Come è noto, nell’ambito dell’esecuzione del rapporto di lavoro, non rappresenta circostanza rara il venire in rilievo di situazioni di conflittualità, disagio lavorativo e, talvolta, di vere e proprie pressioni in capo alla persona del lavoratore. Trattasi di contesti che ben possono prestarsi, a vario titolo, ad arrecare pregiudizi – spesso dotati di una certa rilevanza – sulla salute psico-fisica del dipendente, nonché a comportare ripercussioni e a precludere, altresì, un sereno svolgimento della vita privata del dipendente-vittima.
Ciò premesso, occorre rilevare come l’ordinamento giuridico italiano sia giunto alla configurazione di più fattispecie mutuate, in primo luogo, dalle elaborazioni della scienza psicologica (e, in particolare, della psicologia del lavoro) e ad offrire una tutela ai soggetti danneggiati per mezzo del recepimento delle risultanze di tali ricerche nell’ambito degli orientamenti giurisprudenziali. Va, infatti, sin d’ora precisato che in alcun modo il legislatore ha provveduto a “cristallizzare” in specifiche norme giuridiche i fenomeni via via individuati. Orbene, alla tradizionale ipotesi del c.d. “mobbing” – frutto di tesi oramai risalenti e, con specifico riferimento all’ambito del rapporto di lavoro, sviluppatesi in Europa a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso – si sono, negli anni, affiancate nuove teorie e nuovi fenomeni meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico. A ben vedere, infatti, la difficoltà sussistente in capo alla parte danneggiata di provare la totalità dei presupposti delle condotte mobbizzanti e il vuoto di tutela che veniva, con ciò, a costituirsi con riferimento alle ipotesi più “morbide”, ma comunque – e a tutti gli effetti – pregiudizievoli, ha favorito l’emergere della fattispecie del c.d. “straining”, nonché della risarcibilità delle relative conseguenze.
In questa sede si intende, con ciò, analizzare i tratti distintivi del fenomeno e della disciplina (di natura, come detto, esclusivamente giurisprudenziale), evidenziandone, in particolare, le principali differenze con il classico “mobbing”, anche in considerazione della recente pronuncia n. 18164/2018 della Suprema Corte di Cassazione che ne ha ribadito i caratteri fondamentali e i presupposti per un effettivo ristoro.
Lo “straining” nell’ambito della psicologia del lavoro
Come anticipato, è alle ricerche della scienza psicologica che si deve la nascita di tale inedita fattispecie. In particolare, la paternità della sua elaborazione concettuale in Italia può attribuirsi al noto psicologo, dott. Harald Ege, già da tempo rinomato quale principale esperto di mobbing e, in generale, di situazioni di disagio e stress nell’ambito del rapporto di lavoro. Orbene, sulla base delle ricerche dallo stesso effettuate, il c.d. “straining” si sostanzierebbe, nello specifico, in una “situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione ostile e stressante” e la cui conseguenza si caratterizza in un “effetto negativo costante e permanente nell’ambiente lavorativo”. In dette circostanze, per di più, il soggetto vittima della/delle ostilità si ritrova in una situazione di “persistente inferiorità” rispetto all’autore delle condotte (il c.d. “strainer”). Costituisce, altresì, tratto qualificante dell’ipotesi considerata la necessaria sussistenza di una volontà discriminante da parte dello strainer.
Non appare del tutto agevole individuare la precisa linea di demarcazione tra il mobbing vero e proprio, lo straining e un mero stato di stress occupazionale. In tal senso, richiamando – ancora una volta – le elaborazioni dello stesso H. Ege, può dirsi che indubbiamente lo stress rappresenta un elemento rilevante nell’ambito della fattispecie, tuttavia (nel caso dello straining) allo stesso si aggiunge una particolare componente di intenzionalità e di discriminazione da parte del datore di lavoro (ovvero superiore gerarchico). Sebbene, infatti, varie scelte e comportamenti datoriali possono prestarsi in astratto a ingenerare una situazione di stress nei confronti del lavoratore, nell’ambito dell’ipotesi considerata la vittima (ovvero un gruppo di vittime) percepisce di essere la sola ed unica destinataria di un particolare tipo di trattamento, contrariamente a quanto accade per i colleghi.
Appare, poi, del tutto indiscutibile che la situazione di stress in cui versa la vittima dell’aggressione deve caratterizzarsi in senso rilevante e, ad ogni modo, di gran lunga superiore al mero stress ordinariamente dovuto alla natura e alla tipologia del lavoro da questa svolto ovvero a possibili rapporti di lieve conflittualità tra colleghi.
Rispetto al mobbing (in cui i comportamenti devono caratterizzarsi in senso sistematico e frequente, preordinato ad un unico scopo), poi, è sufficiente che a ingenerare tali effetti nei confronti del lavoratore sia anche un’unica ed isolata condotta, purché idonea a produrre effetti pregiudizievoli a lungo termine e in modo costante a livello lavorativo. Risulta, in ogni caso, utile richiamare la suddivisione concettuale operata dallo stesso Autore:
• stress occupazionale: “situazione di pressione dovuta alla natura o alla cattiva organizzazione del lavoro”;
• straining: “situazione di stress forzato dovuta a discriminazione”;
• mobbing: “situazione di conflitto dovuta a persecuzione”.
Ad ogni modo, l’azione ostile da cui ha origine la situazione pregiudizievole può essere di varia natura. Tra le ipotesi più frequenti – nonché più gravi – rientrano, senza dubbio, eventuali demansionamenti o trasferimenti illegittimi, isolamenti, attacchi contro la reputazione della persona, violenza o minacce di violenza. Tuttavia le lesioni alla sfera psico-fisica della vittima possono avere origine, altresì, da un comportamento apparentemente organizzativo ovvero strettamente legato alla presenza del prestatore nel luogo di lavoro; si pensi, a titolo meramente esemplificativo, ad una privazione degli strumenti da lavoro del dipendente. In sintesi, le condotte lesive possono essere indubbiamente rappresentate da atti giuridici, ma anche – semplicemente – da azioni materiali (talvolta anche astrattamente lecite).
Elaborazione giurisprudenziale
I presupposti per una condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni conseguenti allo straining, nonché le caratteristiche delle condotte rientranti nella definizione, sono stati recentemente riaffermati dalla giurisprudenza di legittimità. In particolar modo, per mezzo della sentenza n. 18164 del 10 luglio 2018, la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di effettuare una ricognizione generale dei principi posti alla base del tema in oggetto.
Nel caso di specie – e tra le domande oggetto di giudizio – una lavoratrice richiedeva il risarcimento (invero a titolo di mobbing) dei pregiudizi patiti a causa della condotta del suo superiore gerarchico. Questi, nello specifico, si era reso protagonista di un unico episodio discriminatorio, consistente nell’aver accusato con tono particolarmente minaccioso la dipendente “di non essere in grado di reperire una segretaria” di fronte a più colleghi di lavoro e aver provveduto, in seguito a dette accuse, a trasferire la lavoratrice dall’amministrazione alla segreteria. Orbene, nei primi due gradi di giudizio, la domanda della ricorrente era stata rigettata poiché, in assenza di prova della totalità dei presupposti per l’accertamento di una condotta mobbizzante perpetrata nei suoi confronti, non sarebbe stato possibile provvedere ad una condanna ad altro titolo (segnatamente a titolo di straining richiesta soltanto in appello), in ossequio al principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato di cui all’art. 112 c.p.c.
Investita della questione, la Suprema Corte ha negato tale assunto, ribadendo, sulla scorta dei propri precedenti orientamenti (in tal senso, vedasi Cassazione, sentenza n. 3977 del 19 febbraio 2018, nonché sentenza n. 3291 del 4 novembre 2016), come a nulla rilevi l’aver qualificato con ricorso introduttivo la fattispecie come mobbing. A dire del giudice, infatti, la distinzione concettuale tra le due figure deve intendersi esclusivamente quale mera “differente qualificazione di tipo medico-legale” atta a identificare “comportamenti ostili”, ma comunque riconducibili generalmente ad una lesione del diritto alla salute costituzionalmente tutelato, cosicché risulta possibile per l’Autorità giudiziaria – senza preclusione alcuna – valutare la condotta datoriale, al netto della sussistenza di una “novità della questione”. Occorre, con ciò, esaminare con maggior grado di dettaglio le effettive differenze sussistenti tra le due figure. Dalla stessa sentenza citata si legge come, a differenza dei danni derivati da comportamenti mobbizzanti, nell’ambito dello straining i pregiudizi patiti dal lavoratore devono ritenersi risarcibili anche “in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio” (si legga, ancora, la richiamata Cassazione, sentenza n. 18164 del 10 luglio 2018). Come già anticipato, infatti, la fattispecie si configura anche ad opera di un’unica azione ostile o vessatoria (ovvero in più azioni ma caratterizzate dall’assenza di continuità), a differenza dell’ipotesi classica.
Per individuare il mobbing, a ben vedere, l’intera operazione persecutoria deve caratterizzarsi in una serie di comportamenti continui, sistematici e frequenti nel tempo, nonché monodirezionali e pretestuosi (cfr., tra le altre, Tribunale di Milano, sentenza del 24 dicembre 2008), cosicché giurisprudenza e dottrina sono giunte, tra le altre, a definire lo straining come una “forma attenuata di mobbing” che si sostanzia – sempre e comunque – in un comportamento che “può produrre una situazione stressante, la quale a sua volta può anche causare gravi disturbi psico-somatici o anche psico-fisici o psichici” (in tal senso, vedasi Cassazione, sentenza n. 3291 del 19 febbraio 2016). Trattasi di condotte che, peraltro, possono talvolta configurarsi quali “fattispecie di reato” (in questo senso, Cass., sez. pen., sentenza n. 28603 del 3 luglio 2013).
Già il significato letterale dell’espressione inglese “to strain” risulta, peraltro, utile ai fini dell’individuazione delle tipologie di condotte (“sfruttare, distorcere, spremere, tendere”). Leggendo, in questo senso, la prima delle sentenze italiane risalente al 2005, cui si deve l’emergere della fattispecie all’interno del nostro ordinamento, appare di estrema evidenza un – quasi acritico – recepimento delle risultanze della scienza psicologica e, in particolare, delle richiamate tesi di Harald Ege. Infatti, pronunciandosi in merito ad un caso di demansionamento (unito ad una privazione degli strumenti di lavoro), al fine di ristorare i pregiudizi alla salute della lavoratrice e nell’impossibilità di ricondurre la condotta datoriale ad una precisa strategia sistematica, il Tribunale di Bergamo ha appunto affermato che è configurabile lo straining in una “situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente di lavoro, azione che oltre ad essere stressante è caratterizzata anche da una durata costante” e per la quale la vittima “è rispetto alla persona che attua lo straining, in persistente inferiorità” (Tribunale di Bergamo, sentenza n. 286 del 21 aprile 2005). Ciò che conta, in ogni caso, è che a prescindere da qualsivoglia disegno persecutorio, il datore di lavoro (o superiore gerarchico) ponga in essere, a vario titolo, una violazione dell’obbligo di cui all’art. 2087 del Codice civile (interpretato in maniera estensiva) che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore. In tal senso, è stata ritenuta lesiva nei confronti del lavoratore anche la mera circostanza di uno svolgimento della prestazione professionale in un “ambiente di lavoro disagevole, per incuria e disinteresse nei confronti del benessere lavorativo” (cfr. Cassazione, sentenza n. 3291 del 19 febbraio 2016), registrandosi con ciò un deciso ampliamento delle ipotesi sanzionabili.
Occorre, da ultimo, sottolineare come, tra gli ulteriori elementi di differenza con il mobbing rientri, altresì, la specifica individuazione del possibile autore delle condotte. A ben vedere, con riferimento ai comportamenti mobbizzanti risulta oramai pacifico che, oltre alla circostanza maggiormente frequente di vari atti posti in essere direttamente dal datore di lavoro o da un superiore gerarchico del lavoratore, integrino la fattispecie anche le azioni persecutorie perpetrate dai colleghi di pari livello della vittima. Trattasi, segnatamente, del c.d. “mobbing orizzontale” che si presta anch’esso a dar luogo ad una condanna risarcitoria del datore, in ragione del suo obbligo di intervenire a reprimere le vessazioni, ancora una volta, derivante dall’art. 2087 c.c. (si veda, a titolo meramente esemplificativo, Cassazione, sentenza n. 1471/2013). Orbene, taluno in dottrina ha, invece, rilevato come la figura dello strainer – nella relativa concezione – non possa che identificarsi esclusivamente nel superiore gerarchico ovvero nel datore; e, in effetti, tale assunto parrebbe ritenersi condivisibile alla luce della “persistente inferiorità” richiesta dalla giurisprudenza.
Forme di danno configurabili e risarcibili
Premessi gli elementi che si prestano a caratterizzare i comportamenti dello strainer e l’individuazione della fattispecie, giova, in ultima analisi, riflettere sulle tipologie di pregiudizi che possono verificarsi in capo al lavoratore che ne è vittima, nonché sul relativo onere della prova. Ebbene, in tal senso, va preliminarmente rilevato che i danni potenzialmente configurabili sono sia di natura patrimoniale che non patrimoniale.
Quanto ai primi, è indubbiamente ravvisabile un possibile danno alla professionalità del dipendente, in particolar modo ogniqualvolta le azioni poste in essere attengano ad un demansionamento o dequalificazione, cosicché il lavoratore può dimostrare in giudizio – e ottenerne idoneo ristoro – un effettivo “impoverimento della capacità professionale acquisita” ovvero una “mancata acquisizione di una maggior capacità”, nonché une perdita di chances, ossia di ulteriori possibilità di guadagno (sotto tale profilo, si veda Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 6572 del 24 marzo 2006). A questo proposito, è oramai da tempo ritenuta pacifica la possibilità di fornire idonea prova del pregiudizio patito per mezzo di presunzioni, sempre che sia effettivamente dimostrato l’avvenuto demansionamento/dequalificazione (Cassazione, sentenza n. 29832/2008). Allo stesso tempo, come anticipato, possono configurarsi danni non patrimoniali che, come noto e in linea generale, al netto di letture restrittive dell’art. 2059 c.c., sono risarcibili in tutte le circostanze per le quali si registri una “lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione” (cfr., ex multis, Cassazione, sentenza n. 8827/2003, nonché sentenza n. 8828/2003). Va, con ciò, detto che, stante il richiamato art. 2087 che impone al datore di tutelare l’integrità fisica e personalità morale del prestatore, questi è chiamato a risarcire le conseguenze delle vessazioni sia “sotto il profilo dell’integrità psico-fisica (art. 32 Cost.), secondo le modalità del danno biologico” sia, allo stesso tempo, “della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.)” (cfr. Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 26972/2008), cosicché, oltre alle sofferenze fisiche, trovano adeguato ristoro altresì varie tipologie di lesione, siano esse, ad esempio, riferibili all’onore, all’immagine e alla reputazione del dipendente, purché riconducibili, appunto, al dettato costituzionale. A tal proposito, l’onere probatorio – seppur gravante sul lavoratore che promuove l’azione – può anche in tale ipotesi essere soddisfatto per mezzo del ricorso a prove presuntive.
A ciò si aggiunga, peraltro, il possibile emergere di danni – ancora una volta non patrimoniali nella relativa voce di danno esistenziale, definibile, in linea generale, come un radicale cambiamento di vita del soggetto danneggiato, ovvero nell’alterazione della relativa personalità o, ancora, nello sconvolgimento, appunto, dell’esistenza (si veda, sotto tale profilo, Cassazione, sentenza n. 27229 del 16 novembre 2017). Può, infatti, accadere che dalle condotte dello strainer derivi un mutamento del tutto radicale delle abitudini del lavoratore, in ragione dello stato di emarginazione in cui sia stato costretto incolpevolmente a ritrovarsi.
Straining e norme ad hoc: i tentativi di legiferazione
Al pari del mobbing, anche con riferimento alla fattispecie dello straining taluno si è preoccupato di operare dei tentativi di offrire un’apposita disciplina legislativa alla materia, riconducendo i caratteri della fattispecie alla vasta elaborazione giurisprudenziale. Se, riguardo allo straining, le prime proposte registrate nell’ambito dei lavori parlamentari risalgono ad un’epoca piuttosto recente, le iniziative in merito ad una regolazione del fenomeno del mobbing – seppur senza successo – sono state innumerevoli. È il caso di citare, a titolo meramente esemplificativo, il Disegno di legge n. 4265, presentato nell’ambito della XIII Legislatura e, nello specifico il 13 ottobre 1999. Il DDL richiamato, oltre a prevedere particolari responsabilità disciplinari e a richiamare espressamente la possibilità di adire il giudice ai fini di un risarcimento da quantificarsi in via equitativa, offriva un’ampia definizione dei possibili comportamenti integranti la persecuzione e, segnatamente: “… atti vessatori, persecutori, le critiche e i maltrattamenti verbali esasperati, l’offesa alla dignità, la delegittimazione di immagine, anche di fronte a soggetti esterni all’impresa …” (art. 2, comma 2, DDL n. 4265/1999).
Con riferimento, invece, ad entrambe le figure, si segnala la presentazione di una proposta di legge datata 14 marzo 2014 e assegnata alla 2ª Commissione permanente (Giustizia) della Camera dei Deputati in data 13 ottobre 2017 (proposta n. 2191). In particolare, per mezzo della proposta in oggetto, si era tentato di introdurre specifiche fattispecie di reato per entrambe le tipologie di condotte. Infatti – sulla base di quanto rilevato dagli stessi proponenti e in considerazione del noto divieto di analogia in materia penale – in favore del lavoratore vittima del mobber o dello strainer si sarebbe determinata negli anni, a loro dire, “una tutela mutilata” poiché limitata a sanzioni civili.
Ebbene, ai fini di cui sopra, la proposta si componeva di due articoli. Nello specifico, oltre ad un’iniziale disposizione a carattere prettamente generale (art. 1: “La Repubblica promuove incontri tra i diversi soggetti del mercato del lavoro al fine di sensibilizzare i lavoratori, i datori di lavoro e i sindacati al rispetto della normativa in materia dei reati di mobbing e straining”), l’art. 2 introduceva all’interno del Codice penale un inedito art. 582-bis, a norma del quale punire con la reclusione da sei mesi a tre anni (e con multa da euro 5.000 a euro 20.000) chi, nell’ambito del rapporto di lavoro, “con più azioni di molestia, minaccia, violenza morale, fisica, o psicologica ripetute nel tempo” ponesse in pericolo o desse luogo ad una lesione della “salute fisica o psichica ovvero la dignità di un lavoratore” (mobbing). Ove, poi, un analogo comportamento fosse riconducibile ad un’unica azione (straining), la pena sarebbe stata inferiore (“… da tre mesi a due anni e con multa da euro 3.000 a euro 15.000”). In ogni caso, le sorti dell’iniziativa risultano tutt’ora congelate e, nelle more di effettivi interventi legislativi sul punto, l’intera disciplina continuerà ad essere limitata ai principi giurisprudenziali che, in questa sede, si è inteso mettere in luce.