Numerosi sono gli argomenti che possono trasversalmente venire in considerazione in relazione alla tutela nonché alla sicurezza dei lavoratori. La trattazione odierna, in particolare, si focalizza sull’elemento della formazione continua del dipendente: chi ne sia davvero il responsabile – se il lavoratore stesso o il suo datore, che pure andrà a beneficiare delle nuove conoscenze reperite – dove essa vada svolta, e in che termini. Tutti questi elementi vengono analizzati altresì alla luce della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea del 28 ottobre 2021 in Causa n. 909/2019.
La formazione del lavoratore dipendente
Anzitutto, è bene chiarire che la formazione c.d. “continua” del lavoratore si differenzia, fondamentalmente, da quella iniziale necessaria ad inserire il dipendente nella nuova realtà lavorativa che dovrà affrontare in qualità di neo-assunto. Quella oggetto della presente trattazione è, invece, destinata a chi sia già occupato, avendo peraltro questi la possibilità di parteciparvi in via autonoma previa autorizzazione della azienda datrice di lavoro, o su indicazione della stessa – questo secondo caso, di norma, si configura ogni qualvolta l’attività di formazione è condicio sine qua non per lo svolgimento della prestazione lavorativa (ad esempio se riguarda novità del campo di competenza, metodologie obbligatorie, strumenti aggiornati per la conclusione degli affari); il suo scopo è quello di aumentare la competitività dell’impresa e rafforzarne l’elemento professionale ed occupazionale.
Le attività formative di cui si è appena detto possono svolgersi sia all’interno dell’abituale luogo di lavoro o anche al di fuori di esso, ed allo stesso modo durante l’orario adibito alla prestazione della propria attività o meno: in tali casi, la normativa prevede l’utilizzo degli istituti contrattuali specifici esistenti. Ulteriori elementi normativi posso essere recuperati nella L. 236/93 (di conversione del D.L. 148/93).
Di norma, il costo per la formazione dei dipendenti grava interamente sul datore di lavoro, specialmente quando sia quest’ultimo a promuovere attività di tal sorta, in quanto ne sarebbe, in definitiva, il beneficiario finale poiché sarà la propria azienda a godere delle migliori competenze che attraverso tale canale i dipendenti apprenderebbero e metterebbero a sua disposizione. A sostegno dei costi (spesso ingenti) che la formazione continua richiede vengono annualmente stanziati dei fondi c.d. “interprofessionali” la cui adesione da parte delle aziende è gratuita: se ne occupano organismi di natura associativa creati e promossi da organizzazioni sindacali; essi vengono finanziati tramite un contributo obbligatorio INPS versato da tutte le aziende (pari allo 0.30% per ciascun dipendente in forze).
Inoltre, è stato recentemente introdotto in via sperimentale un istituto – destinato principalmente alle imprese di grandi dimensioni – volto ad assumere nuove professionalità garantendo, simultaneamente, la riqualificazione professionale dei dipendenti già in forze nonché un decoroso accompagnamento alla pensione dei lavoratori vicini a tale traguardo: si tratta del c.d. “contratto di espansione”. Di esso (ed ecco che tale istituto diventa rilevante ai fini della presente trattazione) è parte integrante il “progetto di formazione e riqualificazione”, all’interno del quale vengono indicate, inter alias, delle misure idonee a garantire la formazione dei lavoratori così che possano avere maggiori responsabilità all’interno dell’azienda.
La sentenza CGUE del 28 ottobre 2021, nella Causa 909/19
Come si è appena visto, la disciplina relativa alla pratica evasione dell’obbligo formativo è rilasciata ai singoli istituti già previsti in via generale: ciò, naturalmente, non può che generare, in alcuni casi, piccole confusioni sulle quali è necessario che la giurisprudenza offra chiarimento. La sentenza emarginata nel titolo del presente paragrafo si è occupata, nello specifico, di come debbano essere computate le ore spese dal dipendente nella formazione, specie se tale obbligo si interseca con quello di prestazione dell’attività lavorativa o richiede una ulteriore disponibilità al lavoratore in favore del proprio datore.
Nel caso di specie, un impiegato di una amministrazione comunale della Romania riceveva da quest’ultima indicazione di seguire un totale di 160 ore di formazione professionale, condizione necessaria per l’organizzazione e l’esercizio delle attività di servizio pubblico che erano di competenza, per la natura stessa del rapporto di lavoro, del dipendente in argomento. Pertanto, quest’ultimo veniva inviato dall’amministrazione di appartenenza presso una società specializzata dove svolgere detto periodo di formazione, la quale era stata oggetto di un apposito contratto sottoscritto direttamente dal datore di lavoro in cui il dipendente compariva come beneficiario finale. Delle ore dedicate a tale attività, al termine della stessa se ne contavano un totale di 124 svolte al di fuori dell’orario di lavoro contrattualizzato con il dipendente: per tale motivo, quest’ultimo richiedeva il pagamento delle stesse, sulla base del fatto che si trattasse di una vera e propria prestazione lavorativa resa in regime di straordinario.
Onerato di offrire una soluzione a tali quesiti, il giudice nazionale era dunque chiamato in prima istanza a decidere se qualificare o meno come orario di lavoro il periodo di formazione; la difficoltà andava ricercata nel fatto che la formazione è effettivamente elemento sostanzialmente ed intrinsecamente differente dalle mansioni normalmente affidate al dipendente, le quali venivano svolte peraltro all’esterno dei luoghi dell’impresa. Tutti questi elementi si pongono apparentemente in contrasto con la nozione europea di “orario di lavoro”, di norma inteso, invece, come il periodo in cui il dipendente si rende disponibile al datore di lavoro all’interno del luogo contrattualmente prescelto al fine di svolgere le proprie mansioni.
All’esito dei necessari adempimenti, la Corte ha risolto la problematica in senso favorevole al lavoratore, interpretando estensivamente il concetto di “luogo di lavoro”, finalmente intendendolo come qualsiasi luogo in cui il lavoratore sia chiamato dal datore di lavoro a svolgere i compiti da questi assegnati, quali che essi siano, purché derivanti e collegati al potere di decisione dello stesso.
In definitiva, la Corte di Giustizia europea ha quindi concluso che costituisce effettivo orario di lavoro il tempo che il dipendente spende in formazione, soprattutto se essa sia ritenuta necessaria (ed è quindi imposta come obbligatoria) dal datore di lavoro. Se tale obbligo formativo viene assolto in orario ultroneo rispetto a quello già previsto contrattualmente, allora esso dovrà inoltre considerarsi lavoro straordinario ed essere retribuito di conseguenza, anche se al di fuori dell’abituale luogo di lavoro o se in tale periodo il dipendente non sia chiamato a svolgere funzioni di servizio. La base giuridica di una tale decisione va ricercata nella Direttiva 88/2003 e, segnatamente, nelle nozioni di “orario di lavoro” e “luogo di lavoro” che quest’ultima offre (art. 2).
CONTRIBUTO PUBBLICATO SU MEMENTOPIU’.IT DI GIUFFRE’