Il diritto di critica del lavoratore tra libertà di manifestazione e dovere di fedeltà

Il diritto di critica del lavoratore deve confrontarsi con altri diritti connessi alla libertà di iniziativa economica del datore di lavoro e alla salvaguardia del rapporto fiduciario sotteso alla relazione lavorativa, che può risultare irrimediabilmente compromesso da un comportamento del lavoratore di critica e /o di espressione del proprio pensiero non adeguatamente espresso fino ad integrare un illecito disciplinare.

Bilanciamento
Il diritto di critica, in forza del quale i dipendenti possono assumere posizioni critiche nei confronti del datore di lavoro, trova fondamento innanzitutto nell’art. 21 Cost., inoltre nell’ambito dei luoghi di lavoro, il diritto di critica è sancito dall’art. 1 L. 300/70 (c.d. “Statuto dei lavoratori”). Il diritto di critica del dipendente postula un necessario bilanciamento tra la libertà di manifestare il proprio pensiero e la tutela dell’onore e della reputazione dell’azienda (Cass. 18 gennaio 2019 n. 1379) e deve rispettare i canoni contrattuali generali di correttezza e buona fede, di cui agli artt.1175 e 1375 c.c. e quelli specifici di fedeltà aziendale, di cui all’art. 2105 c.c..

Limiti
Già a partire dal 1986 (Cass. 25 febbraio 1986 n. 173), la giurisprudenza ha individuato regole volte a contemperare il diritto stabilito dall’art. 21 Cost. con altri diritti concernenti beni di pari
rilevanza costituzionale, quali il diritto del datore di lavoro alla tutela del proprio onore e della propria reputazione. Si è così stabilito che il comportamento del lavoratore che divulghi fatti e accuse che, ancorché vere, siano idonee a ledere l’onore e la reputazione del datore di lavoro, esorbita dal legittimo esercizio del diritto di critica, e può configurare un fatto illecito e consentire il recesso del datore di lavoro, ove l’illecito stesso risulti incompatibile con l’elemento fiduciario necessario per la prosecuzione del rapporto, qualora si traduca in una condotta che non trovi, per modalità e ambito delle notizie fornite e dei giudizi formulati, adeguata e proporzionale giustificazione nell’esigenza di tutelare interessi di rilevanza giuridica almeno pari al bene oggetto dell’indicata lesione.
La successiva evoluzione giurisprudenziale ha poi individuato con precisione i limiti al diritto di critica del dipendente.
Con la sentenza n. 1379 del 18 gennaio 2019, la Cassazione ha illustrato con chiarezza i limiti entro cui il diritto in esame può essere esercitato, affermando che la critica avanzata da un lavoratore nei confronti del proprio datore sfocia in un illecito disciplinare laddove la stessa non rispetti i requisiti della verità, continenza e pertinenza (tra le decisioni più recenti, si segnala la
sentenza App. Brescia 3 novembre 2022 n. 281).

Limite formale
Il limite della continenza formale comporta che l’esposizione della critica debba avvenire con modalità espressive che possano dirsi rispettose di canoni, generalmente condivisi, di correttezza,
misura e civile rispetto della dignità altrui. Pur essendo ammissibili espressioni astrattamente offensive e soggettivamente sgradite al datore di lavoro, il dipendente deve quindi evitare di utilizzare frasi denigratorie, scurrili e diffamatorie. Il dissenso può essere manifestato anche mediante la satira purché non travalichi il limite della tutela della persona umana.

Il limite della continenza formale può dirsi superato, ad esempio, ove si attribuiscano all’impresa datoriale (o ai suoi rappresentanti) qualità apertamente disonorevoli, con riferimenti volgari e
infamanti e tali da suscitare disprezzo e dileggio, o si rendano affermazioni ingiuriose e denigratorie, con l’addebito di condotte riprovevoli o moralmente censurabili, se non addirittura integranti gli estremi di reato, oppure anche ove la manifestazione di pensiero trasmodi in attacchi puramente offensivi della persona presa di mira.
La valutazione di questo limite, mutuato dai limiti del diritto di critica e di cronaca in ambito giornalistico e letterario, come vedremo più avanti, non può prescindere dal contesto di riferimento, nel senso che le modalità espressive possono assumere una valenza diversa a seconda dell’ambito in cui è manifestato il pensiero.

Limite sostanziale
In base al limite della continenza sostanziale, ove la critica si traduca nell’attribuzione di condotte che si assumono come storicamente verificatesi, i fatti narrati devono corrispondere a verità, sia pure non assoluta, ma corrispondente ad un prudente apprezzamento soggettivo di chi dichiara gli stessi come veri. Viene quindi in rilievo l’atteggiamento anche colposo del lavoratore.

La pertinenza
Quanto al terzo limite, la pertinenzaè intesa come la rispondenza della critica ad un interesse meritevole in confronto con il bene suscettibile di lesione. La manifestazione del pensiero deve quindi essere funzionale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante del lavoratore che, nell’ambito di un rapporto di impiego, è quello che si relaziona direttamente o indirettamente con
le condizioni del lavoro e dell’impresa, come le di rivendicazioni di carattere latu sensusindacale o le manifestazioni di opinione attinenti il contratto di lavoro. Sono invece suscettibili di esondare dal limite della pertinenza le critiche rivolte al datore di lavoro afferenti alle sue qualità personali, oggettivamente avulse da ogni correlazione con il rapporto contrattuale e gratuitamente mirate a ledere la sua onorabilità.
Il superamento di tali limiti, anche uno solo di essi, rende la condotta lesiva dell’onore datoriale non scriminata dal diritto di critica e suscettibile di rilievo disciplinare, in quanto contraria al dovere di fedeltà sancito dall’art. 2105 c.c.. L’obbligo va qui inteso in senso ampio e deve essere interpretato alla luce dei principi generali di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto
tra le parti che, se violati, possono ledere il vincolo fiduciario sul quale si fonda il rapporto di lavoro (App. Brescia 20 maggio 2020 n. 131).

La particolare posizione dei rappresentanti sindacali
Un aspetto particolarmente delicato concerne l’esercizio del diritto di critica in ambito sindacale, ove il confronto delle opinioni può essere caratterizzato da toni oggettivamente aspri e polemici
dovuti al fatto che si tratta di lavoratori che si confrontano con la controparte datoriale al fine di tutelare gli interessi della categoria. Al riguardo, la Cassazione ha in più occasioni precisato che il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale se, quale lavoratore subordinato, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, si pone, in relazione all’attività di sindacalista, su un piano paritetico con il datore di lavoro. Detta attività, afferma la Corte, è espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall’art. 39 Cost. e non può, in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro, essere compressa dai poteri datoriali. In altre parole, quando l’espressione critica sia finalizzata al perseguimento e alla tutela di un interesse collettivo, il lavoratore sindacalista è titolare di due distinti rapporti con l’imprenditore: come lavoratore, in posizione subordinata con il datore di lavoro, e come sindacalista, invece in una posizione parificata a quella della controparte. Di conseguenza, la contestazione dell’autorità e della supremazia del datore di lavoro, siccome
caratteristica della dialettica sindacale, ove posta in essere dal lavoratore sindacalista e sempreché inerisca all’attività di patronato sindacale, non può essere sanzionata disciplinarmente. Il diritto di critica del lavoratore risulta pertanto rafforzato qualora venga esercitato da un dipendente con funzioni di rappresentanza sindacale all’interno dell’azienda (Cass. 5 luglio 2002 n. 9743).

La scriminante del diritto di critica sindacale
Si configura la scriminante dell’esercizio del diritto di critica sindacale e politica nel caso in cui l’espressione del pensiero sia manifestata, ad esempio, attraverso la pubblicazione di articoli contenenti invettive volte a stigmatizzare gli atteggiamenti e la complessiva condotta di sfruttamento dei lavoratori, purché la critica risulti funzionale alla disapprovazione della condotta stessa e non trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione (Cass. pen. 4 maggio 2022 n. 17784).
Al fine di valutare il rispetto del limite della continenza occorre, secondo i giudici di legittimità, contestualizzare le espressioni intrinsecamente ingiuriose, ossia valutarle in relazione al contesto
spazio-temporale e dialettico nel quale sono state profferite e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur forti e sferzanti, non risultino meramente gratuiti, ma siano invece pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere.
Il contesto dialettico nel quale si realizza la condotta può dunque essere valutato ai fini del giudizio di stretta riferibilità delle espressioni potenzialmente diffamatorie al comportamento del soggetto passivo oggetto di critica, ma non può mai scriminare l’uso di espressioni che si risolvano nella denigrazione della persona di quest’ultimo in quanto tale (Cass. pen. 24 giugno 2016 n.
37397). Posto che non è configurabile in assoluto una “scriminante sindacale”, l’attività sindacale, pur costituzionalmente tutelata, deve essere svolta nei limiti della correttezza formale e sostanziale qualora tali limiti vengano oltrepassati mediante l’attribuzione all’impresa datoriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il
comportamento del lavoratore potrà essere legittimamente sanzionato in disciplinare.

Le critiche sui social network
Sempre più aziende sono costrette a confrontarsi con le critiche pubblicate dai propri dipendenti sui social network. Se è lecito scrivere un post commentando fatti realmente accaduti con un linguaggio moderato, la giurisprudenza non ammette invettive personali e attacchi ingiustificati. Così, la Cassazione ha ritenuto sussistere giusta causa di recesso, in quanto inidonea a ledere il
vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo, la diffusione su Facebook di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro, integrando tale condotta gli estremi della diffamazione, per l’attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone.
La condotta contestata e posta a base del licenziamento consisteva in affermazioni pubblicate dalla dipendente sulla propria bacheca Facebook con cui esprimeva disprezzo per l’azienda (Cass. 27 aprile 2018 n. 10280). A diverse valutazioni possono condurre i commenti postati nelle chat private e nei gruppi chiusi. Così, in tema di licenziamento disciplinare, i messaggi scambiati in una chat privata (nel caso in esame, la chat di un gruppo Facebook), seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non sono stati ritenuti giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, sono stati considerati al pari della corrispondenza privata che in quanto tale è inidonea a realizzare una condotta diffamatoria: la comunicazione con più persone in un ambito riservato impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse (Cass. ord. 10 settembre 2018 n. 21965).
Il Tribunale di Milano, con la Sentenza n. 1622 del 30 maggio 2017, ha invece dichiarato la legittimità del licenziamento disciplinare del ricorrente che attraverso la creazione, condivisa con i colleghi di lavoro, di un gruppo sulla piattaforma messaggistica Whatsapp intitolato al proprio superiore gerarchico aveva intenzionalmente posto in essere una condotta volta a denigrare il proprio responsabile.