In questa sede si intende analizzare il tema delle condotte antisindacali poste in essere dal datore di lavoro in caso di esercizio del diritto di sciopero da parte dei propri dipendenti. In particolare, con la recente sentenza n. 12551 del 22 maggio 2018, la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta a chiarire i presupposti per la sostituzione del lavoratore scioperante. Può, nello specifico, il datore sostituire il personale assente avvalendosi delle prestazioni di altri dipendenti che siano normalmente adibiti a mansioni di livello superiore?

Occorre, in tal senso, operare un bilanciamento di principi. A venire in rilievo, in primo luogo, sono da un lato il diritto di sciopero di cui all’art. 40 Cost. e dall’altro il generale principio di libertà dell’iniziativa economica (ex art. 41 Cost.). Ci si chiede, soprattutto, sino a che punto, in ossequio alla libertà di iniziativa, il datore possa agire per limitare le conseguenze dannose dell’astensione del lavoratore e, in particolare, i possibili danni alla propria produttività aziendale.

Orbene, rappresenta oramai un orientamento giurisprudenziale e dottrinale pressoché consolidato (eccezion fatta per talune e isolate pronunce: si veda Cassazione, sentenza n. 1701 del 1986) quello atto a negare la legittimità del c.d. “crumiraggio esterno”. Ciò comporta il divieto per il datore, ricavabile da più disposizioni di legge (si veda, in tema di contratto a termine, l’art. 3 lett. a, del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368nonché l’art. 20, lett a) del D.Lgs. 81/2015), di sopperire all’assenza degli scioperanti assumendo a vario titolo personale esterno. Può dirsi, con ciò, come operando tale assunzione – seppur temporanea – il titolare si renda protagonista di una vera e propria condotta antisindacale.

Il predetto assunto muta considerevolmente in relazione al c.d. “crumiraggio intero”, oggetto della pronuncia in commento. Sotto questo profilo, a più riprese il giudice di legittimità ha affermato che “in sé non costituisce comportamento antisindacale la scelta del datore di lavoro di sostituire lavoratori che aderiscono allo sciopero con altri lavoratori, non aderenti allo sciopero o appartenenti a settori non interessati allo sciopero” (in questo senso, si legga Cassazione, sentenza n. 14157 del 2012). Ciò vale, tuttavia, ove la scelta sia legittima, ossia effettuata “senza violare norme poste a tutela dei lavoratori” (cfr. Cassazione, sentenza n. 20164 del 2007).

Ebbene, nel caso in esame, il datore di lavoro aveva provveduto a sostituire il dipendente scioperante, come detto, con altro inquadrato in un livello superiore. La legittimità della scelta va, con ciò, valutata in relazione ai limiti del demansionamento espressamente previsti dall’art. 2103 del Codice civile e, in generale, del divieto di mutamento peggiorativo delle mansioni. La Suprema Corte, richiamando buona parte dei propri precedenti (si legga Cassazione, sentenza n. 12811 del 2009, sentenza n. 15782 del 2011, sentenza n. 4542 del 2013, nonché sentenza n. 14444 del 2015), si è pronunciata a favore della liceità della condotta datoriale. Sulla base della sentenza, tuttavia, l’azienda può validamente disporre delle prestazioni dei dipendenti del livello superiore “solo ove tali mansioni siano marginali e funzionalmente accessorie e complementari a quelle proprie della posizione dei lavoratori così assegnati”. In ogni caso, tale principio si applica altresì quando la sostituzione del lavoratore sia “istantanea o comunque di breve durata”. Allorquando tale condizione risulti soddisfatta, quindi, il carattere antisindacale della condotta del datore va del tutto escluso. Non è, infatti, possibile privare completamente lo stesso del diritto a limitare le conseguenze negative dello sciopero.

Ciò detto, la sentenza in commento ha altresì colto l’occasione per ribadire taluni presupposti per l’instaurazione di un giudizio con ricorso ex art. 28, Legge 300/1970 (procedimento per la repressione della condotta antisindacale). In tal senso, occorre rilevare come, in primo luogo, lo sciopero debba essere proclamato da un’associazione sindacale nazionale, intendendosi con ciò un’organizzazione con una struttura “articolata a livello nazionale” che svolga “attività sindacale su tutto o su ampia parte del territorio nazionale”; a nulla rilevando, al riguardo, l’eventuale sottoscrizione da parte dell’associazione di contratti collettivi nazionali, posto che, continua la Corte, la circostanza “rimane un indice tipico, ma non l’unico, rilevante ai fini della nazionalità”.

Allo stesso tempo è, da ultimo, necessaria l’attualità della condotta antisindacale; requisito che può dirsi soddisfatto anche ove, decorso un certo lasso di tempo, si registri la “permanenza” di taluni “effetti lesivi”, ovvero il comportamento posto in essere dal datore di lavoro sia idoneo “a produrre effetti durevoli nel tempo”.