Con sentenza del 19 ottobre 2017, il Tribunale di Roma ha avuto modo di pronunciarsi in merito ad una tematica che ha, negli ultimi anni, assunto particolare rilevanza nell’ambito dei dibattiti dottrinali. Trattasi dei patti parasociali e, nello specifico, della possibilità di includervi la c.d. “clausola di roulette russa”, una particolare soluzione individuata dalla prassi negoziale per far fronte a potenziali situazioni di stallo decisionale in cui possa ritrovarsi una società. Non è da considerarsi, infatti, circostanza infrequente l’ipotesi in cui la compagine sociale sia caratterizzata dalla presenza di due soci paritetici (con parità di diritto di voto), idonea a porre significativamente a repentaglio, in caso di disaccordo tra gli stessi, la stessa sopravvivenza della società. Invero, a norma dell’art. 2484 c.c. tra le possibili cause di scioglimento rientrano “l’impossibilità di funzionamento” e “la continuata inattività dell’assemblea”. Ebbene, in tal senso, la “roulette russa” appare, al netto dei possibili rischi di cui si dirà in seguito, un’efficace soluzione in grado di scongiurare – parzialmente – il rischio di una simile disgregazione. Occorre, a tal proposito, soffermarsi sul funzionamento di detto meccanismo.
In termini generali, la clausola può definirsi – nel silenzio della legge – come una reciproca imposizione, in caso di soci paritetici, di vincoli d’acquisto delle altrui quote. In particolare, il socio ha facoltà di formulare una proposta di acquisto relativa alle quote dell’altro, provvedendo discrezionalmente (in assenza di una specifica pattuizione all’interno della clausola stessa) a quantificare il valore dell’intero capitale sociale e, con esso, il valore delle quote in oggetto in misura percentuale. Il secondo sarà, poi, chiamato a decidere se accettare l’offerta ovvero provvedere esso stesso all’acquisto delle altrui partecipazioni, sulla base del valore – divenuto oramai irrevocabile – indicato nella proposta. In altre parole, a fronte di una clausola di roulette russa, il socio che intenda avvalersene e dare avvio al procedimento si ritrova in una condizione di incertezza sulla possibilità, da un lato, di divenire unico azionista e, dall’altro, di vedersi privato della totalità delle proprie quote.
Come detto, una simile previsione non può ritenersi scevra da rischi e possibili abusi. A ben vedere, parte della dottrina civilistica ha rilevato come il socio che sia edotto dell’eventuale difficoltà finanziaria dell’altro sia astrattamente incentivato a stabilire un valore della partecipazione che – seppur particolarmente ridotto – risulti per la controparte contrattuale impossibile da corrispondere. La stessa si ritroverebbe, in tale circostanza, del tutto obbligata a vendere le proprie quote senza garanzia alcuna di congruità dell’importo spettante. Taluno ha, con ciò, riscontrato una possibile contrarietà ai principi di correttezza e buona fede contrattuale che non possono che ritenersi inderogabili per l’ordinamento giuridico.
Intervenendo sul punto, il Tribunale di Roma ha, in primo luogo, osservato come la c.d. roulette sia “un negozio legislativamente atipico” e, come tale, da sottoporre a verifica della relativa “validità in termini di liceità e di rispondenza ad interessi meritevoli di tutela”. Ciò premesso, il giudice ha affermato la bontà delle finalità dello strumento, che si presta, in particolare, a “salvaguardare il progetto imprenditoriale” e ad “evitare i costi e le lungaggini della procedura di liquidazione della società”. Il soggetto “passivo” della procedura non potrebbe, sulla base della sentenza in commento, considerarsi svantaggiato, posto che il relativo potere di scelta, accompagnato dal rischio per il primo socio di perdere le proprie partecipazioni, contribuirebbe a configurare un meccanismo “intrinsecamente equilibrato”. La generalità delle norme di diritto societario, come concepite dal legislatore, non imporrebbe in alcun modo una fissazione del valore delle azioni che sia intrinsecamente equo; tuttavia, potrebbe desumersi, da una lettura analogica delle disposizioni in materia di recesso del socio (es. art. 2437-ter c.c., nonché art. 1349 c.c.), una possibile invalidità della clausola ove la stessa predisponesse un meccanismo idoneo di per sé a comportare “necessariamente una determinazione iniqua”, intendendosi tale iniquità già manifesta a priori. Il socio oblato non può, in ogni caso, ritenersi del tutto sprovvisto di tutela, in considerazione della possibilità offerta dall’ordinamento di agire in giudizio per il risarcimento dei danni patiti: in tale sede, lo stesso risulterebbe chiamato a provare il dolo dell’altra parte e l’abuso perpetrato nei propri confronti, elementi che, in ogni caso, non verrebbero in rilievo con riferimento alla validità della clausola in oggetto.
Ad ogni modo, si legge nella pronuncia in oggetto, la giurisprudenza di legittimità ha a più riprese individuato quale – illegittima – previsione di un mero arbitrio in capo ad una parte contrattuale nella determinazione del prezzo esclusivamente la circostanza in cui la scelta del valore sia “un fatto volontario” non dipendente da “seri e apprezzabili motivi” e “svincolato da qualsiasi razionale valutazione di opportunità e convenienza” (si legga, a titolo meramente esemplificativo, Cassazione, sentenza n. 18239 del 2014, nonché sentenza n. 11774 del 2007); ebbene, a dire del Tribunale di Roma, la clausola in oggetto, nel prevedere la facoltà del socio di determinare il predetto ammontare, non parrebbe considerarsi svincolata da seri e apprezzabili motivi, posto che “la determinazione del prezzo deve tenere conto del diritto di scelta che spetterà al destinatario della valutazione“, con ciò soddisfando anche l’interesse dell’altra parte.
La clausola della roulette russa, in conclusione, non può che ritenersi un mero strumento frutto dell’esercizio della libertà di negozio delle parti cui è indubbiamente concesso di “rinunziare a qualsiasi temperamento negoziale, in ossequio ai principi di auto-responsabilità e libera disponibilità della posizione patrimoniale di ciascun individuo”. Va, in ogni caso, osservato come, in quanto inserita all’interno di patti parasociali (regolati dall’art. 3241-bis c.c.) e non in statuto o atto costitutivo, la stessa clausola abbia efficacia esclusivamente obbligatoria, con ciò escludendosi una possibile opponibilità alla società, limitata solo al socio firmatario.