Il dogma della funzione esclusivamente riparatorio-compensativa della responsabilità civile, all’interno dell’ordinamento italiano, ha subito, ad opera della sentenza n. 16601 del 5 luglio 2017 della Suprema Corte di Cassazione, un inaspettato e radicale superamento.

L’orientamento giurisprudenziale e dottrinale atto a limitare il diritto al risarcimento all’effettivo danno subito senza la possibilità di corresponsione di somme ad altro titolo aveva da sempre escluso nel sistema giuridico nazionale la configurabilità dei c.d. danni punitivi, intendendosi con tale espressione una quantificazione della misura del risarcimento al danneggiato superiore rispetto all’effettivo pregiudizio patito. L’ordinamento non avrebbe potuto consentire “l’arricchimento” della parte lesa al netto della sussistenza di “una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro” (così la sentenza n. 1781 del 2012 della Corte di Cassazione).

Una simile fattispecie aveva visto la propria origine, nonché il proprio esponenziale sviluppo, all’interno dei Paesi anglosassoni, con finalità sanzionatorie, che taluno ha definito “parapenali”, in tutte quelle circostanze ove le azioni del danneggiante fossero perpetrare con dolo ovvero colpa grave. A venire in rilievo, in termini funzionali, era anche l’efficacia deterrente nei confronti di altri potenziali danneggianti e dello stesso autore del fatto illecito, oltre ad uno scopo premiale nei confronti della vittima che, affermando il proprio diritto, avrebbe contribuito al rafforzamento dell’ordine legale.

Nel caso di specie, una società americana rivenditrice di caschi chiedeva il riconoscimento in Italia, al fine di renderla esecutiva, di una sentenza statunitense in virtù della quale un produttore italiano di caschi da motocross era chiamato al pagamento di un indennizzo particolarmente ingente per i danni riportati da un motociclista e dovuti ad un difetto di produzione. In seguito all’accoglimento della domanda da parte della Corte d’Appello di Venezia, il produttore ricorreva in Cassazione, eccependo l’invalidità delle pronunce straniere alla luce del riconoscimento dei c.d. punitive damages in favore del danneggiato. Secondo il consolidato, sino a quel momento, orientamento della Suprema Corte, infatti, qualora vi fosse anche soltanto il dubbio circa la possibile presenza di danni punitivi nella decisione, delibandola si sarebbe incorsi in una violazione dell’ordine pubblico (Cassazione n. 1183/07), in quanto “punizione e sanzione erano estranei al risarcimento del danno” così come concepito dal legislatore italiano.

Riesaminando la propria interpretazione, le Sezioni Unite hanno inteso progredire rispetto al tradizionale carattere monofunzionale della responsabilità aquiliana, ossia limitato al fine reintegratorio, rilevando come la concezione del risarcimento in senso sanzionatorio non sia più “incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento”. Pur ammettendo la preponderanza, in ogni caso, della riparazione/compensazione quale attributo principale del risarcimento, lo stesso godrebbe ora di una “natura polifunzionale che si proietta verso più aree”, rendendo in tal modo possibile la configurazione dei danni punitivi. Una simile impostazione risponderebbe all’esigenza di garantire una maggior effettività della tutela, come, peraltro, già affermato in precedenza dal Giudice delle Leggi (Corte costituzionale, sentenza n. 152/16).

Sarebbero, a dire della Corte, già presenti in Italia da anni norme che prevedono rimedi risarcitori sostanzialmente sanzionatori. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, all’art. 125 del Codice della proprietà industriale (D.lgs n. 30/2005) a norma del quale al titolare del diritto leso è riconosciuto un risarcimento “determinato in un importo non inferiore a quello dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto una licenza” e prescindendo, quindi, dall’effettività del danno arrecato, nonché l’art. 18 secondo comma dello Statuto dei lavoratori “che prevede che in ogni caso la misura non” possa “essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto”.

La concezione di ordine pubblico sulla cui conformità della sentenza straniera il giudice della delibazione è chiamato a pronunciarsi, poi, avrebbe a sua volta conosciuto un’evoluzione, al punto da escludere il rigetto della domanda in virtù di una mera contrarietà della decisione ad una norma di diritto interno. La più ampia accezione di “ordine pubblico internazionale” comprenderebbe i principi generalmente riconosciuti dalla comunità internazionale e finirebbe per negare la delibazione di una sentenza limitatamente all’ipotesi in cui la stessa sia frutto “di basi normative” non idonee a garantire “la tipicità delle ipotesi di condanna”.

Appare opportuno precisare come ai principi affermati dalla pronuncia in oggetto non consegua la possibilità per il giudice di liquidare discrezionalmente somme aggiuntive rispetto all’entità dei danni subiti, rendendosi, in ogni caso, necessaria una norma ad hoc, alla luce della riserva di legge ex art. 23 Cost.. Non può, tuttavia, escludersi un futuro intervento legislativo che, sulla base dei moniti delle Sezioni Unite, addivenga ad un’organica rivisitazione del sistema italiano di responsabilità extracontrattuale.