Come è noto, la legge consente al lavoratore (che aderisca ad un’associazione sindacale) la possibilità di richiedere al datore di lavoro di trattenere sulla retribuzione la quota associativa e di provvedere, per conto del prestatore, al relativo versamento direttamente nei confronti dell’organizzazione.

Detta facoltà ha costituito sino al 1995 un vero e proprio obbligo in capo alle parti e ciò fino all’emanazione del D.P.R. 28 luglio 1995, n. 313 che, all’esito di un referendum sul punto, ha abrogato, appunto, il secondo comma dell’art. 26, L. 300/1970 (che recitava …le associazioni sindacali dei lavoratori hanno diritto di percepire, tramite ritenuta sul salario nonché sulle prestazioni erogate per conto degli enti previdenziali, i contributi sindacali che i lavoratori intendono loro versare…”).

Orbene, con riferimento a tale argomento, si è recentemente pronunciata la Suprema Corte di Cassazione (Sezione Lavoro) che, per mezzo dell’ordinanza n. 24877 del 4 ottobre 2019, ha provveduto, da un lato, a chiarire che, nonostante l’avvenuta abrogazione di cui sopra, non può configurarsi un divieto di riscossione di “quote associative sindacali a mezzo di trattenuta operata dal datore di lavoro” – essendo venuto meno soltanto il regime di obbligatorietà – e, dall’altro, che detta opzione rappresenta un diritto del dipendente che non richiede, ai fini del relativo esercizio, il consenso da parte dell’imprenditore.

Quanto suesposto rappresenta, invero, la regola generale, ricavabile anche da una rilevante pronuncia delle Sezioni Unite (Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 28269 del 21 dicembre 2005); tuttavia non può certo dirsi che a questi principi consegua una totale indifferenza dell’ordinamento nei confronti delle prerogative datoriali.

Il datore di lavoro, infatti, può, in ogni caso, rifiutarsi di dar luogo a quanto richiesto, laddove si registri l’effettiva sussistenza – in concreto – di un nuovo onere aggiuntivo a proprio carico “insostenibile in rapporto alla sua organizzazione aziendale e perciò inammissibile ex artt. 1374 e 1375 cod. civ.”. Appare, in questo senso, del tutto evidente come l’onere probatorio, in merito all’esistenza di una simile condizione e della relativa insostenibilità (sulla scorta dei principi ricavabili dall’articolo 1218 c.c. in materia di responsabilità contrattuale del debitore), gravi interamente sulla stessa parte datoriale. Ebbene, premesso che nell’ipotesi in argomento viene a costituirsi tra le parti un rapporto di tipo contrattuale e, segnatamente, un contratto di cessione del credito, innanzi all’accertata sussistenza di un’eccessiva gravosità della prestazione (consistente nella trattenuta e nel successivo versamento della quota), a dire della Corte, non viene inficiata la “validità e l’efficacia” del contratto stesso, ma l’inadempimento del datore di lavoro va ritenuto “giustificato”.

Orbene, nel caso di specie, un dipendente iscritto ad un’organizzazione sindacale richiedeva al proprio titolare di trattenere il quantum della quota sindacale dalla propria retribuzione e a tale istanza seguiva il diniego di quest’ultimo, il quale adduceva la propria impossibilità dovuta ad un eccessivo numero di lavoratori in azienda.

La Cassazione, con la pronuncia citata, ha escluso che la circostanza richiamata dalla parte datoriale potesse ritenersi idonea a giustificare il rifiuto (e, quindi, l’inadempimento) e ciò, poiché, in linea generale “un’impresa con un elevato numero di dipendenti ha, di norma, una struttura amministrativa corrispondente alla sua dimensione”  (al riguardo, si legga anche Cassazione, sentenza n. 13886 del 2 agosto 2012). Occorre, con ciò, interrogarsi sulle conseguenze giuridiche del diniego ingiustificato. Stando alle argomentazioni del giudice di legittimità, oltre a rilevare sul piano squisitamente civilistico, l’inadempimento datoriale integra una vera e propria “condotta antisindacale”. Infatti, continua la Cassazione, oltre a pregiudicare in misura consistente i “diritti  individuali dei lavoratori di scegliere liberamente il sindacato al quale aderire”, la stessa condotta lede, altresì, le prerogative dell’organizzazione sindacale stessa e, in particolare, il diritto di quest’ultima “di acquisire dagli aderenti i mezzi di finanziamento necessari allo svolgimento della propria attività” (vedasi, in senso pressoché analogo, Cassazione, sentenza n. 13250 del 6 giugno 2006, sentenza n. 16186 del 2006, sentenza n. 16383 del 18 luglio 2006, sentenza n. 19275 del 11 luglio 2008, nonché sentenza n. 21368 del 7 agosto 2008).

A tali premesse, è conseguito il rigetto del ricorso promosso dal datore di lavoro e la conferma delle decisioni di merito.

Avv. Monica Labrou