All’inizio della pandemia da COVID-19, uno dei primi provvedimenti posti a tutela delle fasce più deboli – tra cui proprio i lavoratori dipendenti – è stata l’imposizione di un blocco dei licenziamenti: le aziende non hanno più potuto comminarli per giustificato motivo oggettivo (essendo implicita la stasi dell’attività produttiva). In cambio, è stato ampliato il ventaglio degli ammortizzatori sociali fruibili in condizioni di necessità.
Il blocco in questione operava nei casi di crisi economica conseguente ad un calo del fatturato, contrazione degli stanziamenti pubblici, soppressione (o esternalizzazione) della mansione cui è addetto il dipendente.
Di recente, però, con l’affievolirsi dei contagi e con la distribuzione sempre più massiccia delle vaccinazioni, il termine ultimo per la fruizione di questi aiuti è stato raggiunto e, proprio in forza delle condizioni di cui si è detto, non è stato prorogato. Anzi, la Cabina di regia riunitasi attorno il Primo Ministro Draghi ha definito una soluzione intermedia della situazione di stallo: è stato infatti previsto lo sblocco dei licenziamenti a partire dal 1° luglio scorso per le aziende che rientrino nel campo di applicazione della CIGO e a partire dal 1° novembre per i datori di lavoro che utilizzano lo strumento della CIG, l’assegno ordinario del FIS, dei Fondi bilaterali alternativi e della cassa integrazione degli operai agricoli a tempo indeterminato (CISOA).
Vi è inoltre un’ulteriore eccezione per i settori relativi all’industria tessile, calzaturiera e della moda, per i quali invece restano vigenti le attuali regolamentazioni (almeno sino al 31 ottobre 2021) e che potranno tuttavia usufruire dello strumento della CIG gratuita per ancora 17 settimane.
Inoltre, tutte le altre aziende potranno fare ricorso alla misura della CIGS per ulteriori 13 settimane. Il blocco resta inteso anche per le aziende che facciano ricorso agli ammortizzatori sociali con causale “COVID-19” introdotti dal Decreto Sostegni.
Peraltro, era stata avanzata la proposta (da parte delle più grandi organizzazioni sindacali) di inserire la condicio per i datori che volessero usufruire del blocco dei licenziamenti, di potervi fare ricorso solo una volta che il dipendente avesse esaurito l’utilizzo di tutte le settimane di cassa integrazione effettivamente fruibili. Ad oggi, la soluzione adottata comporta una semplice raccomandazione nel senso appena esposto (e quindi verso l’utilizzo degli ammortizzatori sociali che la legislazione vigente prevede in alternativa alla risoluzione dei rapporti di lavoro).
Le risposte degli imprenditori
Dinanzi ai cambiamenti in parte già verificatisi, gli imprenditori stanno muovendo i primi passi verso la ricostituzione delle proprie attività.
I datori di lavoro che hanno comunque deciso di apportare delle modifiche alle proprie imprese nonostante i blocchi, hanno fatto ricorso a quegli strumenti non toccati dalla normativa emergenziale.
Si tratta, ad esempio, della possibilità di ricorrere ad un cambio di appalto, il quale preveda la riassunzione del personale da parte del datore di lavoro subentrante, il tutto disciplinato e/o derivante da un obbligo ex lege, o da un contratto collettivo.
Inoltre, è bene ricordare che il blocco dei licenziamenti ha sempre riguardato quelli per giustificato motivo oggettivo, lasciando illesi, ad esempio, quelli giustificati dalla cessazione definitiva dell’impresa, conseguenti anche alla messa in liquidazione della società o del suo fallimento.
Alternativamente, altri imprenditori hanno trovato negli accordi collettivi aziendali (stipulati, come di consueto, con le organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale) una strada egualmente efficace che consentisse la prosecuzione dell’attività lavorativa, per quanto consentito dal contesto emergenziale, alle condizioni dettate comunque dai datori stessi. Naturalmente, è il caso di ricordare che gli accordi in questione hanno effetto solamente sui dipendenti che decidano di aderirvi. L’elemento di favore posto a conseguenza di tale adesione (e che nelle realtà più piccole può anche essere raggiunto tramite singoli accordi ad hoc con determinati lavoratori) è che, in base al loro contenuto, essi consentono a questi ultimi di avere comunque accesso ad altri ammortizzatori (come, ad esempio, la NASPI).
Reintrodotta la procedura di conciliazione
Un aspetto interessante che è conseguenza dello sblocco (ad oggi ancora parziale) dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo è la reintroduzione della procedura obbligatoria di conciliazione (art. 7 L. 604/66), cui l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) ha fatto riferimento nella recente Nota 16 luglio 2021 n. 5186.
La procedura torna ad essere condicio sine qua non per procedere all’intimazione del licenziamento, e dovrà essere instaurata esclusivamente dinanzi alla Commissione provinciale di conciliazione presso l’Ispettorato territoriale del lavoro. Il datore di lavoro dovrà comunicare tale decisione non solo al dipendente in forma scritta, indicando i motivi e/o le misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore, ma anche all’INL tramite l’apposito modulo predisposto dall’INL stesso. A seguito di ciò, la Commissione di conciliazione previa verifica della sussistenza dei requisiti necessari procederà alla convocazione delle parti, come di norma accade. È particolarmente rilevante come l’INL inviti gli uffici territoriali a provvedere ad un ulteriore controllo in merito alle dichiarazioni rese dal datore relativamente alla fruizione degli strumenti di integrazione salariale: in caso di contraddittorietà verrà raccomandato, come si diceva supra, l’utilizzo preliminare degli ammortizzatori sociali previsti dalla normativa rispetto all’extrema ratio del licenziamento.
Di fronte ad un quadro normativo così complicato, tra molti dipendenti si sta facendo strada l’idea di procedere all’impugnazione dei licenziamenti comminati laddove non si sia preliminarmente sfruttato fino in fondo l’accesso agli ammortizzatori così come individuati sinora: pertanto, anche in questa sede, il consiglio resta quello di rispettare le raccomandazioni e di non procedere, anche una volta raggiunte le tempistiche indicate dalla legge, con troppa fretta ai licenziamenti oggetto del c.d. “sblocco”.