’ambito della normalità il fatto “che la vittima sia inserita in un nucleo familiare, come coniuge, genitore, figlio o fratello” (Cassazione, sentenza n. 8828 del 2003). I danni configurabili in capo a tali soggetti possono ricondursi, a titolo esemplificativo, a sofferenze o patemi d’animo subiti in ragione del venir meno della vittima e direttamente collegabili al fatto illecito (danno morale), ovvero ricadute dinamico-relazionali (danno esistenziale). A ciò si aggiungano i pregiudizi derivanti dalla perdita di una fonte di sostegno economico (Cassazione, sentenza n. 3116, del 1983). In ogni caso, trattasi di danni iure proprio, ossia patiti indirettamente dal prossimo congiunto quale vittima secondaria e non suscettibili, quindi, di incontrare i limiti sopra richiamati in termini di trasmissione ereditaria.