La Corte di Cassazione, con sentenza n. 23697 pubblicata il 10 ottobre 2017, è intervenuta a chiarire la portata del diritto al godimento delle ferie, in particolar modo del dirigente, nonché dei limiti alla relativa monetizzazione.
Nel caso di specie, un dirigente ricorreva avverso una pronuncia della Corte d’Appello di Trieste contestando il licenziamento per giusta causa comminatogli e richiedendo, in particolare, l’irrogazione di una somma a titolo di indennità sostitutiva e riferita alla totalità dei giorni di ferie dallo stesso non utilizzati. Il giudice di secondo grado, oltre a riconoscere la legittimità del licenziamento, aveva negato la monetizzazione del periodo di riposo con riferimento agli anni precedenti, limitando il diritto all’indennità all’anno in corso.
Investita della questione, la Suprema Corte ha avuto modo di ribadire il generale principio di irrinunciabilità delle ferie da parte del prestatore di lavoro, riferibile sia alla normativa interna che europea. In ossequio alla prescrizione costituzionale ex art. 36, a norma della quale “il lavoratore ha diritto al riposo settimanale ed alle ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi”, il D.Lgs. 66/2003 ha, infatti, sancito all’art. 10 il divieto di sostituire tale periodo di quattro settimane con “la relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto”. Il legislatore italiano ha inteso recepire, per mezzo del decreto suddetto, quanto disposto dalle fonti comunitarie e, più precisamente, dall’art. 7 comma 2 della direttiva 2003/88/CE dal contenuto pressoché analogo (“il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro”). La ratio di un simile divieto consisterebbe, a dire della Corte, nella necessità di garantire al lavoratore il godimento effettivo di tale periodo di riposo, ponendo un diritto irrinunciabile e indisponibile al riparo da eventuali abusi datoriali. La necessità di “tutela della sicurezza e della salute”, da parte dell’ordinamento, contemplerebbe allo stesso tempo l’esigenza a favore del dipendente di un’effettiva reintegrazione “delle energie psico-fisiche”, nonché della possibilità di fruire delle ferie per lo svolgimento di attività ricreative e culturali e per meglio dedicarsi a relazioni familiari e sociali, nell’ottica “di un equilibrato contemperamento delle esigenze dell’impresa e degli interessi dei lavoratori” (si leggano, in questo senso, le argomentazioni della Corte costituzionale, sentenza n. 95 del 2016).
L’unica eccezione prevista dalla normativa, inerente la risoluzione del rapporto di lavoro, dovrebbe interpretarsi in senso restrittivo ed essere, di conseguenza, limitata al periodo ancora pendente alla data della cessazione. A ben vedere, una lettura differente comporterebbe il rischio di neutralizzare la portata del divieto. Consentendo una monetizzazione delle ferie non godute negli anni precedenti, infatti, si aprirebbe la strada ad un’”indiscriminata convertibilità pecuniaria del diritto, anche se differita al momento della cessazione del rapporto”. Il lavoratore non risulterebbe, in ogni caso, del tutto privo di tutela, rimanendo per lo stesso salva la facoltà di agire, in sede civilistica, avverso l’inadempimento del datore di lavoro, allorquando abbia “violato le norme inderogabili” in oggetto, non consentendo un pieno recupero al dipendente delle energie psico-fisiche.
Ai fini dell’esperibilità di tale azione è, comunque, necessario che la causa del mancato godimento sia effettivamente imputabile al datore e, in questo senso, viene in rilievo la peculiarità della figura dirigenziale. Invero, qualora il dirigente, in ragione della posizione apicale ricoperta all’interno della azienda, sia titolare del potere di attribuire autonomamente in capo a se stesso il periodo di ferie, il mancato esercizio di tale facoltà “esclude la configurabilità di un inadempimento colpevole” da parte del titolare dell’impresa, dovendosi di conseguenza ritenere sussistente una vera e propria rinuncia alla fruizione. Il rigore di una simile preclusione risulta, ad ogni modo, attenuato dall’eccezione ricavabile da un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, in virtù del quale al dirigente è garantita la corresponsione dell’indennità sostitutiva nel caso in cui siano sopraggiunte “necessità aziendali assolutamente eccezionali ed obiettive” tali da limitare il proprio esercizio del potere nella determinazione del periodo (si veda, oltre alla pronuncia in oggetto, Cassazione, sentenza n. 13953 del 2009 e Cassazione, sentenza n. 11786 del 2005). Al riguardo, parrebbe gravare sullo stesso dirigente l’onere di dimostrare la sussistenza delle predette necessità, mentre sarebbe a carico del datore la prova relativa all’eccezione della presenza di un potere in capo al primo “di scegliere da se stesso tempi e modi di godimento delle ferie” (si legga, a tal proposito, Cassazione, sentenza n. 4920 del 2016).
A parziale completamento del quadro che si è tentato di tratteggiare, merita da ultima di essere richiamata la questione interpretativa relativa alla natura giuridica dell’indennità sostitutiva. Per quanto possa ritenersi pacifica la qualificazione, operata dalla giurisprudenza, del carattere risarcitorio della stessa, in virtù della necessaria compensazione di un danno “costituito dalla perdita del bene” (intendendosi con esso il diritto al riposo), tale figura parrebbe godere di un’ulteriore accezione, finendo per costituire “un’erogazione di natura retributiva”. Sulla base di tale impostazione, l’indennità sostitutiva delle ferie rappresenterebbe il corrispettivo di “un’attività lavorativa resa in un periodo che, pur essendo di per sé retribuito, avrebbe invece dovuto essere non lavorato” (cfr. Cassazione, sentenza n. 11562 del 2012, nonché Cassazione, sentenza n. 19303 del 2004).