Con l’ordinanza del 11 settembre 2017, n. 21082 la Corte di Cassazione ha chiarito, in maniera definitiva, la differenza esistente tra separazione personale dei coniugi e divorzio ai fini della quantificazione dell’assegno di mantenimento.

In particolare, rigettando il ricorso avverso una pronuncia della Corte d’appello di Roma, il Collegio è intervenuto a negare che in caso di separazione la mera capacità di produrre reddito sia idonea ad escludere il contributo aggiuntivo da parte del coniuge. Nel caso di specie, infatti, la notevole sproporzione esistente tra le due parti, in termini di condizione economica, non consentiva alla donna di mantenere lo stesso tenore di vita di cui godeva durante il coniugio e rendeva, quindi, legittima la maggiorazione dell’assegno. A differenza del divorzio, infatti, con la separazione personale è data per presupposta la permanenza del vincolo coniugale, così che l’assegno di mantenimento parrebbe rappresentare la concretizzazione di un dovere di assistenza materiale che continua a conservare la sua efficacia (Cass. Sentenza n. 12196/2017).

Una simile apertura si pone in netta controtendenza con la recente – e “rivoluzionaria” – svolta giurisprudenziale operata dalla sentenza n. 11504/2017. In tale circostanza, la Suprema Corte ha optato per il superamento, in caso di scioglimento, del parametro “tenore di vita in costanza di matrimonio” nella determinazione del quantum, ritenendolo, per molteplici ragioni,a distanza di quasi ventisette anni non più attuale. I requisiti, previsti dall’art. 5, comma 6, della legge n. 898 del 1970, consistenti nella mancanza di mezzi adeguati e nell’oggettiva impossibilità di procurarseli, richiederebbero, infatti, un’interpretazione di tipo restrittivo. Dal ragionamento della Corte emerge come, nel caso in cui il coniuge sia in possesso di redditi di qualsiasi specie, di cespiti patrimoniali mobiliari e immobiliari, disponga di capacità effettive al lavoro personale ovvero goda della disponibilità di una casa di abitazione, il convincimento del giudice sull’adeguatezza dei mezzi possa portare all’esclusione dell’assegno tout court. Si registra, per di più, un’inversione dell’onere probatorio; spetterebbe, infatti, al richiedente l’assegno dimostrare la sussistenza delle condizioni cui è subordinato il riconoscimento del diritto e, qualora si accertasse l’indipendenza economica o la possibilità di raggiungerla dello stesso, il diritto non andrebbe riconosciuto. Il principio della solidarietà economica non vede, peraltro, una totale disapplicazione, ma finisce per venire in rilievo esclusivamente nella determinazione della misura dell’assegno e non anche in fase di accertamento del diritto.

Nel passaggio maggiormente originale della pronuncia, la Corte rileva come l’interesse alla conservazione del tenore di vita matrimoniale non rappresenti un interesse giuridicamente rilevante o protetto; alla luce dell’estinzione del rapporto matrimoniale, in seguito al divorzio, ad estinguersi sono anche i rapporti economico-patrimoniali, cosicché se si ammettesse il riferimento al tenore di vita si rischierebbe di ripristinare in qualche modo il legame tra i coniugi, in una indebita prospettiva continua la Corte di ultrattività del vincolo matrimoniale. L’assegno divorzile che, nell’interpretazione tradizionale, è idoneo a procrastinare a tempo indeterminato il momento della recisione degli effetti economico-patrimoniali del vincolo coniugale, presenterebbe l’insito rischio di ostacolare significativamente l’eventuale costituzione di una nuova famiglia, ponendosi così in violazionedi un diritto fondamentale dell’individuo che è ricompreso tra quelli riconosciuti dall’art. 12 della Cedu e dall’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La funzione da attribuire a tale assegno, ove si integrino i presupposti della legge n. 898 del 1970, si limita alla tutela della persona singola e non tanto alle stessa come parte di una comunità ormai disciolta, intendendosi pertanto l’ex coniuge chiamato al rispetto del principio di autoresponsabilità.

Le reazioni della dottrina all’atto della pubblicazione della sentenza hanno prodotto interpretazioni decisamente discordanti. Autorevoli commentatori avevano da tempo manifestato una certa insofferenza verso il parametro, considerato un antistorico caposaldo dei giudizi divorzili. Taluno, tuttavia, non si è astenuto dal mettere in luce possibili profili problematici. In particolare, il concetto della non autosufficienza economica, come descritto dalla Corte, presenterebbe delle analogie con il presupposto previsto dal codice civile del diritto agli alimenti (ai sensi dell’art. 438 c. c. gli alimenti possono essere chiesti solo da chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento) e porrebbe, di conseguenza, problemi di raccordo tra gli istituti. A ben vedere, se all’analogia dei presupposti conseguisse, a livello di effetti, un’analogia in termini di frequenza nell’applicazione (considerato il tendenziale abbandono in via di prassi dell’istituto degli alimenti), il rischio di dover considerare i nuovi parametri offerti dalla pronuncia come eccessivamente restrittivi acquisirebbe una certa concretezza.