Con l’ordinanza n. 28098 del 24 novembre 2017, la Corte di Cassazione sezione Lavoro è nuovamente intervenuta a chiarire gli elementi costitutivi della fattispecie di mobbing.
Occorre preliminarmente rilevare come, in assenza di un’espressa disposizione legislativa, tale forma di abuso sia stata introdotta all’interno dell’ordinamento per mezzo dell’elaborazione giurisprudenziale, in seguito alla relativa emersione di inizio anni Novanta nello scenario internazionale. Le prime pronuncein cui può riscontrarsi l’utilizzo dell’espressione “mobbing”(dall’inglese “to mob”, ossia “attaccare, assalire”) risalgono al 1999, anno in cui il Tribunale di Torino ha apprestato tutela ad una lavoratrice risultata vittima di vessazioni da parte del proprio capo reparto (si legga, in questo senso, Trib. di Torino, sentenza del 16 novembre 1999).
In termini generali, la fattispecie può inquadrarsi in una condotta del datore di lavoro che utilizzi pratiche vessatorie, aggressive e persecutorienei confronti di un prestatore e trae origine dalle ricerche della scienza psicologica che ha inteso ricomprendere, in tale espressione, fenomeni a vario titolo idonei ad integrare una forma di terrore psicologico. La vittima, in particolare, viene condotta progressivamente ad una situazione di estremo disagio, tale da provocare serie ripercussioni sul relativo equilibrio psico-fisico e da indurre la stessa alle dimissioni volontarie, ovvero a provocare un motivato provvedimento espulsivo (si legga, in questo senso, l’elaborazione scientifica dello psicologo del lavoro Harald Edge).
Nel caso di specie, una dipendente riteneva persecutorio il frequente esercizio (con modalità a suo dire contestabili), da parte del proprio titolare del potere disciplinare. In particolare, lo stesso aveva provveduto, in ragione di episodi concernenti l’utilizzo del vestiario aziendale da parte della lavoratrice, ad irrogarle nell’anno 2005 ben quattro sanzioni, circoscritte nell’arco di cinque mesi. La Corte, in considerazione della notevole distanza temporale intercorrente tra i predetti provvedimenti e il precedente, nonché successivo, esercizio del relativo potere da parte del datore (lo stesso si era reso protagonista di due contestazioni disciplinari nell’anno 2003, di un’ulteriore contestazione nell’anno 2006 e di una sanzione nel 2007), ha ritenuto non sussistente, ai fini dell’applicazione di una tutela per la controversia in oggetto, la condizione della metodicità delle condotte. Invero, a dire del supremo giudice, gli episodi denunciati sarebbero risultati sprovvisti del “carattere della sistematicità e della durata dell’azione”, per di più“non collegati tra loro da un medesimo intento persecutorio”.
Perché possa configurarsi una reale lesione della sfera del lavoratore occorre, infatti, il concorso di particolari condizioni, precisamente individuate dalla stessa Corte di Cassazione in più di una pronuncia. In primo luogo, come sopra richiamato, è richiesta l’assunzione di “una serie di comportamenti di carattere persecutorio” – illeciti o anche leciti se considerati singolarmente – “che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi” (si leggano, in questo senso, Cassazione, sentenza n. 18836 del 2013, sentenza n. 17698 del 2014, sentenza n. 1258 del 2015, sentenza n. 2142 del 2017). Giova, sotto tale profilo, sottolineare come la dottrina giuslavoristica abbia operato una distinzione terminologica della fattispecie, a seconda che la persecuzione sia attuata direttamente dal datore ovvero da un collega di pari grado della vittima: nel primo caso può parlarsi di “mobbing verticale discendente” (essendo, per converso, “ascendente” nella rara ipotesi di persecuzioni nei confronti di un superiore gerarchico), allorquando, invece, provenga da altro lavoratore di pari grado è definito “mobbing orizzontale”.
Dalle medesime sentenze del giudice di legittimità emerge come tali comportamenti non siano di per sé sufficienti ad integrare la fattispecie di mobbing lavorativo, dovendosi ritenere necessaria un’effettiva lesione della salute (ovvero della personalità o dignità del prestatore), accompagnata dalla sussistenza del nesso eziologico “tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità”. Con riferimento all’elemento soggettivo, poi, i comportamenti posti in essere dal datore devono ricondursi interamente ad un preciso “intento persecutorio unificante”. In questo senso, la stessa scienza psicologica ha rilevato come sussista una profonda differenza tra il mobbing vero e proprio ed altre situazioni che, seppur concretamente traumatizzanti, siano dovute a fattori caratteriali ed emozionali. A tal proposito un elemento imprescindibile atto a negare che possa trattarsi di condotte di altra natura è, per l’appunto, rappresentato dal fattore temporale, dovendosi ritenere integrata la fattispecie ove i comportamenti si siano protratti nel corso di – almeno – sei mesi continuativi (cfr. H. Edge, op. cit.).