Il datore di lavoro che procede a un licenziamento collettivo in base alla legge 223/1991 deve motivare in maniera veritiera le esigenze che rendono necessaria la riduzione di personale e rappresentare un quadro il più possibile fedele della situazione economica aziendale. Questo per non incorrere in palesi irregolarità che travolgano il procedimento e, con ciò, la legittimità dell’intera operazione. La giurisprudenza recente, infatti (si veda la sentenza dell’11 ottobre 2018 della Corte d’appello di Trento), ha dato un’interpretazione tendenzialmente attenuata del principio di insindacabilità delle motivazioni in sede giurisdizionale.

Il criterio generale

Generalmente, in tutti i casi in cui il datore di lavoro intenda procedere a una riduzione del personale in base alla legge 223/1991 e si attenga agli adempimenti prescritti dalla legge, il giudice eventualmente chiamato a decidere sulla legittimità dell’operazione, deve limitarsi a una valutazione in merito alla correttezza della procedura, senza la possibilità di spingersi a un sindacato relativo alla bontà dei motivi posti alla base dei licenziamenti.

Questo orientamento interpretativo può ormai definirsi consolidato nella giurisprudenza di legittimità e di merito (si vedano le sentenze della Cassazione 21717/2018 e 15861/2017 e rappresenta una diretta conseguenza della scelta compiuta dal legislatore di attribuire a un soggetto diverso – le organizzazioni sindacali, in sede di accordo – il ruolo di operare una simile valutazione.

Nell’ambito dei licenziamenti collettivi, infatti, è la stessa legge 223/1991 a prevedere esplicitamente, oltre all’obbligo per il datore di lavoro di predisporre e inoltrare al sindacato una comunicazione preventiva di avvio della procedura, che le associazioni debbano essere rese edotte, tra gli altri, “dei motivi che determinano la situazione di eccedenza” nonché dei “motivi tecnici, organizzativi” che impediscano di evitare il recesso (articolo 4, comma 3, legge 223/1991). Questo per consentire alle stesse organizzazioni di esercitare ex ante la propria funzione che, nell’ipotesi considerata, si concretizza in un esame congiunto dei motivi addotti e nell’eventuale individuazione di misure meno drastiche rispetto a provvedimenti espulsivi.

I rischi di un quadro non veritiero

Con la sentenza dell’11 ottobre 2018, la Corte d’Appello di Trento ha fornito spunti interessanti in materia, aderendo a un’interpretazione tendenzialmente attenuata del principio di insindacabilità in sede giurisdizionale. Pur ribadendo una generale sottrazione al controllo giudiziale delle ragioni di cui sopra, la Corte ha in ogni caso offerto una tutela ai lavoratori oggetto della procedura, per palese difformità e non veridicità dei dati offerti dal datore di lavoro in comunicazione e asseritamente legittimanti i licenziamenti.

Dalle conclusioni della Corte si evince, in particolare, che in caso di irregolarità di questo tenore, è la stessa funzione sindacale attribuita dalla legge 223/1991 a essere intaccata. Nel caso specifico, è stato ritenuto che il giudice può sindacare il merito dei motivi se sia accertata una “totale (e voluta) elusione dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali” posto che, venendo meno la veridicità delle informazioni sullo “stato di salute” dell’impresa, verrebbe contestualmente meno anche uno dei presupposti fattuali della procedura di riduzione, ossia “la conoscenza da parte delle organizzazioni sindacali delle circostanze rilevanti per la valutazione, la trattativa, le proposte alternative ai licenziamenti” (Corte d’appello di Trento, sentenza dell’11 ottobre 2018).

In altri termini, ove le valutazioni effettuate dalle associazioni in sede di controllo siano basate su circostanze non aderenti alla realtà dei fatti, il necessario contraddittorio può risultare del tutto inficiato. Lo stesso giudice, peraltro, ritenendo il vizio rilevato di natura sostanziale, si è espresso anche riguardo alla sanzione applicabile, affermando, nel caso specifico, la necessità di una tutela reintegratoria. Per non incorrere in palesi irregolarità che travolgano il procedimento e, con ciò, la legittimità dell’intera operazione, quindi, il datore deve rappresentare un quadro della situazione fedele e in ogni caso non fuorviante, sulla totalità degli elementi contabili forniti. A ogni modo, nell’indagine da fare in sede giurisdizionale (che non può naturalmente prescindere dall’ausilio di Ctu sulla correttezza della situazione economica prospettata) non può bastare il mero rilievo dell’esistenza di simili vizi: deve essere verificata anche la sussistenza di un nesso di causalità effettivo tra la non veridicità o incompletezza dei dati e l’effettiva impossibilità per le organizzazioni sindacali “di operare una gestione contrattata della crisi” (Cassazione, sentenza 750/ 2012).

TUTELA RAFFORZATA PER GLI ASSUNTI PRIMA DEL 7 MARZO 2015

Per individuare la forma di tutela applicabile nei confronti dei lavoratori coinvolti in procedure di licenziamento collettivo, occorre, in primo luogo, prendere in considerazione le tempistiche di instaurazione del rapporto. Il legislatore è intervenuto più volte, infatti, per regolare i licenziamenti “economici”, nei quali vanno incluse senza dubbio le riduzioni di personale in base alla legge 223/1991.

Assunti a tutele crescenti

Non paiono sussistere margini di incertezza sui licenziamenti collettivi intimati a lavoratori assunti dopo l’entrata in vigore del Dlgs 23/2015 sul contratto a tutele crescenti: al netto dell’ipotesi residuale dell’assenza di forma scritta – cui si deve eventualmente una tutela reintegratoria piena- in tutti gli altri casi il giudice può condannare il datore soltanto al pagamento di un’indennità risarcitoria. Ciò vale, peraltro, a prescindere dalla tipologia di vizio riscontrabile nel comportamento datoriale, sia esso meramente inerente gli adempimenti procedurali o più pregnante.

Addetti soggetti all’articolo 18

Il discorso cambia considerevolmente per i rapporti instaurati prima del 7 marzo 2015, ai quali debba – ancora – applicarsi l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970), come modificato dalla riforma Fornero (legge 92/2012). In questo caso – e sotto il profilo sanzionatorio – viene in rilievo, appunto, la natura dell’illegittimità dei provvedimenti. Ove i vizi accertati siano strettamente inerenti all’iter procedimentale e, in particolare, ai vari adempimenti prescritti in capo al datore di lavoro in base all’articolo 4 della legge 223/1991, il lavoratore ha diritto esclusivamente alla tutela indennitaria piena, ovvero il pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità di retribuzione (articolo 18, comma 5, della legge 300/1970). Le ipotesi riscontrabili di questa casistica sono numerose: da irregolarità nella trasmissione della comunicazione di avvio della procedura alle organizzazioni sindacali, sino, ad esempio, al mancato rispetto dei tempi di conclusione della procedura stessa.

Un apparato più garantista è applicabile, al contrario, per veri e propri vizi sostanziali, cui consegue, sulla base della normativa e della giurisprudenza, una forma di tutela reale. È il caso, generalmente più frequente nella prassi, della violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da collocare in mobilità, previsti dall’articolo 5 della legge 223/1991. La disposizione, in assenza di diverse pattuizioni in sede di contrattazione collettiva, impone di considerare “carichi di famiglia, anzianità e esigenze tecnico-produttive ed organizzative“. Se in sede giudiziaria è accertato che l’individuazione dei dipendenti in esubero deriva da un’erronea applicazione da parte del datore della norma citata ovvero dei criteri diversamente stabiliti contrattualmente, il datore non può che essere condannato alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità per il periodo intercorrente dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione (articolo 18, comma 4, della legge 300/1970).

Contributo pubblicato su “IL SOLE 24 ORE”