L’esercizio dello ius variandi, ossia la facoltà del datore di lavoro di modificare nel corso del rapporto le mansioni attribuite al dipendente al momento dell’assunzione, se non avviene correttamente, può comportare danni al lavoratore che, come tali, potrebbero ritenersi risarcibili. Se il datore intende procedere unilateralmente a variazioni in questo senso, è chiamato dunque a prestare particolare attenzione, oltre che alle modalità di esercizio e di comunicazione al lavoratore, anche al fatto che con l’assegnazione delle nuove competenze il prestatore non sia oggetto, in particolare, di conseguenze dannose per la sua professionalità.
Dal demansionamento – inteso come illegittima attribuzione di mansioni inferiori rispetto a quelle pattuite contrattualmente – potrebbero, infatti, conseguire danni di natura patrimoniale, consistenti in alcuni casi, in un generale «impoverimento della capacità professionale del lavoratore», oltre che «nella mancata acquisizione di un maggior saper fare» (si è espressa in questo senso la Cassazione, nella sentenza 330/2018) ed eventualmente a titolo di perdita di chance, nel caso in cui al dipendente siano precluse ulteriori possibilità di guadagno e potenzialità occupazionali. Inoltre, c’è la possibilità di ravvisare la sussistenza di lesioni alla personalità o a beni immateriali rientranti nella sfera della personalità del lavoratore e tutelati costituzionalmente (ad esempio il diritto alla salute), configurandosi in questa ipotesi un danno non patrimoniale che parimenti potrebbe essere oggetto di ristoro da parte del datore di lavoro, come responsabilità contrattuale. Da ciò deriva la domanda: il datore è sempre chiamato a rispondere in caso di modifica“al ribasso”?
Con la pronuncia 17976 del 9 luglio 2018, la Cassazione è nuovamente intervenuta su questo punto, negando in maniera perentoria che questa risarcibilità sia ravvisabile di per sé. Infatti, il danno al lavoratore non può considerarsi in re ipsa, ossia valutato in maniera automatica e in astratto. Colui che intenda far valere eventuali lesioni dovute al demansionamento operato unilateralmente dal datore di lavoro non può limitarsi a richiamare l’inadempimento contrattuale del titolare, ma ha l’onere di fornirne una idonea dimostrazione e di allegare in modo specifico «la natura e le caratteristiche del pregiudizio» subito.
Per il giudizio verranno in rilievo elementi – individuati dalla stessa giurisprudenza di legittimità – quali le caratteristiche, la durata, la gravità, la conoscibilità all’interno e all’esterno del luogo di lavoro dell’avvenuta dequalificazione professionale. Sarà necessario anche verificare se le aspettative di progressione professionale del lavoratore – che si assumono lese – siano precise e ragionevoli e, in concreto, siano state oggetto di frustrazione. Allo stesso modo, devono essere adeguatamente allegati e provati eventuali e pretesi «effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto» (come si legge sempre nella sentenza 17976/2018).
Per quanto il lavoratore possa godere di un ventaglio assai ampio di mezzi di prova di cui servirsi, il datore è posto, con ciò, sufficientemente al riparo da possibili obblighi risarcitori “automatici”. Per evitare probabili contenziosi, lo stesso datore di lavoro sarà chiamato ad assicurarsi che la variazione di mansioni messa in atto sia tendenzialmente compatibile con le caratteristiche del lavoratore e non eccessivamente pregnante, posto che, pur gravando l’onere della prova del danno sul dipendente, questi può comunque fare ricorso a presunzioni (anche semplici). Questa possibilità è pacificamente ammessa dalla giurisprudenza (si leggano, ad esempio, le sentenze della Cassazione 13484/2018, 22288/2017 e 23146 e 23432 del 2016). Anche sotto questo profilo, tuttavia, l’eventuale valutazione – seppure presuntiva – del giudice, deve basarsi su fatti e rilievi quanto più specifici e rilevanti, dovendosi escludere che sia «sufficiente il semplice richiamo di categorie generali».
Margini di manovra più ampi per i datori con il criterio formale
La nuova versione dell’articolo 2103 del Codice civile, introdotta con il Jobs act (Dlgs 81/2015), ha permesso l’emersione di una nuova concezione di flessibilità delle mansioni durante il rapporto di lavoro, fornendo una maggiore tutela nei confronti del datore di lavoro e superando il principio di necessaria – e assoluta – equivalenza tra i vecchi e i nuovi compiti attribuiti al lavoratore in caso di esercizio dello ius variandi. I giudici non sono più chiamati, come in passato, a valutare in concreto – e di fatto – l’omogeneità delle nuove mansioni e la loro aderenza alle specifiche competenze del dipendente, venendo esclusivamente in rilievo (per negare l’avvenuto demansionamento) che le nuove incombenze siano riconducibili allo «stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte» (come da nuova formulazione dell’articolo 2103).
Si passa, dunque, da un criterio puramente sostanziale a uno esclusivamente formale, che si presta a garantire una maggiore certezza e uniformità interpretativa, ad assoluto vantaggio del datore di lavoro e delle relative strategie imprenditoriali. Al datore è concesso di procedere a un vero e proprio demansionamento del lavoratore ogniqualvolta ciò sia reso necessario da una «modifica degli assetti organizzativi aziendali» (o che questa possibilità sia prevista dalla contrattazione collettiva). A circa tre anni dalla modifica della norma, si può tentare di valutare la portata dell’intervento legislativo sulla base dell’interpretazione giurisprudenziale. La giurisprudenza di merito – al netto di tesi restrittive – ha confermato l’assoluta legittimità della scelta datoriale di «attribuire al lavoratore funzioni che appartengano allo stesso livello di inquadramento delle precedenti», senza che sia più necessario «valutarne in concreto il contenuto professionale e/o l’aderenza alle specifiche competenze già acquisite» (Tribunale di Bergamo, sentenza del 12 gennaio 2017).
Con riferimento, poi, al mutamento in pejus, i giudici di merito si sono spinti sino ad ammettere – al ricorso dei nuovi presupposti di legge – la liceità di un’attribuzione a mansioni nettamente inferiori qualitativamente e quantitativamente a quelle precedenti (Tribunale di Roma, sentenza del 2 febbraio 2018). Per di più, è stata affermata la piena compatibilità con il criterio della «modifica degli assetti» legittimante il demansionamento, alla classica ipotesi in cui, a fronte del rischio di dover procedere al licenziamento, il datore metta il dipendente nella condizione di salvaguardare l’occupazione in una posizione diversa «e financo deteriore» (Tribunale di Milano, sentenza del 23 novembre 2016). In ogni caso, seppur nei citati casi espressamente consentiti dalla nuova formulazione della legge, il demansionamento è da ritenere sempre illegittimo ove al lavoratore vengano attribuite – anche in via di fatto – «mansioni di due livelli inferiori» (Tribunale di Milano, sentenza del 15 luglio 2016). In questo caso, il datore dovrà comunque procedere a riassegnare il lavoratore a incombenze idonee al proprio livello di inquadramento e a risarcire gli eventuali danni subiti.