Con un comunicato congiunto del 28 febbraio 2018, Confindustria e le tre principali sigle sindacali (CGIL, CISL e UIL) avevano annunciato il raggiungimento di un accordo in merito alla configurazione di un nuovo modello della contrattazione collettiva e delle relazioni industriali. La sottoscrizione di tale intesa, i cui contenuti erano stati inseriti in un documento conclusivo, è stata perfezionata in data 9 marzo 2018 in seguito alla sottoposizione dello stesso “alla valutazione degli organismi delle tre Organizzazioni sindacali”.

Orbene, nell’opera di restyling cui sarà soggetto il nuovo modello contrattuale, rimarrà invariata la sussistenza di un doppio livello di contrattazione, con, da un lato, il contratto nazionale di categoria e, dall’altro, in maniera decentrata, il contratto aziendale ovvero territoriale. Nell’ambito della contrattazione nazionale le parti sociali saranno, in particolare, chiamate a tener conto di due nuovi parametri retributivi, cui, a propria volta, sarà necessario adeguarsi in via decentrata. Trattasi, nello specifico, del c.d. “trattamento economico minimo” (TEM)  e del “trattamento economico complessivo” (TEC), che fungeranno da riferimento per la definizione e l’aggiornamento dei criteri di calcolo degli aumenti salariali. Occorre, a tal proposito, specificare come nella nozione di trattamento economico complessivo debbano ricomprendersi, tra le altre, le misure adottate dalle imprese ai fini dell’attuazione dei piani di welfare aziendale, per i quali, peraltro, è previsto un tentativo di reale ed effettiva valorizzazione.

Nelle intenzioni delle parti sociali richiamate, è riscontrabile l’obiettivo di un’implementazione della produttività aziendale, cui far conseguire, al tempo stesso, un tendenziale incremento dei salari dei lavoratori, calcolandone le variazioni in base all’indice IPCA (Indice dei prezzi al consumo). Con ciò, al contratto nazionale sarà demandata la regolazione generale di vari elementi del rapporto di lavoro e la definizione dei trattamenti retributivi e normativi della generalità dei lavoratori impegnati nel settore di riferimento, cui si aggiungerà una finalità di incentivo ad uno sviluppo virtuoso della contrattazione decentrata, in particolare aziendale. A tale livello, infatti, potranno individuarsi specifiche pattuizioni relative al salario che parametrino gli aumenti sulla base di peculiari obiettivi di produttività, redditività e innovazione strettamente legati al contesto aziendale di riferimento. Quanto sopra, dovrebbe prestarsi a favorire l’emersione di una nuova concezione di relazioni industriali che risultino maggiormente stabili e rappresentative e alle quali si accompagni una più efficace formazione e sviluppo di competenze dei dipendenti. In altri termini, quello che va delineandosi, a dire delle rappresentanze sindacali, sarebbe un vero e proprio “piano di sviluppo per il sistema-Paese” (come recentemente affermato dal segretario nazionale della CISL) elaborato con il coinvolgimento delle realtà più rappresentative. A tal proposito, si registra, altresì, l’inedita introduzione di un meccanismo di misurazione della rappresentatività anche con riferimento alle realtà datoriali, con l’auspicio, peraltro, che tale misurazione trovi un apposito riconoscimento all’interno di una norma di legge e che da un esplicita regolamentazione legislativa rimanga in ogni caso estranea la definizione di un salario minimo.

Per espressa dichiarazione delle stesse parti sociali, con gli interventi contenuti nell’accordo si sarebbe inteso porre un deciso argine all’oramai diffusa pratica del dumping contrattuale, intendendosi con tale espressione la tendenza alla stipula dei c.d. “contratti collettivi pirata”, ossia accordi sottoscritti da organizzazioni sindacali e associazioni datoriali prive di un’effettiva rappresentatività e con pesi specifici del tutto irrisori. In particolare, per mezzo di detti contratti, taluni datori di lavoro hanno operato negli ultimi anni un tentativo di perseguimento dei vantaggi propri di chi applica all’interno della propria azienda un contratto collettivo, ma rendendo tale applicazione esclusivamente formale, posto che, invero, trattasi di intese al ribasso in merito ai trattamenti retributivi. Infatti, tra gli scopi del ricorso ai contratti pirata può desumersi la volontà di applicare minimi retributivi assai inferiori rispetto a quanto pattuito dalle principali organizzazioni in sede di contrattazione nazionale, con pregiudizi rilevanti in capo ai lavoratori, da un lato, e alla concorrenza tra imprese dall’altro.

Occorrerà con ciò verificare se gli intenti dell’accordo troveranno un reale seguito nei futuri interventi legislativi, ovvero se la relativa portata sarà limitata alle relazioni sindacali.