Secondo la definizione fornita dall’Organizzazione mondiale della sanità, “la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o di infermità”. In ambito di occupazione italiana, la disabilità psichica comporta una serie di problematiche per chi ne è portatore, le quali spesso comportano delle difficoltà comportamentali associate a difficoltà di tipo relazionale. Ciò non può non avere delle conseguenze sulla vita lavorativa, specialmente se le mansioni affidate al lavoratore riguardano, ad esempio, il rapporto con la clientela e/o il pubblico in generale.

L’eterogeneità delle manifestazioni cliniche della disabilità psichica, e spesso anche l’andamento discontinuo dei sintomi, fanno sì che i criteri necessari per definire le misure di tutela possano essere individuati meno facilmente rispetto alla disabilità fisica. Il collocamento lavorativo dell’individuo affetto da disabilità, definito dalla legge n. 68/1999, prevede un adattamento dell’ambiente di lavoro al lavoratore disabile. Quando, però, la disabilità è di tipo psichico, non sono sufficienti soluzioni di tipo meramente architettonico e tecnologico, ma è necessario intervenire, con specifiche competenze, anche sugli aspetti relazionali e organizzativi dell’ambiente di lavoro. La valutazione del disabile psichico, in base a quanto previsto nel D.P.C.M. del 13 gennaio 2000, deve tenere conto delle capacità utili per lo svolgimento di attività lavorative, fra le quali il sottogruppo delle “attività mentali e relazionali” include per esempio la capacità di svolgere un lavoro di squadra, di fronteggiare il disagio relazionale legato ai ritmi di lavoro, all’ambiente e al tipo di attività svolta.

Da un punto di vista in cui queste definizioni compenetrano nel mondo lavorativo, il collocamento dei soggetti affetti da disabilità è disciplinato, come si è detto, dalla legge n. 68/1999, a seguito della quale è altresì previsto un adattamento dell’ambiente di lavoro al dipendente in questione.

Da un punto di vista innanzitutto statistico, è bene far notare come, nei Paesi OCSE (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), l’occupazione dei soggetti con disabilità psichiche non supera il 25% dei casi, in media – l’Italia risulta, peraltro, coerente con queste previsioni.

Il trattamento della malattia in generale

Come è noto, a fronte dell’insorgere di uno stato di malattia (non professionale e, dunque, che non sia conseguenza dell’ambiente lavorativo) il rapporto di lavoro subisce una sospensione, a causa della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa. Quando si verifica una situazione di tal sorta, vengono in essere due aspetti della vita professionale del malato: l’assistenza sanitaria e il trattamento economico che, in qualità di lavoratore, gli viene riconosciuto nel periodo di assenza forzata dal lavoro.

È bene chiarire che, a prescindere dalla natura del rapporto di lavoro, si tratta di un diritto irrinunciabile in favore del prestatore. Affinché quest’ultimo venga tutelato, l’incapacità lavorativa deve essere tale da rendere impossibile la prestazione a cui il lavoratore è contrattualmente tenuto. Si deve trattare di una impossibilità concreta ed attuale. La sua incidenza sul raggiungimento del risultato finale del dipendente può essere diretta o indiretta: è rilevante che sia tale da impedire lo svolgimento di una comune giornata lavorativa.

È interessante precisare, in questo ambito, come la Suprema Corte di Cassazione (ma anche l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale) abbiano definito come tutelabili anche le malattie in cui il dipendente incorra per sua colpa grave, come l’alterazione psichica conseguente all’abuso di alcol o dall’assunzione di stupefacenti o dal tentato suicidio. Importantissimo è che, tra queste, sia ricompresa anche l’astensione dal lavoro conseguente all’interruzione della gravidanza, spontanea o terapeutica che sia.

Quando si apre il periodo di malattia, esso viene definito “comporto”: è un lasso di tempo entro il quale il lavoratore può assentarsi mantenendo, tuttavia, il proprio posto di lavoro ed un trattamento economico basato su quello normalmente previsto nel pieno dell’attività lavorativa. In questi casi, il dipendente può essere licenziato solo ove ricorra una giusta causa o un giustificato motivo oggettivo dovuto a sopravvenuta impossibilità della prestazione o cessazione totale dell’attività di impresa. Laddove il datore violi queste previsioni, il dipendente può impugnare il provvedimento di cessazione secondo le normative in tema di licenziamento, potendosi lo stesso considerare, in questo caso, nullo.

Dal canto suo, il dipendente che si accorga del proprio stato patologico ha una serie di obblighi, anche e soprattutto laddove gli stessi abbiano una connotazione prettamente psicologica (poiché quest’ultima risulta rilevabile con maggiore difficoltà all’occhio esterno). Questi infatti deve sottoporsi ad una visita medica a seguito della quale sarà prodotto un apposito certificato, che sarà poi trasmesso in via telematica al soggetto competente. Nel caso delle malattie psichiche, è noto che al fine di ritornare alla vita quotidiana, il dipendente ha di norma bisogno di periodi di assenza dal lavoro tendenzialmente lunghi. Nei casi in cui la patologia abbia provocato degli scenari particolarmente gravi e sia necessaria una degenza ospedaliera anche notturna, deve altresì essere prodotto il certificato di ricovero. Tendenzialmente, il dipendente in stato di malattia deve rispettare l’obbligo di reperibilità e restare disponibile alla collaborazione presso il proprio datore di lavoro. Ciò, tuttavia, non è necessario laddove il lavoratore sia colpito da patologie gravi che richiedano terapie salvavita comprovate da idonea documentazione sanitaria o se siano in essere stati patologici sottesi o connessi alla situazione di invalidità riconosciuta che ha determinato una riduzione della capacità lavorativa in misura pari o superiore al 67% (è previsto un preciso elenco tassativo di malattie che consentono questo tipo di riconoscimento).

Come si è detto, in periodo di malattia il lavoratore ha comunque diritto al trattamento economico: a seconda dei casi, l’onere della retribuzione è totalmente a carico del datore di lavoro, diversamente sarà l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale ad erogare l’indennità di malattia (eventualmente integrabile dal datore). All’indennità hanno diritto quasi tutti i dipendenti, compresi anche gli apprendisti, i somministrati ed anche i soggetti sospesi o cessati dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato solo se la malattia sia insorta entro sessanta giorni dal momento della sospensione o della cessazione.

La malattia professionale

Nel paragrafo precedente, si è fatto riferimento alla malattia non professionale. Cosa accade, però, se invece ci si ritrova in uno scenario di questo tipo?

Come è noto, infatti, la malattia professionale può avere effetti non solo sul fisico del lavoratore, ma anche e soprattutto sulla sua sanità psicologica. In generale, è definita tale la patologia che si sviluppa a causa della presenza di materiali o fattori nocivi nell’ambiente in cui l’attività viene prestata, e che comporti la sospensione della prestazione (tristemente noti sono i casi in cui ciò si verifica a causa della morte del dipendente).

Presupposto della tutela apprestata al lavoratore che sviluppi una malattia professionale è che essa sia contratta nell’esercizio delle attività assicurate, che sia determinata dalla c.d. “causa lenta” (una graduale azione lesiva sulla persona del dipendente) e, naturalmente, che esista un nesso di causalità tra l’attività lavorativa e l’insorgenza dello stato patologico.

Non sono inusuali, peraltro, i casi di sindrome da c.d. burnout, conosciuta anche come sindrome da stress lavorativo cronico, o da stress lavoro-correlato. Si tratta di una condizione che si manifesta sostanzialmente con tre sintomi importanti: sensazione di mancanza o esaurimento di energia, distacco mentale sempre più accentuato dal proprio lavoro (o sensazione di negatività o cinismo nei confronti del proprio lavoro), nonché una ridotta efficacia professionale. Essa può essere causata, tra gli altri elementi, da aspettative di lavoro poco chiare o dinamiche di relazione tra colleghi disfunzionali. Ancora, può soffrire di sindrome da burnout il dipendente a cui siano richiesti alti picchi di attività sul luogo di lavoro. Addirittura, in questi casi è possibile, tra le altre cose, che venga assegnato un assegno di invalidità ordinario o civile. Laddove la sindrome conduca a conseguenze gravissime (fino al 100% di invalidità) è possibile anche veder riconosciuta la pensione di invalidità.

Non tutti gli stati patologici sono suscettibili di essere considerati malattie professionali, le quali sono elencate in via tassativa in apposite tabelle individuate dalla legge: la presenza in detto elenco consente una presunzione legale dell’origine professionale della malattia, pertanto il lavoratore sarà onerato del solo obbligo di provare lo svolgimento di mansioni ricollegabili alla categoria di lavoro presente nelle tabelle in argomento. Fanno tuttavia eccezione i casi in cui il dipendente sia stato adibito solo sporadicamente a dette mansioni, o nel caso in cui l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro riesca a dimostrare (dando, quindi, prova contraria di quanto sostenuto dal dipendente) che la malattia trovi origine altrove rispetto al luogo di lavoro.

Per tutti i casi in cui la malattia che colpisca il lavoratore non sia elencata nelle suddette tabelle, l’onere della prova passa, naturalmente, al lavoratore stesso: sarà sua responsabilità dimostrare il danno subito, il fatto di essere stato adibito a determinate mansioni in qualsiasi modo usuranti, nonché il nesso eziologico tra questi due elementi.

La disabilità di carattere psichico

È bene innanzitutto specificare che la disabilità psichica può declinarsi in una incredibile varietà di situazioni specifiche: quelle prese in considerazione nella presente trattazione rispecchiano una piccola percentuale degli aspetti e degli effettivi scenari che, su questo tema, possono essere oggetto di disamina.

Il dipendente che presenti una disabilità di carattere psichico affronta una serie di problematiche entrando nel mondo del lavoro la cui rilevanza si abbatte su ostacoli di carattere individuale ed ambientale: è complicato, infatti, non solo trovare un posto di lavoro che assolva tutte le richieste del soggetto in argomento, ma anche mantenerlo superando eventuali diverbi o le reticenze dei datori.

Le normative che nel mondo si occupano di questo genere di problematiche tendono a sancire una serie di obblighi in capo al datore di creare un ambiente lavorativo che non presenti ostacoli e che sia accessibile alle persone con disabilità. Naturalmente, ciò include anche quelle di carattere psichico o psicologico. In Italia, come è noto, questo obbligo discende da una generale norma di cui all’art. 2087 del codice civile, il quale recita che “l’’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Inoltre, i datori di lavoro hanno l’obbligo (meglio definito dalle norme speciali, come la legge n. 68/1999, già citata in precedenza) di assumere un certo numero di persone con disabilità (identificata, in questi casi, in un grado di invalidità superiore al 45%) in una precisa percentuale rispetto al numero del resto dei dipendenti. I soggetti in questione sono chiamati ad iscriversi in uno specifico elenco tenuto presso le Commissioni provinciali per le politiche del lavoro. Secondo la norma, possono procedere a detta iscrizione le persone che detengano una diagnosi funzionale nonché una scheda predisposta da una apposita commissione medica in cui siano precisate le capacità lavorative del soggetto e, quindi, le mansioni che possono essergli affidate.

Ripercorrendo l’evoluzione storica del caso italiano in tema di lavoratori con disabilità psichiche, nel 1968 la legge n. 482 rubricata “Disciplina generale delle assunzioni obbligatorie presso le pubbliche Amministrazioni e le aziende private” (poi nota anche come la legge “sul collocamento obbligatorio”) imponeva, appunto, l’obbligo per i datori di lavoro, sia pubblici che privati, di assumere un certo numero di persone con disabilità. Ad oggi, tale obbligo è ancora vigente: un lavoratore con disabilità se l’azienda occupa da 15 a 35 dipendenti; due lavoratori se occupa da 36 a 50 dipendenti; un numero pari al 7% dei lavoratori in forza qualora occupi più di 50 dipendenti. Tuttavia, il fatto che la norma rimanesse una mera lettera morta ed impedisse un effettivo sviluppo della personalità e della professionalità del dipendente, lo lasciava un mero requisito formale da soddisfare, focalizzando il cuore dell’attività lavorativa nella disponibilità degli altri lavoratori. Importante in questo senso è stata poi, senz’altro, la successiva legge n. 104/1992, la quale ha introdotto il principio di valutazione delle capacità lavorative e relazionali del disabile in relazione alle caratteristiche del posto di lavoro.

Nel corso del tempo sono stati previsti, a livello nazionale, aiuti quali il Fondo nazionale e i Fondi regionali per il diritto al lavoro delle persone con disabilità. Il primo, istituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, serve a finanziare le convenzioni tra datori di lavoro e uffici competenti per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, inclusi la fiscalizzazione dei contributi previdenziali a favore delle imprese ed i rimborsi parziali per le spese sostenute per l’adattamento degli ambienti di lavoro. Il secondo, alimentato dalle sanzioni alle imprese che non ottemperano agli obblighi di assunzione previsti dalla legge n. 68/1999, è utilizzato per la realizzazione di specifiche politiche attive in ambito locale.

Tra le opportunità offerte dalla legge n. 68/1999 vi è anche la possibilità di utilizzare il tirocinio come forma di inserimento al lavoro finalizzato all’assunzione, e per una durata superiore rispetto a quanto normalmente previsto, ossia 24 mesi (proroghe comprese). Il tirocinio, così come gli inserimenti in cooperativa o in imprese sociali, è una forma di inserimento protetto finalizzata a facilitare l’integrazione delle persone con disabilità nel mercato del lavoro. La legge n. 247/2007 insiste su questo obiettivo introducendo l’articolo 12-bis, (successivamente ripreso dalla c.d. riforma Biagi, D.Lgs. n. 276/2003), finalizzato ad agevolare l’assunzione di persone con disabilità attraverso convenzioni tra aziende e cooperative sociali di tipo B. Il meccanismo è piuttosto semplice: la cooperativa assume il lavoratore al posto di un’impresa profit, la quale in cambio assegna alla cooperativa commesse di lavoro proporzionate al costo del personale assunto. Il disabile viene occupato in un contesto organizzativo più sensibile alle sue esigenze, mentre la società ha un’opportunità di crescita.

L’indirizzo giurisprudenziale

Di seguito, alcuni esempi di come la giurisprudenza sia molto selettiva ed attenta nei casi in cui si venga a discutere di malattie collegate al rapporto di lavoro.

Rilevantissima rispetto al tema trattato al presente articolo è una recente sentenza della Suprema Corte di Cassazione. Nel caso di specie, un lavoratore, operatore socio-sanitario, entrava in malattia a causa dei disturbi d’ansia e dei disagi psichici presentatisi a seguito del demansionamento subito mediante il trasferimento ad un’altra sede aziendale. La società, dubitando dell’effettiva patologia psicologica denunciata dal dipendente, in quanto attestata unicamente da certificati redatti da un medico amico del prestatore, irrogava a quest’ultimo un licenziamento per giusta causa, impugnato poi dallo stesso nel giudizio di cui in argomento.

Nella sentenza (n. 25851 del 16 ottobre 2018), la Corte di Cassazione confermava quanto già deciso dalla Corte territoriale precedentemente investita della decisione la quale, dopo aver accertato l’inesistenza del demansionamento lamentato dal dipendente, aveva escluso, di conseguenza, il nesso causale tra la patologia diagnosticata e le nuove mansioni.

In particolare, gli Ermellini hanno ritenuto incensurabile la sentenza di merito nel punto in cui in essa si sosteneva l’impossibilità ad ascrivere un’ipotetica sindrome psicologica del lavoratore come conseguenza del demansionamento subito dal medesimo, laddove le nuove mansioni erano svolte per un periodo di tempo limitatissimo (nel caso di specie, addirittura solo 10 giorni).

Per la sentenza, una simile condotta – soprattutto se, come nel caso in esame, suffragata da documentazione medica non veritiera, in quanto proveniente da un professionista amico del lavoratore – integrava certamente una violazione degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, tale da legittimare la società ad irrogare un licenziamento per giusta causa, senza che tale provvedimento risulti sproporzionato.

Ancora più recentemente, invece, sempre la Suprema Corte di Cassazione si è espressa, in senso opposto, per il riconoscimento di una condizione di stress derivante dal carico lavorativo, il quale ha condotto all’assenza giustificata del dipendente dallo stesso. La sentenza (n. 5066/2018) appare rilevante ai fini della presente trattazione nella parte in cui dalla stessa di desume come il lavoratore sia sempre chiamato a dimostrare di aver subito un danno alla salute. Nel caso di specie la Suprema Corte di Cassazione ha riconosciuto il risarcimento e la rendita Inail al lavoratore affetto da crisi di depressione e attacchi di panico determinati dall’eccessivo lavoro. Un numero alto di ore di straordinari aveva causato al ricorrente un forte stress, accompagnato da stati depressivi e attacchi di panico. Nel giudizio, l’interessato è riuscito a dimostrare che la malattia era stata determinata proprio dall’ambiente lavorativo e non da altre cause.

Secondo la Corte, anche se non è tabellata, va comunque indennizzata la malattia professionale  che causa ansia e stress al dipendente sottoposto a  molte ore di lavoro straordinario. Il lavoratore, in questi casi, dovrà soltanto dimostrare la consequenzialità tra l’ambiente di lavoro e la malattia diagnosticata. Secondo gli Ermellini “sono infatti indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione. È illegittima qualsiasi distinzione in tal senso posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni, sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale a rilevare non è solo il rischio specifico proprio della lavorazione, ma anche il cosiddetto rischio specifico improprio non strettamente insito nell’atto materiale della prestazione ma collegato con la prestazione stessa: un principio, questo, applicabile anche quando si parla di malattie professionali. In questo contesto, per la Cassazione nel momento in cui il lavoratore è stato ammesso a provare l’origine professionale di qualsiasi malattia, sono necessariamente venuti meno anche i criteri selettivi del rischio professionale inteso come rischio specificatamente identificato in tabelle, norme regolamentari o di legge. Un’interpretazione, quest’ultima, confermata dall’articolo 10, comma 4, della legge 38/2000. [… Pertanto] ogni forma di tecnopatia che possa ritenersi conseguenza di attività lavorativa risulta assicurata all’Inail, anche se non compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi tabellati, dovendo in tal caso il lavoratore dimostrare soltanto il nesso di causa tra la lavorazione patogena e la malattia diagnosticata”.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO