La Suprema Corte di Cassazione, pronunciandosi relativamente al caso di un dipendente che, durante il periodo di malattia dovuto a contusioni alla spalla e al polso destro, aveva svolto altre attività di carattere lavorativo, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare allo stesso comminato. In particolare, il lavoratore aveva raggiunto con l’automobile l’esercizio commerciale del figlio, aiutandolo poi nello svolgimento di semplici incombenze, come lo spostamento di piante di piccola dimensione e la movimentazione della saracinesca attraverso l’utilizzo di un dispositivo elettronico. Secondo il datore di lavoro, da tale condotta, anche e soprattutto in considerazione delle mansioni di autotrenista svolte dallo stesso dipendente, sarebbe derivata una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà.
In primo grado, nel ritenere sussistente un’incompatibilità tra le attività svolte dal lavoratore in favore dell’attività del figlio e lo stato di salute conseguente la lesione del braccio, il Tribunale di Cosenza aveva affermato la piena legittimità del licenziamento per giusta causa allo stesso comminato. In particolare, a venire in rilievo era stata la guida dell’autovettura per raggiungere l’esercizio; l’incompatibilità tra lo stato contusivo diagnosticato e lo svolgimento dell’attività di guida del camion e scarico di merci trasportate avrebbe comportato allo stesso tempo un’incompatibilità nella guida dell’automobile e lo spostamento di oggetti (anche se di dimensioni ridotte). La sentenza era stata, poi, riformata in appello a favore del dipendente.
La Cassazione, con sentenza n. 21667 del 19 settembre 2017, nel valutare come simili attività possano definirsi a tutti gli effetti lavorative, ha escluso che da tale qualificazione discenda automaticamente l’illecito del lavoratore. La Suprema Corte di Cassazione con la sopra citata decisione ha, pertanto, giudicato che affinché la condotta giustifichi un provvedimento disciplinare del datore di lavoro quale il licenziamento per giusta causa, è necessario che dai comportamenti tenuti dal soggetto in congedo possa presumersi la realizzazione di una “fraudolenta simulazione della malattia”. Dalle risultanze fattuali del giudizio all’esame della Corte pareva potersi escludere del tutto che nel caso di specie si potesse configurare uno stato di malattia fittizio. La sussistenza della malattia, infatti, era stata accertata e “cristallizzata” in un certificato dell’INAIL, costituente come noto un atto pubblico ed il Giudice dei precedenti gradi del giudizio, a parere della Suprema Corte, di fronte a tale attestazione non avrebbero potuto in ogni caso discostarsi dalle relative risultanze, naturalmente, considerata, altresì l’assenza di un giudizio di accertamento di falsità ideologica del documento stesso. Sarebbero risultate, quindi, incensurabili a giudizio della Corte, le ricostruzioni fattuali effettuate dal giudice di merito in quanto adeguatamente motivate, così come la motivazione operata in ordine alla valutazione sull’incidenza delle attività concretamente svolte con lo stato di salute.
Il giudice di legittimità ha avuto modo di ribadire i principi di diritto che caratterizzato un orientamento ormai consolidato in materia: “lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idoneo a giustificare il recesso del datore di lavoro” per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà “ove tale attività esterna sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolenta simulazione”, ovvero quando, “valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l’attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore” (si leggano, in questo senso, anche le precedenti pronunce della Suprema Corte in materia: Cassazione, sentenza n. 17625 del 2014 e Cassazione, sentenza n. 24812 del 2016). In alcun modo rileva, ai fini della legittimità di provvedimenti espulsivi, che le mansioni prestate presso altro datore di lavoro siano a titolo gratuito ovvero oneroso. Allo stesso modo, affinché sia possibile configurare una forma di illecito disciplinare non risulta indispensabile la dimostrazione relativa all’effettiva impossibilità di ripresa dell’attività lavorativa, essendo sufficiente, sulla base delle argomentazioni della stessa Corte (Cassazione, sentenza n. 16465 del 2015), “che la ripresa sia solo messa in pericolo dalla condotta imprudente”. La valutazione di idoneità, a tal proposito, “deve essere svolta necessariamente ex ante, rapportata al momento in cui il comportamento viene realizzato”. Seppur definibili in astratto come “lavorative”, in ragione del modesto contenuto delle attività prestate, le mansioni svolte dal lavoratore nella controversia in questione, non potevano ritenersi idonee, a giudizio della Suprema Corte ad influire in qualche modo sul tempestivo recupero dell’integrità fisica.
Va chiarito come permanga, in ogni caso e, quindi, a prescindere dallo stato di malattia o meno, l’impossibilità di svolgimento di mansioni presso terzi, qualora l’impresa in questione sia in diretta concorrenza con il datore di lavoro principale; al riguardo l’onere di dimostrare la sussistenza dell’attività concorrenziale, così come l’eventuale fraudolenta simulazione della malattia, nonché il pregiudizio o ritardo nel rientro al lavoro sopra richiamati, è in capo al datore che provveda al licenziamento.
Dalle pronunce esaminate emergono passaggi argomentativi oramai consolidati che contribuiscono a garantire una certa uniformità di interpretazione. Va, tuttavia, rilevato come i criteri offerti dalla Corte si prestino ad offrire un’eccessiva libertà di valutazione ai giudici di merito, stante la difficoltà di determinare l’esatto confine tra la compatibilità o meno di determinate mansioni con lo stato di malattia, da quanto sopra consegue il fatto che residuano numerose incertezze in capo al datore di lavoro relativamente alla legittimità dei propri provvedimenti disciplinari.