Il licenziamento è, come noto, il momento decisamente più critico del rapporto lavorativo, per entrambe le parti coinvolte. Pertanto, è facilmente desumibile che tale complessità aumenti a dismisura quando i dipendenti destinatari di un provvedimento del genere compongano un numero rilevante. In tale eventualità, le norme di legge vigenti hanno il compito di tutelare al massimo i dipendenti che vengano colpiti da un provvedimento del genere, imponendo al datore una serie di criteri di cui deve tener conto nel momento della scelta dei lavoratori da licenziare.

Procedura

La norma di riferimento per il licenziamento collettivo è la legge n. 223/1991, in base alla quale una azienda di grandi dimensioni (che, cioè, impieghi almeno quindici dipendenti in base all’occupazione media dell’ultimo semestre) in un arco di tempo massimo di centoventi giorni – decorrenti dalla conclusione della procedura di riduzione del personale – in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa Provincia, procede ad almeno cinque licenziamenti, tutti comminati per giustificato motivo oggettivo a causa della riduzione, trasformazione o cessazione dell’attività produttiva. Affinché tali licenziamenti siano considerati legittimi, è fondamentale che sia effettiva la sussistenza di un nesso di causalità tra uno degli eventi appena citati coinvolgenti l’azienda e il ridimensionamento del numero dei dipendenti. Altresì, è necessario che dietro questa decisione vi sia un nesso di congruità tra l’entità dell’evento abbattutosi sull’attività imprenditoriale e il conseguente ridimensionamento. Nel caso in cui sia messa in dubbio l’esistenza di questi due elementi la prova grava, naturalmente, sul datore di lavoro.

Tale procedura si applica a tutti i dipendenti, dunque ai quadri, agli impiegati, operai ed anche ai dirigenti, seppur con determinate peculiarità che, tuttavia, non possono trovare una specifica analisi in questa sede.

Data la delicatezza dell’elemento trattato, al fine di non commettere errori né discriminazioni, la legge prevede una dettagliata procedura per giungere ad un licenziamento collettivo che sia legittimo, il quale è costituito da due diverse fasi, una prettamente sindacale e l’altra amministrativa. Si tratta di soluzioni una successiva ed eventuale all’altra con lo stesso contenuto: sostanzialmente, cambia infatti l’interlocutore cui si fa riferimento. In ogni caso, lo scopo di entrambe le fasi è quello di fare da “filtro” al fine di trovare un accordo vantaggioso sia per il datore che per i dipendenti. Laddove così non fosse, e non si riuscisse a trovare un punto di incontro, entrambe le fasi terminano con il recesso da parte dell’imprenditore.

La comunicazione deve avere forma scritta e rispettare una serie di requisiti in mancanza dei quali la stessa potrebbe invalidare l’intero procedimento oggetto della presente trattazione. In particolare, in essa devono essere indicati i motivi che determinano la situazione di eccedenza nonché quelli tecnici, organizzativi e produttivi per i quali non vi sono alternative alla diminuzione del personale in forze; il numero, la collocazione aziendale e i profili professionali del personale (sia quello in esubero che quello che si ritiene di voler mantenere impiegato); i tempi di attuazione del programma di riduzione del personale; le misure eventualmente programmate al fine di fronteggiare le conseguenze sul piano sociale; il metodo di calcolo delle attribuzioni patrimoniali, se previste in modalità differente rispetto alla normativa di legge o agli accordi sindacali vigenti.

La comunicazione deve essere inviata alle Rappresentanze sindacali (Rsa o Rsu se presenti) e alle rispettive associazioni di categoria. Copia della comunicazione di avvio deve essere inviata sia alle competenti strutture provinciali (delegate dalla Regione), o alla Regione direttamente in loro assenza, ovvero al Ministero del Lavoro se la procedura interessa unità produttive ubicate in più Regioni.

Il passo successivo consta, ove ritenuto necessario, di un esame congiunto delle parti coinvolte (da richiedersi entro e non oltre sette giorni dalla comunicazione) in merito alla situazione effettiva dell’azienda, alle motivazioni che hanno portato al licenziamento collettivo, nonché alle possibili alternative. Nel caso in cui le parti riescano già in questa sede a trovare un accordo, ricercano tutte le possibili opzioni disponibili al fine di tutelare al meglio i dipendenti eventualmente coinvolti nel licenziamento: ad esempio una loro ricollocazione all’interno della stessa unità produttiva, il loro distacco verso una azienda terza o, ove tali strade non fossero percorribili, il ricorso a misure sociali di accompagnamento che ne catalizzino la riqualificazione e renderli immediatamente disponibili ad una nuova posizione lavorativa. Inoltre, possono altresì prevedersi recessi incentivati per i lavoratori altrimenti destinatari del provvedimento di licenziamento, con particolare attenzione alle figure vicine all’età pensionistica. Alla conclusione di tale accordo (fase sindacale) deve pervenirsi entro un massimo di quarantacinque giorni dalla ricezione della comunicazione da parte del datore di lavoro.

All’esito dell’incontro con le Rappresentanze sindacali, abbia esso raggiunto un esito positivo o negativo, il datore di lavoro deve dare comunicazione scritta della sua conclusione all’Ufficio compente al quale ha trasmesso la comunicazione di avvio della procedura chiarendo altresì i motivi dell’insuccesso delle trattative nel caso in cui l’accordo non sia stato raggiunto.

È possibile, in ogni caso, che il tentativo di conciliazione di cui si è appena detto non venga perseguito: in questa evenienza, o laddove lo stesso non riuscisse ad essere produttivo di un valido accordo finale tra le parti, l’Organo pubblico cui era stata data iniziale comunicazione ha il potere di convocarle e provare così a cercare una diversa strategia di accordo (entro trenta giorni dall’ulteriore trasmissione della notizia).

Se il datore di lavoro non rispetta la procedura descritta (o essa viene violata in alcune delle sue parti) e procede direttamente al licenziamento, il rapporto di lavoro che ne è oggetto si considera cessato alla data della sua comminazione, ma è prevista una indennità risarcitoria di valore parametrato a un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità (in base all’ultima retribuzione globale di fatto), tenendo conto della anzianità del lavoratore, del numero di dipendenti che restano in forze in azienda, del comportamento processuale e non delle parti sino a quel momento.

Criteri di scelta

La scelta dei lavoratori da licenziare deve avvenire in base ai criteri stabiliti dall’ art. 5 della legge n. 223/1991 rubricato «Criteri di scelta dei lavoratori ed oneri a carico delle imprese».

In particolare, tali scelte devono essere fatte in base alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale nonché nel rispetto degli elementi che, di norma, vengono identificati già in sede di stipula del relativo accordo con i Rappresentanti sindacali o con l’Autorità pubblica coinvolta. Nell’accordo in questione possono già indicarsi, peraltro, i nominativi dei dipendenti cui sarà comminato il licenziamento, poiché già in quella sede è possibile procedere ad un esame estremamente pratico della situazione aziendale. È in ogni caso fondamentale che i criteri adottati in questo scenario – anche se si tratta di un solo criterio – consentano di stilare una lista il più meritocratica e corretta possibile tenendo conto delle necessità non solo del datore di lavoro, ma anche e soprattutto dei dipendenti. Ove tale eventualità non si fosse verifica, la legge n. 223/1991 chiarisce, in via generale, i criteri che devono ispirare la scelta dei dipendenti con cui il rapporto di lavoro debba cessare: i carichi di famiglia che gravano su di essi, la loro anzianità (sia anagrafica che di servizio) e, come già detto, le esigenze meramente produttive ed organizzative dell’azienda. Si tratta di elementi che vengono tenuti in considerazione, di norma senza che uno prevalga sugli altri. Il datore può infatti decidere di dare preminenza ad uno in particolare; in generale, tuttavia, essi concorrono globalmente a stabilire quale sia il dipendente che maggiormente meriti di mantenere il proprio posto all’interno del luogo di lavoro. Naturalmente, queste scelte devono essere in ogni caso influenzate dai criteri di buona fede e correttezza che, anche in tale fase, restano vigenti nel rapporto tra datore e lavoratore.

Comminazione del licenziamento

Una volta rispettati tutti i punti della procedura, ove sia stato raggiunto un accordo finale, il datore di lavoro procede al licenziamento mediante atto scritto dei dipendenti eccedentari. Da tale momento decorre un termine di sette giorni entro cui deve essere data notizia di tali avvenimenti agli Uffici competenti della Regione, della Provincia, ai sindacati di categoria, nonché all’Inps.

Cass. civ. 10 novembre 2021, n. 33183

Di recente, la Suprema Corte è nuovamente tornata ad occuparsi dell’argomento di cui alla presente trattazione, chiarendo alcuni elementi ad esso relativi.

Nel caso di specie, la vicenda principiava con il rigetto, da parte della Corte d’Appello di Firenze, dell’impugnazione di una sentenza del relativo Tribunale; quest’ultimo, chiamato ad esprimersi sulla legittimità di un licenziamento (in corso di procedura di licenziamenti collettivi) comminato ad un lavoratore, aveva in effetti dichiarato la soccombenza dell’azienda datrice di lavoro, condannandola alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento, in suo favore, di una indennità risarcitoria. Come si è detto, impugnata tale decisione dinanzi la Corte di Appello competente, anche quest’ultima rigettava le doglianze della società che, pertanto, giungeva dinanzi la Suprema Corte di Cassazione, insistendo per la legittimità del provvedimento adoperato.

In particolare, il lavoratore lamentava la violazione dei criteri di scelta da utilizzare nel procedimento di licenziamento collettivo segnatamente a causa della mancanza di specificazione delle ragioni di riduzione del personale in esubero rispetto a quello del settore esternalizzato cui l’azienda faceva riferimento e nel quale il ricorrente era ricompreso, interamente licenziato senza alcuna giustificazione dell’autonomia del settore medesimo, né dell’impossibilità di una diversa collocazione aziendale del personale per infungibilità di mansioni con quelle degli altri lavoratori.

Costituendosi a propria difesa, la datrice di lavoro riteneva di aver correttamente giustificato la decisione del licenziamento in adesione alla normativa vigente, avendo dichiarato all’interno della comunicazione iniziale la circostanza generante l’eccedenza di personale (identificata nella definitiva cessazione della gestione diretta dei servizi sino a quel momento esternalizzati), la proposta di diverso lavoro presso la società appaltatrice, attesa l’impossibilità di adibirlo ad altri settori, nonché il mancato raggiungimento di un accordo con le organizzazioni sindacali.

Dinanzi tale situazione, la Suprema Corte di Cassazione riteneva tuttavia infondate le motivazioni poste a difesa del proprio operato da parte della società datrice di lavoro.

Anzitutto, essa infatti chiariva che «il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti ad un determinato reparto o settore [in fase di ristrutturazione] se essi siano idonei – per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda – ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti, con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative (Cass. 12 gennaio 2015, n. 203; Cass. 1° agosto 2017, n. 19105)». Su questa scia, gli Ermellini proseguivano stabilendo che la comunicazione preventiva con cui il datore di lavoro dà inizio alla procedura di licenziamento collettivo trova la sua ratio nel fatto di fornire a chi di competenza le informazioni interne relative agli elementi pratici della procedura, così come sono state indicate supra. Pertanto, tale documento contrasta con l’obbligo normativo de quo quando i dati comunicati siano incompleti o inesatti, la funzione sindacale di controllo e valutazione sia stata limitata, o quando sussista un rapporto causale fra l’indicata carenza e la limitazione della funzione sindacale. L’adeguatezza del contenuto della comunicazione con la sua funzione prevista dalla normativa di riferimento deve essere valutata dal Giudice adito, chiamato a decidere con valutazione di merito non censurabile nel giudizio di legittimità ove assistita da un accertamento sufficiente e non contraddittorio. Preliminarmente, tuttavia, ed a prescindere dal successivo controllo da parte dell’Autorità giudiziaria, la comunicazione iniziale deve essere in grado di concretamente rendere le organizzazioni sindacali edotte degli elementi di cui si è detto con la fondamentale finalità di escludere maliziose elusioni dei poteri di controllo delle stesse.

Pertanto, in applicazione di tali principi, gli Ermellini facevano proprio l’iter argomentativo della Corte territoriale che, sulla medesima questione, aveva valutato che «la mancanza della specificazione circa le ragioni che impedivano di ovviare ai licenziamenti con il trasferimento dei dipendenti in esubero in altri settori aziendali non essendo a tal uopo sufficiente la indicazione della mera esternalizzazione del servizio nonché l’assenza di altri posti disponibili in azienda nei quali collocarli – e la carenza di indicazioni circa l’autonomia dei reparti e l’infungibilità delle mansioni svolte, si fossero tradotte in una incompleta e distorta informazione che si riverberava sulla corretta esplicazione delle fasi successive della procedura».

A seguito della declaratoria di inefficacia della comunicazione iniziale, il Giudice territoriale aveva, altresì, riconosciuto la tutela reintegratoria in favore del lavoratore illegittimamente licenziato. Anche nei confronti di tale provvedimento, la società aveva proposto reclamo, sulla scorta del principio di applicazione di detto regime ratione temporis, dovendosi invece fare riferimento alla tutela di tipo indennitario. Dinanzi a tale puntualizzazione, la Corte tornava a chiarire, come già aveva fatto in passato, che «mentre la mera irregolarità della procedura di riduzione del personale produce conseguenze solo risarcitorie, la violazione dei criteri di scelta (in quanto inerenti il licenziamento di singoli lavoratori) dà luogo all’annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità». Pertanto, gli Ermellini chiarivano come l’applicazione della tutela reintegratoria sia un adempimento automatico, determinato dall’irregolarità della procedura, a norma dell’art. 4, comma 12, della legge n. 223/1991. Può, dunque, concludersi che per i licenziamenti collettivi, secondo il diritto positivo, non esiste la possibilità di individuare una tutela diversa da quella appena indicata. Nonostante tale principio di diritto appena affermato, la Suprema Corte offriva una ulteriore precisazione in merito: «tuttavia […] i due regimi, in astratto senza dubbio separati, non [devono] – in concreto – essere rigidamente distaccati, ma [vanno considerati] in relazione tra loro perché, qualora il vizio della comunicazione (che riguardi sia quella di avvio, sia quella di conclusione della procedura) consista nella insussistenza di elementi di fatto che incidano sulla corretta applicazione dei criteri di scelta, allora la violazione non è di natura esclusivamente formale, ma si riverbera sul recesso in modo sostanziale perché non concerne più solo la regolarità della procedura amministrativa, bensì incide sulla lesione effettiva del diritto del singolo lavoratore alla conservazione del posto di lavoro. […] è poi testualmente precisato che l’individuazione dei lavoratori da licenziare deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contatti collettivi ovvero, in mancanza, nel rispetto dei criteri legali. Qualora, pertanto, la violazione delle procedure richiamate […] incida sulla individuazione dei lavoratori da licenziare, perché il vizio della comunicazione porta a ritenere l’assenza o l’arbitrarietà dei criteri di scelta e tale vizio non sia sanato nelle successive fasi della procedura, allora ricadendo sull’aspetto sostanziale della legittimità dei licenziamenti adottati, la tutela non può che essere quella dell’art. 18, quarto comma, legge n. 300 del 1970 […]».

Tra gli altri motivi apportati dalla società a sostegno della legittimità del licenziamento intimato, quest’ultima riteneva altresì di aver rispettato i criteri di scelta dei lavoratori coinvolti nella procedura, in particolare di quello tecnico-organizzativo, alla base della terziarizzazione dei servizi di facchinaggio e di pulizia delle camere, interamente soppressi (e, pertanto, senza esigenza di alcuna comparazione interna), nell’obiettiva infungibilità del personale addetto ad essi (né avendo, in particolare, il lavoratore, mai svolto mansioni diverse da quella di facchino ai piani) con quello addetto ad altri settore e, infine, di aver osservato i principi di correttezza e buona fede, poiché la stessa aveva fatto in modo che fosse offerta una possibilità lavorativa, ai dipendenti cui aveva comminato il licenziamento, alle dipendenze della società appaltatrice dei servizi esternalizzati. A tale elemento, la Corte di Cassazione rispondeva richiamando due precedenti pronunce (sent. 31 luglio 2012, n. 13705 e sent. 3 novembre 2008, n. 26376) precisando che per singole unità produttive, in relazione alle quali è prospettabile la legittimità di un licenziamento collettivo dei soli addetti ad esse, devono intendersi quelle articolazioni dell’azienda che siano caratterizzate per condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica e amministrativa ove si esaurisca per intero il ciclo relativo ad una frazione o ad un elemento essenziale della attività, con esclusione delle articolazioni aziendali che abbiano funzioni ausiliari o strumentali. Tenendo bene in mente questi elementi, è legittimo instaurare la procedura di licenziamento collettivo se il progetto di ristrutturazione che lo causa si riferisce soltanto ad una unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, agli addetti ad essi sulla base soltanto di oggettive esigenze aziendali, purché siano dotati di professionalità specifiche, infungibili rispetto alle altre. Tuttavia, notava la Suprema Corte, le condizioni appena descritte non aderivano al caso di specie, poiché la riduzione del personale riguardava singole posizioni lavorative che non necessitano di particolare addestramento e/o speciale competenza rispetto ad altre posizioni del medesimo livello contrattuale e che non erano state coinvolte in tale procedura. Pertanto, chiarivano gli Ermellini, «la comparazione dei lavoratori doveva, quindi, avvenire (e su tale punto la comunicazione di avvio avrebbe dovuto essere chiara e specifica) tra tutti i dipendenti di professionalità equivalente inquadrati nello stesso profilo professionale, non limitandosi a tenere conto delle mansioni concretamente svolte in quel momento, ma anche della capacità professionale degli addetti alle mansioni da sopprimere, mettendo quindi a confronto tutti coloro che fossero in grado di svolgere le mansioni proprie dei settori che sopravvivevano all’esternalizzazione, indipendentemente dal fatto che, in concreto, non le esercitassero al momento del licenziamento collettivo». Poiché così non era stato, la posizione della società non poteva che dirsi, anche con riferimento a quest’ultimo elemento, soccombente.

Pertanto, la Suprema Corte di Cassazione rigettava il ricorso della società datrice di lavoro e, così come avevano già fatto la Corte territoriale ed il Giudice d’Appello prima, e la riconosceva soccombente in favore del dipendente illegittimamente licenziato.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO