Il Tribunale di Milano (Sezione Lavoro), con sentenza n. 2251/2017, si è pronunciato con riferimento ai criteri per l’attribuzione dello status di “vittima del dovere”, ai fini dell’ottenimento dei benefici previsti dalla Legge 23 dicembre 2005, n. 266.
Nel caso di specie, gli eredi di un agente di Polizia Municipale ricorrevano avverso il diniego del Ministero dell’Interno al riconoscimento dei benefici assistenziali propri di tale status. Il soggetto in questione era deceduto, nel corso dell’espletamento delle proprie funzioni, in seguito al salvataggio di un minore nei pressi di una scuola elementare, parandosi di fronte ad un motoveicolo che procedeva ad elevata velocità. Il conducente, peraltro, risultava in stato di alterazione dovuta all’assunzione di sostanze psicotrope.
Va, in proposito, rilevato come il legislatore, con la disciplina sopra citata, abbia inteso tutelare gli appartenenti alle forze di polizia e alle forze armate che siano caduti o che abbiano contratto infermità invalidanti nel corso dell’adempimento della propria funzione. In particolare, a norma del comma 563 dell’art. 1 (Legge 23 dicembre 2005, n. 266) ad essere coperti dalla misura sono le vittime di eventi verificatisi “nel contrasto ad ogni tipo di criminalità, nello svolgimento di servizi di ordine pubblico, nella vigilanza ad infrastrutture civili e militari, in operazioni di soccorso, in attività di tutela della pubblica incolumità, a causa di azioni recate nei loro confronti in contesti di impiego internazionale”. Dall’interpretazione particolarmente restrittiva del Ministero dell’Interno, per anni era stato negato il riconoscimento ai destinatari della disposizione nel caso in cui il fattore di rischio al quale gli stessi fossero esposti non eccedesse le normali mansioni spettanti in forza della funzione ricoperta. Anche nel giudizio in questione, dalla difesa del Ministero era riscontrabile tale lettura, nella misura in cui veniva esclusa la concessione del beneficio in quanto “l’appartenenza alla forze dell’ordine comportava l’espletamento di una funzione di per sé esposta a rischio”. Sarebbe risultato necessaria, ai fini della configurabilità della fattispecie, la dipendenza dell’evento da un rischio specifico ed ulteriore “rispetto a quello già di per sé connaturato al servizio istituzionale ordinariamente svolto”.
Rifacendosi alla recente pronuncia delle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (n. 10791 del 2017), il giudice adito ha accertato la sussistenza dello status di vittima del dovere, ribadendo la sufficienza della lesione (in tale frangente del decesso) come diretta conseguenza degli eventi ex comma 563, al netto di situazioni connotate da straordinarietà. In altri termini, la ratio della norma in questione non consisterebbe in un meccanismo premiale attribuibile a soggetti che si rendano protagonisti di gesta eroiche in contesti eccezionali, discendendo da tale interpretazione un ingente ampliamento della platea dei beneficiari.
Si tratta senz’altro di una svolta giurisprudenziale dotata di una certa rilevanza se si ha riguardo di considerare che la stessa Cassazione, seppur con un minor grado di perentorietà rispetto all’interpretazione ministeriale e pur negando la necessità di un evento straordinario, aveva precedentemente prescritto l’occorrenza, in ogni caso, del sussistere di “condizioni ambientali od operative tali da innalzare i rischi rispetto a quelli normalmente insiti negli ordinari compiti d’istituto” (Cassazione, sentenza n. 759 del 2017).
Risulta, in proposito, necessario sottolineare come, ai fini della quantificazione dell’assegno vitalizio, si sia registrata un’estensione, ancora una volta di matrice giurisprudenziale, dell’applicazione degli importi previsti per le vittime di terrorismo (500,00 euro mensili, raddoppiati rispetto ai precedenti 258,23 euro), come implementati dalla Legge n. 350 del 2003. Nonostante l’assenza di un richiamo espresso delle vittime del dovere tra i beneficiari dell’incremento, la Suprema Corte ha ritenuto, con sentenza n. 7761 del 2017, che, in forza del principio di uguaglianza ex art. 3 della Carta costituzionale, non potesse giustificarsi una simile disparità di trattamento nella disciplina di situazioni connotate da una sostanziale identità di ratio, “essendo la legislazione primaria in materia permeata da un simile intento perequativo”.
Per completare il quadro relativo alle principali problematiche che, in relazione alla configurazione delle “vittime del dovere”, abbiano costituito oggetto di diversi contrasti giurisprudenziali, merita di essere sinteticamente richiamata la questione relativa alla giurisdizione. Nel dubbio se la stessa fosse attribuibile al giudice amministrativo, la sentenza della Cassazione n. 23300 del 2016 ha definitivamente affermato la sussistenza della giurisdizione ordinaria. Si tratta, infatti, di un diritto soggettivo in materia assistenziale, per di più senza alcun esercizio di potere discrezionale da parte della Pubblica Amministrazione, ed è quindi di pertinenza del Giudice del Lavoro, Previdenza e Assistenza. Tale diritto, peraltro, non può considerarsi inerente al “rapporto di lavoro subordinato dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche”, ma si colloca al di fuori dell’ambito del contratto, ben potendo venire in rilievo anche con riferimento a soggetti che si ritrovino a svolgere a vario titolo un servizio per la P.A. al netto di un rapporto contrattualizzato. Dalla giurisdizione attribuita al giudice ordinario discendono conseguenze dotate di una certa serietà se si considera, a titolo esemplificativo, la prescrizione decennale per l’impugnazione del diniego, contrapposta ai sessanta giorni previsti innanzi al Tar. Inoltre va sottolineata la garanzia offerta dai tre gradi di giudizio, nonché la possibilità di riesaminare fatti di servizio, raccogliere testimonianze e disporre consulenze mediche per quantificare percentualmente le invalidità.