In questa sede s’intende porre l’accento su un tema da sempre dibattuto in ambito giuslavoristico: la specialità del rapporto di lavoro giornalistico e le regole particolari che ne disciplinano lo svolgimento. Come è noto, la giurisprudenza di legittimità è a più riprese intervenuta, nel silenzio della legge, a definire taluni tratti caratterizzanti della figura del prestatore di lavoro giornalistico, delle tutele allo stesso spettanti e della compatibilità o meno di talune disposizioni (riservate alla generalità dei lavoratori) allo specifico caso che interessa.

Non può, poi, non riconoscersi un ruolo di assoluto rilievo alla contrattazione collettiva che, già in epoca risalente, ha provveduto anch’essa ad adeguarsi alle peculiarità che caratterizzano un simile rapporto. Occorre, sin d’ora, premettere come l’ordinamento italiano non riservi alcuna disposizione legislativa specifica che definisca la prestazione di lavoro del giornalista. Invero, taluni riferimenti possono riscontrarsi nell’ambito della legge 3 febbraio 1963, n. 69 (recante “Ordinamento della professione del giornalista” e oggetto di svariate modifiche, tra cui, da ultimo, per mezzo della legge n. 62/2001), cui si deve l’istituzione dell’Ordine dei giornalisti, ma una definizione compiuta è rinvenibile soltanto in ambito giurisprudenziale.

In questo senso, a titolo meramente esemplificativo, risulta utile citare quanto affermato dalla Suprema Corte di cassazione che, con sentenza n. 889/1996, ha individuato nel concetto di “attività giornalistica” la prestazione “di lavoro intellettuale volta alla raccolta, al commento ed alla elaborazione di notizie destinate a formare oggetto di comunicazione interpersonale attraverso gli organi di informazione” (in senso analogo, si veda anche Cassazione, sentenza n. 1827/1995) e, con altra pronuncia, ha posto l’accento sul necessario carattere “creativo” che deve caratterizzare l’attività (Cassazione, sentenza n. 3705/1999). Peraltro, va precisato che nell’ampia nozione abbracciata dai giudici, non rientrano esclusivamente i giornalisti “in senso stretto”, nella generalità dei casi autori di articoli in favore di testate, bensì tutte le figure coinvolte nell’opera di raccolta e di comunicazione dell’informazione; così, la stessa Corte, ha, a titolo esemplificativo, riconosciuto il carattere “giornalistico” alla prestazione resa dal soggetto addetto alla progettazione e alla realizzazione grafica delle pagine di giornale (si veda, ancora, Cass. n. 889/1996). Giova, con ciò, esaminare nel dettaglio i vari profili giuslavoristici che contraddistinguono la materia e, in particolar modo, le differenze esistenti tra lavoro autonomo e subordinato in tale specifica ipotesi.

Giornalisti, lavoro autonomo e concetto di subordinazione “affievolita”

Risulta necessario, in primo luogo, rilevare come la prestazione di cui sopra si presti a rappresentare l’oggetto sia di rapporti di lavoro contraddistinti dalla subordinazione (ancorché, come si vedrà, con caratteristiche proprie), che di forme di collaborazione autonoma. Infatti, trattasi di un’attività che, “fermo restando il carattere della creatività”, può costituire l’una o l’altra forma “a seconda delle modalità della collaborazione tra il datore di lavoro e il giornalista” (Cass. n. 3705/1999). Orbene, il giornalista può senz’altro rendere la propria attività in maniera autonoma sulla base del disposto ex art. 2222 c.c. e, quindi, con contratto d’opera “senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente” e senza la necessità di un orario di lavoro fisso e di una presenza costante in azienda, in generale, per mezzo delle svariate forme di collaborazione previste dall’ordinamento (da libero professionista con partita Iva, con contratto di collaborazione coordinata continuativa, come lavoratore autonomo occasionale ovvero sotto forma di cessione del diritto d’autore).

Appare, in ogni caso, evidente che, ove si riscontri l’assenza di un’effettiva indipendenza e del carattere dell’autonomia, il giudice è chiamato a provvedere alla conversione del rapporto in forma subordinata. A tal proposito, vengono in luce alcune delle principali peculiarità della materia in oggetto. Infatti, nella valutazione dei c.d. “indici della subordinazione”, idonei ad identificare la sussistenza della sottoposizione del giornalista ad un superiore gerarchico e la non genuinità del lavoro autonomo, la giurisprudenza è approdata ad un orientamento interpretativo che tiene particolarmente conto della singolarità della professione. Si parla, in questo senso, di subordinazione “affievolita” o “attenuata”. Ebbene, premesso che i caratteri distintivi del rapporto di lavoro subordinato, costituiti “dall’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale” e dal suo assoggettamento “ai poteri direttivi e disciplinari del datore di lavoro”, sono i “medesimi per qualunque tipo di lavoro”, essi possono connotarsi per intensità diverse a seconda del livello delle mansioni esercitate o del contenuto della prestazione pattuita; nell’ambito del lavoro giornalistico, secondo la Cassazione, “l’inserimento nell’organizzazione aziendale e l’assoggettamento al potere datoriale si manifestano nel fatto che il lavoratore si tenga stabilmente a disposizione dell’editore, per eseguirne le istruzioni, anche negli intervalli tra una prestazione e l’altra” (vedasi Cassazione, sentenza n. 18660/2005). Il concetto di subordinazione “affievolita”, elaborato dagli interpreti, si giustifica poiché se, da un lato – quand’anche subordinato – il lavoro del giornalista gode, in ogni caso e di per sé, di una particolare autonomia garantita dall’ordinamento professionale, dall’altro i giudici sono chiamati a servirsi di criteri complementari e sussidiari per verificare il concreto atteggiarsi delle parti nel rapporto. In altri termini, nell’impossibilità, data dalla natura della professione, di prendere, ad esempio, in considerazione elementi quali la presenza oraria del lavoratore in azienda, la giurisprudenza ha, di volta in volta, adottato nuovi – e meno rigidi – criteri. Non possono, in particolare, essere considerati elementi idonei a negare la subordinazione l’eventuale commisurazione delle retribuzioni alle singole prestazioni, né “l’eventuale collaborazione del giornalista ad altri giornali, né la circostanza che l’attività informativa sia soltanto marginale rispetto ad altre diverse svolte dal datore di lavoro ed impegni il giornalista anche non quotidianamente e per un limitato numero di ore” (cfr. Cassazione, sentenza n. 6727/2001).

Va segnalato che la natura subordinata del rapporto è stata riconosciuta, tra gli altri, nel caso in cui il giornalista:

• abbia il compito di trattare, in maniera continuativa, “un argomento o un settore di informazione” (cfr. Cassazione, sentenza n. 6983/2004);

• abbia stipulato un patto con il datore di lavoro, per il quale quest’ultimo possa “fare affidamento sulla permanenza della disponibilità” del giornalista, “senza essere esposto al rischio di doverla contrattare volta per volta” (Cassazione, sentenza n. 12252/2003);

• abbia dimostrato la propria disponibilità ad attenersi alle istruzioni impartite dal responsabile redazionale (cfr. Tribunale di Roma, sentenza n. 10283/2007).

Redattore o collaboratore fisso: il discrimine per la giurisprudenza 

Una delle perplessità che, in più di un’occasione, la Corte di cassazione è stata chiamata a dirimere riguarda il corretto discrimine tra la figura del redattore e quella del collaboratore fisso, posto che le differenze, in termini retributivi, sono di discreto rilievo. Se, infatti, per il Ccnl riservato al lavoro giornalistico, i “redattori” sono individuabili nei “giornalisti che prestano attività giornalistica quotidiana con carattere di continuità e con vincolo di dipendenza anche se svolgono all’esterno la loro attività” (art. 1), è lo stesso contratto collettivo a prevedere, quale ulteriore figura, anche i “collaboratori fissi”.

Per tali soggetti, definiti dall’art. 2 come “giornalisti addetti ai quotidiani, alle agenzie di informazioni quotidiane per la stampa, ai periodici, alle emittenti radiotelevisive private e agli uffici stampa comunque collegati ad aziende editoriali, che non diano opera giornalistica quotidiana purché sussistano continuità di prestazione, vincolo di dipendenza e responsabilità di un servizio”, è prevista una retribuzione mensile proporzionata all’impegno di frequenza della collaborazione, alla natura e rilevanza delle materie trattate e al numero mensile delle collaborazioni.

Orbene, come anticipato, più volte l’Autorità giudiziaria si è pronunciata sulle richieste di riconoscimento delle differenze retributive provenienti da collaboratori fissi che, contestando tale natura, ritenevano di dover essere correttamente definiti come redattori. In particolare, l’orientamento giurisprudenziale consolidato è giunto a definire il redattore come un prestatore di lavoro subordinato, la cui attività può anche consistere nella fornitura di articoli redatti in autonomia, purché, in concreto, detta prestazione sia svolta “con carattere di quotidianità e con pieno inserimento nell’organizzazione dell’impresa giornalistica” e sempre che il soggetto partecipi, attraverso “una stretta coordinazione” con gli altri redattori presenti in azienda, “alla programmazione e formazione del giornale e delle attività necessarie a tal fine, quali scelta e revisione degli articoli, impaginazione, ecc.” (in questo senso, si veda, ex multis, Cassazione, sentenza n. 12252/2003).

Con maggior grado di dettaglio, poi, il Tribunale di Milano, con sentenza 5 maggio 1995, è giunto ad individuare le precise mansioni che devono contraddistinguere l’attività del redattore e, nello specifico:

• rilettura di pezzi (propri e altrui);

• riduzione delle misure dei pezzi;

• titolazione dei pezzi;

• stesura delle didascalie;

• scelta delle fotografie ovvero “collaborazione attiva in tale scelta”;

• rielaborazione di notizie “in articoli o in informazioni più articolate o complesse”;

• chiusura della pagina ovvero “collaborazione nella definizione dell’aspetto della pagina”.

Per converso, secondo costante giurisprudenza, può parlarsi di “collaboratore fisso” in tutti i casi in cui, pur rimanendo nell’alveo della subordinazione, la prestazione resa non si caratterizzi in senso quotidiano, ma, allo stesso tempo, sia continua. In particolare, il collaboratore fisso mette a disposizione le proprie energie lavorative “al fine di fornire con continuità ai lettori della testata giornalistica un flusso di notizie in una specifica e predeterminata area dell’informazione”, attra verso la redazione di articoli e contributi in maniera sistematica o, come spesso accade, “con la tenuta di specifiche rubriche, con il conseguente affidamento dell’impresa giornalistica, che si assicura in tal modo la copertura di detta area informativa” (cfr. Cassazione, sentenza n. 7931/2000).

Direttore responsabile: rapporto dirigenziale?

Talune riflessioni meritano, poi, di essere condotte con riferimento alla qualifica di direttore responsabile di una testata giornalistica e al relativo status giuridico. Trattasi di rapporto di lavoro dirigenziale, con conseguente applicazione delle regole speciali progressivamente abbracciate dalla giurisprudenza? Sul punto, può affermarsi come non esista una soluzione univoca e come il direttore responsabile possa, a seconda del caso concreto, definirsi o meno “dirigente”. Infatti, il mero conferimento dell’incarico di direttore non vale di per sé a comportare l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato, posto che, perché tale rapporto sussista, risulta necessario che “in capo alla stessa persona chiamata ad assolvere questa funzione di carattere pubblicistico” si aggiungano ulteriori compiti di “svolgimento dell’attività giornalistica e, in particolare, di funzione direttoriale esercitata in regime di subordinazione da dimostrare con l’inserimento del lavoratore nella organizzazione editoriale” (si veda, a questo proposito, Cassazione, sentenza n. 11596/2000).

In maniera maggiormente puntuale, la Suprema Corte, con sentenza n. 9307/2001, ha, da un lato, ribadito che il direttore di una testata non può essere ritenuto “automaticamente dirigente”, bensì risulta indispensabile, a tal fine, “accertare in concreto la corrispondenza delle sue mansioni ai tratti distintivi” della figura dirigenziale. Occorre, in altri termini, verificare se, nei fatti, il rapporto di lavoro sia caratterizzato da autonomia e discrezionalità nelle decisioni, nonché se sia assente “una vera e propria dipendenza gerarchica” tra editore e direttore e una discreta ampiezza di funzioni (cfr., ancora, Cass. n. 9307/2001 e, in linea generale, con riferimento alle caratteristiche del rapporto dirigenziale si veda Cassazione, sentenza n. 1963/1996).

Va considerato che le conseguenze della sussistenza o meno di tale particolare rapporto sono, come è noto, assai rilevanti, posto che, tra le altre, ove si accerti la natura dirigenziale può ammettersi, alle condizioni dettate dalla giurisprudenza, il c.d. licenziamento ad nutum (che, assai sinteticamente, può definirsi come un recesso senza particolari motivazioni).

Mancata iscrizione all’albo e conseguenze giuridiche

Come anticipato in premessa, la professione del giornalista ha visto la propria principale fonte di regolamentazione, oltre che nella contrattazione collettiva, nella legge 3 febbraio 1963, n. 69, cui si deve, peraltro, l’istituzione dell’Ordine e dell’albo professionale. La richiamata fonte, nel disciplinare due principali figure di giornalisti, ossia i professionisti (che, sulla base dell’art. 1 “esercitano in modo esclusivo e e continuativo la professione del giornalista”), da un lato, e i pubblicisti dall’altro (ossia coloro che svolgono attività giornalistica “non occasionale e retribuita anche se esercitano altre professioni o impieghi”), inibisce, all’articolo 45, l’esercizio della professione in oggetto a chi non sia iscritto all’uno o all’altro albo.

In proposito, si rileva che, nel pronunciarsi in merito alla compatibilità di una simile disposizione con il testo della Carta costituzionale e, in particolare, con la libertà di stampa ex art. 21 Cost., il giudice delle leggi ne ha confermato la piena legittimità. Occorre, peraltro, aggiungere che se, come detto, in assenza di iscrizione, l’esercizio della professione è precluso, l’eventuale attività abusiva posta in essere può, altresì, sanzionarsi penalmente, in virtù del disposto ex art. 348 c.p., per il quale “chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa”.

Ciò premesso – al netto delle conseguenze di natura penale – giova interrogarsi su quali possano essere i risvolti sul piano giuslavoristico di tale esercizio abusivo. Al riguardo, risulta utile citare la pronuncia n. 23695/2015, con la quale la Suprema Corte si è espressa in merito agli effetti sul rapporto di lavoro, derivanti da una sopravvenuta conoscenza dell’abusività dell’attività del soggetto. Stando all’interpretazione del Collegio, per quanto il contratto sottoscritto debba ritenersi affetto da nullità, ciò non si estende agli aspetti economici; e, infatti, per il periodo in cui il giornalista abbia effettivamente lavorato rimane salvo il “diritto del dipendente a percepire le competenze corrispondenti alle mansioni svolte”. Ciò vale, per di più, sia con riferimento al diritto “al trattamento economico secondo l’entità del lavoro svolto”, che al “corrispondente trattamento previdenziale” (in senso analogo, si citano Cassazione, sentenza n. 4165/2011, n. 3385/2011, n. 21591/2008, nonché n. 7020/2000).

Risoluzione del rapporto e c.d. “clausola di coscienza”

Ulteriori cenni meritano, poi, di essere effettuati in merito alla risoluzione del rapporto di lavoro. Anche con riferimento a questo aspetto, infatti, la specialità del rapporto giornalistico viene in rilievo con particolare pregnanza. Occorre premettere che, come nella generalità dei casi, il contratto di lavoro del giornalista può vedere la propria risoluzione consensualmente, per decesso del lavoratore, per dimissioni ovvero per licenziamento (sia esso per giusta causa ovvero per giustificato motivo). In quest’ultimo caso, stante il contenuto del Ccnl di categoria (vedasi art. 27) e a meno che il licenziamento non dipenda da “fatto o per colpa del giornalista così grave da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto”, il lavoratore ha diritto (oltre al trattamento di fine rapporto) ad un’indennità sostitutiva del preavviso, la cui misura varia a seconda della qualifica e, nello specifico:

• 13 mensilità per direttore, co-direttore, vice-direttore;

• 10 mensilità per redattore capo, corrispondente e capo dell’ufficio di corrispondenza;

• 9 mensilità per vice-caporedattore;

• 8 mensilità per capo servizio e redattore senior;

• 7 mensilità per tutte le altre ipotesi.

In ogni caso – e a prescindere dalla qualifica – gli importi di cui sopra devono essere aumentati “di una mensilità” nel caso in cui il lavoratore abbia maturato un’anzianità di servizio pari ad almeno vent’anni. Orbene, giova sottolineare che, con riferimento al preavviso, la particolarità che contraddistingue il rapporto di lavoro giornalistico (limitatamente ai professionisti) risiede nella totale esclusione della possibilità di un “periodo di preavviso lavorato” (si veda, in questo senso, la dichiarazione a verbale delle parti sociali di cui all’art. 27 Ccnl), cosicché con il versamento di Tfr e indennità sostitutiva si ha una “totale tacitazione di ogni competenza per cessazione del rapporto”, che si intende risolto a tutti gli effetti “dalla data della comunicazione della disdetta da parte dell’editore”.

All’editore-datore è, altresì, concesso di porre fine al rapporto – a prescindere da qualsivoglia motivazione – in caso di compimento del sessantacinquesimo anno di età da parte del giornalista (art. 33). Si è, al riguardo, osservato in dottrina come detta ipotesi non possa qualificarsi quale risoluzione automatica del contratto, bensì una mera facoltà concessa all’editore, il quale sarà sempre – e in ogni caso – chiamato a corrispondere al lavoratore gli importi suesposti.

Risulta opportuno, da ultimo, analizzare l’ulteriore – e peculiare – tema della risoluzione per dimissioni, in ragione degli aspetti sui generis che contraddistinguono – ancora una volta – il rapporto di lavoro in oggetto. Si parla, infatti, di “clausola di coscienza”, per riferirsi ad una specifica facoltà concessa al prestatore di interrompere il rapporto senza vincoli al ricorrere di determinate situazioni. Nella normalità dei casi, allorquando il giornalista rassegni le proprie dimissioni, è onerato del rispetto di un termine di preavviso di “due mesi” e, ove si astenga in tal senso, l’editore ha diritto di vedersi corrisposta, ai sensi dell’art. 27 Ccnl, “un’indennità equivalente all’importo della retribuzione correlativa al periodo di preavviso per il quale è mancata la prestazione del giornalista”.

Ciò vale, tuttavia, soltanto laddove le dimissioni non dipendano da motivi “di coscienza” specificatamente determinati dall’art. 32 Ccnl. Trattasi di ragioni che hanno a che fare con l’ideologia cui afferisce il giornalista, nonché con il relativo esercizio del diritto di critica e al ricorrere dei quali il lavoratore può liberamente recedere dal rapporto con l’editore e mantenendo il diritto a vedersi riconosciuto il trattamento di fine rapporto, nonché l’indennità sostitutiva del preavviso.

Nello specifico – e ai fini di cui sopra – l’articolo citato individua tre ipotesi, per le quali può ritenersi lesa la dignità del giornalista:

• il caso in cui si registri un “sostanziale cambiamento dell’indirizzo politico del giornale”;

• il caso in cui l’opera del giornalista venga utilizzata “in altro giornale della stessa azienda con caratteristiche sostanzialmente diverse” e tale utilizzazione possa ritenersi idonea a menomare la “dignità professionale del giornalista”;

• tutti gli altri casi in cui, in linea generale, per fatti imputabili alla responsabilità dell’editore, venga a crearsi una “situazione evidentemente incompatibile” con la dignità del giornalista stesso.

Peraltro, nell’ambito dello scarso contenzioso registratosi sul punto, la giurisprudenza di merito ha avuto modo di precisare che, per “cambiamento dell’indirizzo politico”, non debbano intendersi esclusivamente modifiche formali, ma, altresì, mutamenti fattuali. Ciò che conta è la circostanza per la quale “in un certo momento del rapporto, il giornalista ritenga la politica del giornale incompatibile con la sua dignità e libertà professionale” e, in altri termini, si registri un fatto, dal quale inconfutabilmente “possa trarsi la conclusione di una definitiva rottura del rapporto politico tra il giornalista e il giornale qualificante la reciproca collaborazione” (vedasi, in questo senso, Pretore Milano, sentenza 16 aprile 1975).

Orbene, con la previsione citata si configura un’ipotesi particolarmente emblematica del ruolo attribuito al giornalista dall’ordinamento, il quale, quand’anche in regime di subordinazione, non può vedere infirmata significativamente la propria autonomia professionale.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA