Di recente, l’ambito del procedimento disciplinare contro l’avvocato è stato rinnovato con la legge n. 247/2012, la quale è andata a modificare quella precedente, risalente addirittura alla legge professionale del 1933. A detta normativa, sono altresì seguiti i regolamenti di attuazione n. 1 e n. 2 del 2014 i quali si sono occupati, con un taglio nettamente pratico, della elezione dei componenti dei consigli distrettuali di disciplina e delle nuove fasi del procedimento disciplinare dinanzi al Consiglio Nazionale Forense, di cui al Titolo V del codice deontologico.

Regole generali

Pertanto, come detto, l’assetto delle competenze relative all’ambito disciplinare del Consiglio Nazionale Forense, nonché dei singoli Ordini territoriali che ad esso fanno capo, è stato completamente rinnovato a seguito dell’introduzione della nuova legge professionale forense (legge n. 247/2012). In particolare, l’articolo 50 del codice deontologico prevede l’istituzione, presso ciascun Consiglio dell’Ordine locale, di un “Consiglio Distrettuale di Disciplina”, costituito da sezioni composte da cinque membri titolari e tre supplenti, eletti (così come previsto dal decreto legislativo n. 1/2014) da membri eletti dai Consiglieri del Consiglio dell’Ordine tra gli avvocati iscritti all’albo di riferimento da almeno cinque anni, il tutto nel rispetto della rappresentanza di genere.

Il procedimento disciplinare si apre con la notizia dell’illecito, riportata all’Ordine di appartenenza del soggetto interessato, e che di tale denuncia viene informato con l’avvertimento che lo stesso ha venti giorni di tempo, da quel momento, per produrre delle giustificazioni scritte e trasmetterle al Consiglio Distrettuale di Disciplina competente. A questo punto, tale organo visiona le deduzioni dell’iscritto e può decidere, a seguito di istruttoria che debba concludersi non oltre i sei mesi dalla notizia del fatto, di archiviare la denuncia (ove ritenga che non siano integrati gli estremi per la prosecuzione del procedimento disciplinare) o, diversamente, di procedere con la citazione in giudizio del professionista coinvolto. In questo secondo caso, viene formulato il capo di imputazione e si apre la fase dibattimentale, che porterà alla decisione finale da parte Consiglio Distrettuale di Disciplina.

Da ultimo, è il caso di citare una ancor più recente sentenza sul tema, emessa dal TAR del Lazio in data 23 settembre 2021 (n. 9880). Qui, si legge che “le fasi fondamentali del procedimento disciplinare vanno individuate in quella degli accertamenti preliminari e nella fase del procedimento disciplinare propriamente detto, che ha inizi con la contestazione degli addebiti e si conclude con l’adozione del provvedimento sanzionatorio o con il proscioglimento dell’incolpato, e all’interno di quest’ultima, vanno distinti i termini inderogabili, che sono quelli posti a garanzia dell’inquisito, cioè quelli previsti per la presentazione delle giustificazioni, per la presa visione degli atti, per il preavviso di trattazione davanti alla Commissione, da quelli sollecitatori, che sono i termini restanti”.

La sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione Civile

Come è noto, le sentenze del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ai sensi della legge n. 247/2012, art. 36 (e, in precedenza, ai sensi del R.D.L. n. 1578/1933, articolo 56, comma III), soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, nonché, ai sensi dell’art. 111 Cost., per vizio di motivazione, con la conseguenza che, salva l’ipotesi di sviamento di potere, in cui il potere disciplinare sia usato per un fine diverso rispetto a quello per il quale è stato conferito, l’accertamento del fatto e l’apprezzamento della sua gravità ai fini della concreta individuazione della condotta costituente illecito disciplinare e della valutazione dell’adeguatezza della sanzione irrogata non possono essere oggetto del controllo di legittimità, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza.

Così aveva già deciso in precedenza anche il Consiglio Nazionale Forense (n. 117 del 15 luglio 2020).

Nel caso di specie, un avvocato indagato per i fatti oggetto di due distinti procedimenti penali ancora in corso era stata ritenuta colpevole dal proprio Consiglio di appartenenza, e pertanto cautelarmente sospesa dall’esercizio dell’attività forense a tempo indeterminato. A conferma di tale decisione, giungeva peraltro la sentenza n. 141/2014 del Consiglio Nazionale Forense. A seguito di tale evento, il Consiglio decideva pertanto di procedere disciplinarmente contro la professionista, contestandole il nocumento apportato alla categoria forense a causa del suo comportamento, nonché per aver violato i doveri di dignità, probità, decoro e fedeltà, nonché quelli di lealtà e correttezza di cui al Codice di Deontologia Forense, avendo la stessa vantato proprie qualità professionali di cui di fatto non disponeva. Inoltre, venivano contestate ripetute violazioni ai doveri di diligenza, di adeguatezza del compenso, di verità. In considerazione di tutti questi elementi, il Consiglio Nazionale Forense si risolveva a sanzionare la professionista con la radiazione dall’albo.

Contro tale decisione, la stessa proponeva successivamente impugnazione presso il CNF, così come è previsto dal procedimento di cui si è detto nei precedenti paragrafi. L’impugnazione veniva tuttavia rigettata, poiché “per effetto dell’entrata in vigore del nuovo Codice Deontologico Forense […] e del principio di tipizzazione degli illeciti dallo stesso introdotto, dovevano ritenersi legittimamente formulate, anche in assenza di specifica contestazione riportata nel nuovo codice deontologico, le contestazioni disciplinari lesive della funzione e dell’immagine dell’avvocatura contestate con riguardo a comportamenti relativi a periodi precedenti all’introduzione dell’obbligatorietà della c.d. tipizzazione; [nonché] in ragione dell’impossibilità di ricomprendere nel vigente C.D.F. tutta la casistica degli illeciti disciplinari dell’avvocato, era legittima la contestazione di un comportamento illecito non ricompreso nelle norme contenute nei titoli II, III, IV, V, VI del vigente C.D.F., ma violativo dei principi generali e non derogabili di cui al titolo I […, inoltre] il CNF ha il potere di apportare alla decisione del giudice di primo grado le integrazioni ritenute necessarie rispetto ad una motivazione incompleta, riesaminando le circostanze che hanno condotto il COA a ritenere la responsabilità dell’incolpato […]”.

In definitiva, la professionista coinvolta aveva promosso il giudizio al fine di impugnare la sanzione disciplinare applicatale, invocando altresì la necessità che il procedimento disciplinare in argomento avrebbe dovuto essere obbligatoriamente sospeso in attesa dell’esito del processo penale.

Giunta la controversia presso la Suprema Corte di Cassazione, la stessa rilevava – relativamente a quest’ultimo elemento – che, in applicazione della regola dell’autonomia del procedimento disciplinare rispetto al processo penale, la sospensione del primo non è, a partire dalla legge n. 247/2012, più obbligatoria, ma facoltativa, quando sia indispensabile acquisire atti e notizie appartenenti al processo penale. Difatti, in quella sede veniva richiamato l’art. 54 della legge in argomento, il quale chiaramente riporta che “il procedimento disciplinare si svolge ed è definito con procedure e con valutazioni autonome rispetto al processo penale avente per oggetto i medesimi fatti. Se, agli effetti della decisione, è indispensabile acquisire atti e notizie appartenenti al processo penale, il procedimento disciplinare può essere a tale scopo sospeso a tempo determinato. La durata della sospensione non può superare complessivamente i due anni; durante il suo decorso è sospeso il termine di prescrizione”.

A tal proposito, è la stessa Suprema Corte a chiarire come, del resto, gran parte della recente giurisprudenza di legittimità condivida tale orientamento, che più volte è stato dalla stessa ribadito. In tal senso, si legge nella sentenza in argomento che “[…] si è per l’un verso affermato il principio dell’autonomia della valutazione disciplinare rispetto a quella effettuata dall’autorità giudiziaria, atteso che gli stessi fatti rilevanti in sede penale possono, invece, essere idonei a ledere i principi della deontologia professionale e dar luogo, pertanto, a responsabilità disciplinare”.

Peraltro, proseguono i Giudici di legittimità, anche la disposizione di cui all’art. 51 della legge professionale (n. 247/2012) chiarisce che, in ogni caso, è previsto che si applichi a casi di tal sorta il c.d. principio della prevenzione. In ambito di deontologia forense, è opportuno chiarire in questa sede come lo stesso riguardi la regola (dettata dall’art. 38, comma 2, del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578), secondo la quale “la competenza a procedere disciplinarmente a carico di avvocati e procuratori appartiene tanto al Consiglio dell’Ordine che ha la custodia dell’albo in cui il professionista è iscritto quanto al consiglio nella cui giurisdizione è avvenuto il fatto per cui si procede: ed è determinata, volta per volta, dalla prevenzione. Il Consiglio dell’ordine che ha la custodia dell’albo nel quale il professionista è iscritto è tenuto a dare esecuzione alla deliberazione dell’altro Consiglio”.

Peraltro, con un ulteriore motivo posto a fondamento del ricorso presso la Corte di Cassazione depositato da parte della professionista, la stessa lamentava la non utilizzabilità del materiale acquisito nel corso del procedimento penale anche in sede di comminazione di sanzione disciplinare decisa dal Consiglio dell’Ordine di appartenenza. In merito, gli Ermellini si sono esposti asserendo che l’acquisizione della documentazione di cui si è appena detto sia avvenuta nel pieno rispetto del quadro normativo di riferimento, il quale legittima pienamente l’acquisizione di atti e notizie del procedimento penale senza alcuna limitazione da parte del Giudice disciplinare, e non incide in alcun modo sul diritto di difesa dell’incolpato. Nel corso del procedimento, infatti, quest’ultimo ha diverse possibilità al fine di rendere in via istruttoria la propria miglior difesa: ad esempio producendo documenti, interrogando o facendo interrogare i testimoni indicati, rendere dichiarazioni o prendere la parola.

Come si sottolinea nella sentenza n. 9547/2021, di cui in argomento, si tratta in sostanza delle medesime prerogative all’interno della legge n. 247/2012 (articolo 59). Su questo aspetto, viene in quella sede chiarito come il Consiglio Nazionale Forense abbia dato conto dell’utilizzazione e della ponderazione dell’uso dei mezzi istruttori da parte del Consiglio Disciplinare Distrettuale competente, il quale ha certamente rispettato, in tale occasione, il principio del c.d. “libero convincimento”. In tal senso, è stata esclusa la possibilità che “l’acquisizione di documenti dalla sede penale potesse giustificare la violazione delle regole del giusto processo […] e specificando l’avvenuta utilizzazione di documenti e non di testimonianze ai fini del riconoscimento dell’addebito contestato all’incolpata. Considerazioni che resistono dunque alle censure sul punto esposte dalla ricorrente, altrimenti rivolte a sindacare inammisibilmente in questa sede gli accertamenti di merito svolti dal Consiglio Nazionale Forense”.

Dato atto di quanto precede, la Suprema Corte di Cassazione è poi passata ad esaminare un ulteriore motivo di doglianza proposto dalla professionista interessata dalla vicenda in argomento: secondo la ricostruzione di quest’ultima, il CNF avrebbe sbagliato errato nel ritenere decaduto l’incolpato dalla facoltà di escutere un teste non intimato, poiché non risulta alcuna disposizione del codice di procedura penale che confermi tale decadenza. A ciò rispondevano gli Ermellini, chiarendo ancora una volta come la norma preveda che, per quanto possibile, al procedimento disciplinare si applica la disciplina del codice di procedura penale entro i limiti della compatibilità tra i due ambiti. Inoltre, prosegue la Suprema Corte, “la mancata citazione dei testimoni già ammessi dal giudice comporta la decadenza della parte dalla prova , poiché il termine per la citazione dei testimoni è inserito in una sequenza procedimentale che non ammette ritardi o rinvii dovuti alla mera negligenza delle parti, in coerenza con la struttura del processo, inteso quale sequenza di atti modulata secondo un preciso ordine cronologico di attività e di fasi legalmente tipizzato, in conformità di determinati criteri di congruenza logica e di economicità processuale in vista del raggiungimento di un risultato finale, nel quale possa realizzarsi l’equilibrio tra esigenze di giustizia, di certezza e di celerità” (cfr. in questo senso, Cass. civile, Sezioni Unite, sentenza n. 34655 del 28 giugno 2005). Così, anche il nono motivo lamentato (che riguarda il non aver ammesso il Consiglio Nazionale Forense le prove testimoniali richieste rispetto alle vicende legali oggetto del procedimento e che la professionista sostiene avrebbero potuto rendere delle informazioni fondamentali per l’andamento dello stesso. All’esito di una breve analisi su questo tema, gli Ermellini hanno chiarito – ritenendo anche tale motivo di gravame infondato – che “il denunciato difetto di approfondimento istruttorio da parte del CNF non supera il vaglio di ammissibilità, perché strettamente attinente all’esercizio di un insindacabile potere di accertamento istruttorio d’ufficio, spettando al Consiglio dell’Ordine il potere di valutare la necessità o meno di un supplemento istruttorio in presenza di elementi idonei ed univoci ai fini dell’accertamento completo dei fatti da giudicare attraverso la valutazione delle risultanze già acquisite”. Il decimo motivo in forza del quale la ricorrente ha proceduto la redazione del ricorso poi depositato presso la Suprema Corte lamenta la iniquità del processo per come esso si sia svolto: la professionista, infatti, ritiene che la non ammissione della richiesta dell’esame dei testi abbia comportato l’impossibilità di una reale “parità delle armi”, e ciò perché si è scelto di tenere fede a quanto contenuto nell’esposto e nelle indagini preliminari. Nel rispondere a tale assunto, la Suprema Corte fa riferimento alla giurisprudenza della Corte EDU, ed in particolare alla garanzia di cui all’art. 6 CEDU, relativa all’inquadramento del procedimento disciplinare nei confronti di un avvocato. Pur in considerazione dell’articolo in questione – spiegano gli Ermellini – “non può ravvisarsi alcuna violazione del parametro convenzionale evocato dalla ricorrente con riferimento alla tutela invece apprestata alle persone che sono parte di un procedimento nel quale è loro contestato un’accusa penale, per le quali operano le garanzie contemplate dall’art. 6 CEDU che, per converso, la stessa giurisprudenza della Corte EDU ritiene non applicabili ai procedimenti disciplinari nei confronti di avvocati […]. Inoltre, la censura è infondata in relazione alle argomentazioni già esposte a proposito dell’esame del settimo motivo, alle cui motivazioni è qui sufficiente rinviare, con la sola precisazione che la ricorrente ha avuto la possibilità di escutere i testi dalla stessa legittimamente indicati […], risultando, per i profili collegati alla valutazione operata dal CNF in ordine all’esistenza delle incolpazioni, sottratte al sindacato di queste Sezioni Unite […]”.

Di poi, con particolare riferimento alla possibilità della sospensione in attesa della definizione del processo penale a carico della professionista, la stessa lamentava per questi motivi la violazione degli articoli 111 Cost. e 132 del codice di procedura civile. Le Sezioni Unite, nel chiarire la propria posizione, hanno statuito come la contemporanea pendenza del procedimento disciplinare e del processo penale a carico di un avvocato imponga, generalmente, la sospensione del primo in attesa della definizione del secondo. Tale sospensione, tuttavia, si ritiene che si esaurisca con il passaggio in giudicato della sentenza che definisce il procedimento penale, senza che la ripresa di quello disciplinare innanzi al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati sia soggetta a termine di decadenza. Al fine di stabilire tale necessità, serve che sussista “un rapporto di pregiudizialità tra il procedimento penale e quello disciplinare a carico di un avvocato, riguardanti entrambi i medesimi fatti e quindi per la sussistenza dell’obbligo di sospensione del secondo fino alla definizione del primo, è, necessaria la contestazione dei fatti all’imputato nel procedimento penale”. A questo punto, laddove vi sia stata la contestazione di un reato ed il destinatario sia stato formalmente dichiarato imputato, allora il Consiglio Nazionale Forense procede alla verifica dei presupposti per la sospensione del procedimento disciplinare e, in caso positivo, prende tale decisione attraverso una delibazione in ordine alla effettiva identità esistente tra le condotte contestate in sede penale e quelle oggetto del procedimento sottoposto alla sua cognizione. L’autonomia tra procedimento penale e procedimento disciplinare è stata peraltro più volte ribadita dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, che già in precedenza aveva affermato che “in tema di giudizio disciplinare nei confronti dei professionisti, in caso di sanzione penale per i medesimi fatti, non può ipotizzarsi la violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo in relazione al principio del “ne bis in idem”[…], in quanto la sanzione disciplinare ha come destinatari gli appartenenti ad un ordine professionale ed è preordinata all’effettivo adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti loro assegnati, sicché ad essa non può attribuirsi natura sostanzialmente penale” (cfr., in tal senso, S.U., 3 febbraio 2017, n. 2927; Cass., S.U., 20 novembre 2018, n. 29878).

A questo punto, è però bene sottolineare come sia stata recentemente apportata una significativa modifica all’articolo 54 della legge n. 247/2012, nella quale oggi si prevede espressamente che “il procedimento disciplinare si svolge ed è definito con procedura e con valutazioni autonome rispetto al processo penale avente per oggetto i medesimi fatti”, ed inoltre che “se, agli effetti della decisione, è indispensabile acquisire atti e notizie appartenenti al processo penale, il procedimento disciplinare può essere a tale scopo sospeso a tempo determinato. La durata della sospensione non può superare complessivamente i due anni; durante il suo decorso è sospeso il termine di prescrizione”. Può dunque desumersi che l’elemento qualificante ai fini della valutazione di pregiudizialità del procedimento penale rispetto a quello disciplinare viene individuato nell’avvenuta contestazione. È la stessa Suprema Corte a chiarire come quello in argomento e necessario da analizzare al fine di offrire una soluzione al quesito in argomento sia un quadro legislativo e giurisprudenziale che approfondisce i tratti di autonomia fra procedimento disciplinare e procedimento penale, tuttavia garantendo, attraverso lo strumento della riapertura del primo, la possibilità di eliminare gli effetti prodotti dalla sanzione disciplinare in caso di esito favorevole all’incolpato del procedimento penale sopravvenuto, ovvero di applicare una sanzione disciplinare prima non irrogata a carico dell’incolpato condannato per fatti nuovi rispetto a quelli già esaminati nel precedente procedimento disciplinare conclusosi con esito favorevole per l’avvocato: “alla stregua delle superiori considerazioni, è dunque agevole escludere l’esistenza di un obbligo di sospensione necessaria in pendenza di processo penale per i medesimi fatti. [… peraltro] la ricorrente si è limitata a contestare e prospettare la medesimezza dei fatti che, come si è visto, è stata negata almeno in parte dal CNF, senza peraltro porre in discussione in maniera specifica la decisione impugnata nella parte in cui è stata esplicitamente affermata l’assenza di corrispondenza fra i capi di incolpazione deontologici e i capi di imputazione penali […]”.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO&PRACTICA DEL LAVORO