La reperibilità del dipendente consiste nell’obbligo del lavoratore di rendersi disponibile allo svolgimento dell’attività lavorativa al di fuori del normale orario di lavoro, quindi, di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato e di raggiungere, in breve tempo, il luogo di lavoro per eseguire la prestazione richiesta. La materia non trova specifica regolamentazione legislativa.

La disciplina della reperibilità è rimessa ai contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) ovvero, in mancanza, ai contratti territoriali, aziendali o agli accordi individuali intercorrenti tra azienda e dipendente.

Ai lavoratori in regime di reperibilità spetta un’apposita indennità a fronte del disagio provocato dall’obbligo di mantenersi pronti per un’eventuale chiamata dell’azienda.

L’obbligazione assunta dal lavoratore si configura come una prestazione strumentale ed accessoria ontologicamente diversa dalla prestazione di lavoro. Qualora la reperibilità debba essere garantita durante il riposo settimanale o nei giorni festivi, l’indennità consiste in un corrispettivo quantitativamente diverso da quello previsto in caso di effettiva e piena prestazione lavorativa e non legittima, di conseguenza, la pretesa di un riposo compensativo.

Come vedremo nel dettaglio più avanti, sulla questione della remunerazione della reperibilità speciale ha avuto occasione di pronunciarsi la Corte di Cassazione con la sentenza n. 30301 del 27 ottobre 2021.

Il caso riguardava un guardiano a cui veniva richiesto di assicurare la vigilanza continuativa della diga soggetta al suo controllo. Il servizio del lavoratore era vincolato nel luogo di espletamento della prestazione dovendo lo stesso risiedere nelle vicinanze della diga in un’apposita casa di guardia collegata telefonicamente o con impianto radio con la sede più prossima della concessionaria. Il regime di reperibilità lasciava libero il lavoratore di riposare e dedicarsi ad attività di suo gradimento, anche in compagnia, senza alcun obbligo specifico di vigilanza.

Fattispecie diversa dalla reperibilità speciale è la c.d. “pronta reperibilità” (o pronta disponibilità, o reperibilità attiva), che consiste in un servizio di pronto intervento durante il quale il lavoratore deve poter raggiungere, su richiesta del datore di lavoro, il luogo in cui svolgere la prestazione entro un termine specifico.

Il servizio svolto in regime di “pronta disponibilità” è considerato, nella sua integralità, come orario di lavoro. Sono infatti considerate alla stregua delle ore lavorate sia le ore in cui si è in attesa delle chiamate, sia le ore di operatività.

Direttiva 2003/88/CE e orario di lavoro: interpretazione della giurisprudenza comunitaria

La Direttiva 2003/88/CE, recepita nel nostro Ordinamento con il D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, contiene prescrizioni minime sull’organizzazione dell’orario di lavoro al fine di migliorare le condizioni di lavoro dei lavoratori nella Comunità onde garantirne la sicurezza e la salute.

Secondo l’art. 2 della Direttiva, «orario di lavoro» è «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali», mentre «periodo di riposo» è «qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro». Non destano particolari perplessità il primo e il terzo elemento della nozione di orario di lavoro, rispetto ai quali «il lavoratore deve essere nell’esercizio delle sue attività o delle sue funzioni» e «il dipendente deve essere al lavoro».

Per quanto riguarda il secondo elemento, «il lavoratore deve essere a disposizione del datore di lavoro», il fattore determinante è costituito dal fatto che il lavoratore è costretto ad essere fisicamente presente nel luogo stabilito dal datore di lavoro e a tenersi a disposizione del medesimo per poter immediatamente fornire le opportune prestazioni in caso di bisogno.

Affinché un lavoratore possa essere considerato a disposizione del proprio datore di lavoro, deve essere posto in una situazione nella quale è obbligato giuridicamente ad eseguire le istruzioni del proprio datore di lavoro e ad esercitare la propria attività per il medesimo.

Di contro, la possibilità per i lavoratori di gestire il loro tempo in modo libero e di dedicarsi ai loro interessi è un elemento che denota che il periodo di tempo in questione non costituisce orario di lavoro (Corte di Giustizia 10 settembre 2015 in causa C266/2014).

Dunque, se in generale gli elementi costituitivi della nozione di orario di lavoro sono l’essere il lavoratore nell’esercizio delle sue attività o delle sue funzioni, a disposizione del datore di lavoro e al lavoro, per i servizi di reperibilità (in cui il dipendente è a disposizione del datore di lavoro), l’indagine volta a stabilire se si tratta di reperibilità speciale o pronta reperibilità, va effettuata verificando due concorrenti presupposti: l’esercizio dell’attività o delle funzioni e l’essere il dipendente al lavoro.

In tale prospettiva la Corte di Giustizia ha avuto modo di distinguere, ad esempio, il servizio di guardia da quello di reperibilità che non obbliga alla presenza sul luogo di lavoro, ritenendo presenti nel primo caso gli elementi caratteristici della nozione di «orario di lavoro», poiché l’«esercizio delle funzioni» si configura nell’obbligo di essere presenti e disponibili sul luogo di lavoro per prestare la propria opera e ciò anche quando sia messa a disposizione del medico sul luogo di lavoro una stanza con un letto per riposare nei periodi di inattività (CGUE 9 settembre 2003, C151/02).

In un altro caso deciso dalla CGUE è stato fatto rientrare nella nozione di orario di lavoro il tempo in cui una guardia forestale, con alloggio di servizio, era tenuta ad essere a disposizione del datore di lavoro laddove, al di fuori dell’orario di lavoro previsto per legge, gli veniva attribuita senza limiti di tempo la responsabilità della particella boschiva anche per i danni in qualunque momento avvenuti con conseguente obbligo di sorveglianza. A tale conclusione la Corte di Giustizia è pervenuta tenendo conto della natura e della portata degli obblighi di sorveglianza e del regime di responsabilità applicabile che connotavano il caso (CGUE ord. 4 marzo 2011, C-258/10).

Diversamente, nel caso in cui il servizio di guardia non si svolga secondo un regime di presenza fisica sul luogo di lavoro, è stato considerato «orario di lavoro» solo il tempo relativo alla prestazione effettiva del servizio in quanto il dipendente, pur dovendo essere raggiungibile e dunque a disposizione del datore di lavoro, può gestire il suo tempo in modo più libero e dedicarsi ai propri interessi (così CGUE 5 ottobre 2004, nelle cause riunite da C-397/01 a C-403/01; 1 dicembre 2005, C-14/04 ; 11 gennaio 2007, C-437/05).

Se, da un lato, l’art. 2 della Direttiva 2003/88/CE ricava la nozione di «periodo di riposo» per esclusione dalla definizione dell’orario di lavoro, dall’altro lato, rimane la necessità di assicurare ai lavoratori un riposo adeguato alla protezione della loro salute e sicurezza che finisce con il condizionare l’ampiezza della nozione di «orario di lavoro».

Risulta allora decisivo il criterio attinente alla possibilità per i lavoratori di gestire il loro tempo in modo libero e di dedicarsi ai loro interessi (Corte di Giustizia, sentenza 10 settembre 2015, punto 37). Con una recente sentenza, la Corte di Giustizia UE (CGUE, Sez. V, 11 novembre 2021, n. 214/20) ha avuto occasione di puntualizzare che rientra nella nozione di «orario di lavoro» l’integralità dei periodi di guardia, ivi compresi quelli in regime di reperibilità, nel corso dei quali i vincoli imposti al lavoratore siano tali da incidere oggettivamente e in maniera molto significativa sulla facoltà, per quest’ultimo, di gestire liberamente, durante i suddetti periodi, il tempo in cui la sua attività professionale non è richiesta e di dedicare tale tempo ai propri interessi.

Il caso riguardava la reperibilità di un Vigile del Fuoco durante il periodo di guardia, periodo nel quale il lavoratore esercitava, con l’autorizzazione del suo datore di lavoro, un’attività professionale autonoma ma doveva, in caso di convocazione di emergenza, raggiungere la Caserma entro un termine massimo di dieci minuti.

Quando i vincoli imposti al lavoratore nel corso di un periodo di guardia non raggiungono un tale grado di intensità e permettono al lavoratore di gestire il proprio tempo e di dedicarsi ai propri interessi, soltanto il tempo connesso alla prestazione di lavoro che, eventualmente, sia effettivamente realizzata durante il periodo di guardia costituisce «orario di lavoro», ai fini dell’applicazione della Direttiva 2003/88.

Secondo la CGUE, la reperibilità non costituisce in questo caso «orario di lavoro» posto che da una valutazione globale di tutte le circostanze del caso (in particolare, l’ampiezza e le modalità di tale facoltà che consentivano al ricorrente di esercitare un’altra attività professionale, nonché l’assenza di un obbligo di partecipare a tutti gli interventi effettuati a partire dalla caserma), risultava che i vincoli imposti al lavoratore durante tale periodo non fossero tali da incidere obiettivamente e in maniera molto significativa sulla facoltà di quest’ultimo di gestire liberamente, nel corso di detto periodo, il tempo durante il quale le sue prestazioni professionali come Vigile del Fuoco non erano richieste.

La CGUE ha avuto occasione di pronunciarsi anche su una recente decisione adottata dal Tribunale del distretto di Praga 9 (Corte giustizia Unione Europea, Sez. X, 9 settembre 2021, n. 107/19).

La causa riguardava, anche in questo caso, un Vigile del Fuoco. Il lavoratore era soggetto ad un regime di lavoro a turni, a squadre alternanti, articolato in un turno diurno, nella fascia oraria compresa tra le ore 6:45 e le ore 19:00 e in un turno notturno, che copriva la fascia oraria compresa tra le ore 18:45 e le ore 7:00. Gli orari di lavoro giornaliero includevano due pause per i pasti e il riposo della durata di 30 minuti ciascuna. Tra le ore 6:30 e le ore 13:30, al lavoratore era consentito di recarsi alla mensa aziendale, situata a 200 metri dalla sua postazione di lavoro, a condizione che indossasse un trasmettitore che lo avrebbe avvisato, se necessario, che il veicolo d’intervento sarebbe passato a prenderlo entro due minuti davanti alla mensa aziendale. Le pause erano computate nell’orario di lavoro soltanto se interrotte da una partenza per un intervento. Di conseguenza, le pause ininterrotte non erano retribuite.

Il Vigile del Fuoco contestava questo metodo di calcolo della sua retribuzione considerando che le pause, pur se ininterrotte, costituissero tempo di lavoro.

Secondo la CGUE, l’art. 2 della Direttiva 2003/88/CE deve essere interpretato nel senso che la pausa concessa a un lavoratore durante il suo orario di lavoro giornaliero, durante la quale egli, se necessario, deve essere pronto a partire per un intervento entro due minuti, costituisce «orario di lavoro» quando da una valutazione globale di tutte le circostanze risulta che i vincoli imposti al lavoratore durante la pausa siano di natura tale da pregiudicare in modo oggettivo e assai significativo la facoltà di gestire liberamente il tempo durante il quale i suoi servizi professionali non sono richiesti e di dedicare tale tempo ai propri interessi.

In altre parole, un periodo di guardia in regime di reperibilità, vale a dire un periodo durante il quale il lavoratore resta a disposizione del datore di lavoro al fine di poter garantire una prestazione di lavoro su domanda di quest’ultimo, pur non essendo obbligato a rimanere sul suo luogo di lavoro, deve essere qualificato, nella sua interezza, come «orario di lavoro».

Reperibilità speciale: giurisprudenza nazionale

La materia della reperibilità speciale del lavoratore dipendente è stata oggetto di alcune pronunce giurisprudenziali anche nel panorama italiano.

Nel procedimento deciso dalla Corte di Cassazione, sez. lav., con la sentenza n. 30587 del 28 ottobre 2021, n. 30587, il ricorrente, dipendente Enel addetto alla vigilanza di una diga conveniva in giudizio la datrice di lavoro, chiedendone la condanna al pagamento delle differenze retributive, oltre al versamento della relativa contribuzione previdenziale e assistenziale, per la reiterata violazione delle disposizioni vigenti in materia di orario di lavoro. Chiedeva altresì la condanna della convenuta al risarcimento del danno biologico ed esistenziale conseguente all’omessa concessione dei riposi e anche di quello connesso alla lesione della dignità della persona.

Quanto alla prima domanda, il ricorrente lamentava l’omessa concessione di riposi chiedendo di essere retribuito per le ore di reperibilità speciale prestate nella sua attività di vigilanza della diga, atteso che durante le stesse gli era precluso di disporre liberamente del proprio tempo di riposo. Secondo la prospettazione del lavoratore, tali ore di reperibilità, dovevano essere intese come ore di attività lavorativa vera e propria.

La Suprema Corte rilevava anzitutto che nel caso in esame la reperibilità speciale era connessa all’obbligo imposto al concessionario dall’art. 15 del D.P.R. 1° novembre 1959, n. 1363 di assicurare la vigilanza continuativa della diga con personale che doveva risiedere nelle vicinanze della stessa in un’apposita casa di guardia collegata telefonicamente o con impianto radio con la sede più prossima della concessionaria.

Nel giudizio di merito veniva accertato come il ricorrente svolgesse il proprio servizio a turni nella casa di guardia, situata a ridosso della diga, senza che fosse richiesto di regola alcun altro incombente se non quello di non allontanarsene per la durata del turno. Eventuali interventi specifici sopravvenuti nel turno sarebbero stati pagati come lavoro straordinario. Il Ccnl applicato prevedeva, per ogni giornata di effettivo espletamento del servizio di reperibilità, un’indennità in cifra fissa, oltre che mezza giornata di permesso retribuito.

Le caratteristiche del turno di reperibilità speciale risultavano inoltre compatibili con eventuali svaghi e con intrattenimenti anche familiari, atteso che l’unica limitazione imposta era quella di permanere nell’abitazione a ridosso della diga e di intervenire in caso di necessità a seguito di allarme.

La reperibilità speciale, dunque, che si differenzia dalla reperibilità ordinaria in quanto svolta nella casa di guardia situata nelle vicinanze della diga, non precludeva il riposo o la coltivazione di interessi e rapporti del lavoratore seppur contenuti logisticamente nell’abitazione.

Quanto alla domanda di risarcimento del danno biologico ed esistenziale conseguente all’omessa concessione dei riposi, il ricorrente deduceva come l’impegno richiesto per assicurare la continua vigilanza fosse diverso e più importante rispetto a quello necessario per la reperibilità ordinaria, rilevando che l’omessa fruizione di riposi compensativi per l’attività svolta in occasione della reperibilità speciale costituiva il presupposto per il risarcimento del danno azionato derivante dalla violazione dell’art. 1 del D.Lgs. n. 66/2003 atteso di essere rimasto, nell’esercizio dell’attività di vigilanza, a tutti gli effetti a disposizione del datore di lavoro.

La deduzione del ricorrente offre alla Suprema Corte lo spunto per ricordare come il diritto del lavoratore al risarcimento del danno sussista se per effetto dell’articolazione dell’orario di lavoro risulti pregiudicato il diritto al riposo settimanale con definitiva perdita dello stesso. L’attribuzione patrimoniale spettante al lavoratore ha in questo caso natura risarcitoria e non retributiva, essendo diretta non già a compensare la prestazione lavorativa eccedente rispetto agli obblighi contrattuali ma a indennizzare il lavoratore dalla perdita del riposo e dalla conseguente usura psicofisica.

Il servizio di reperibilità previsto dal Ccnl qui applicato si configura come una prestazione strumentale e accessoria qualitativamente diversa dalla prestazione di lavoro, consistendo nell’obbligo del lavoratore di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato, fuori del proprio orario di lavoro, in vista di un’eventuale prestazione lavorativa.

Pertanto, il servizio svolto nel giorno destinato al riposo settimanale limita, senza escluderlo del tutto, il godimento del riposo stesso e comporta il diritto ad un particolare trattamento economico aggiuntivo nonché (se previsto dalla contrattazione collettiva) il diritto ad un giorno di riposo compensativo.

Detto riposo compensativo non è riconducibile attesa la diversa incidenza sulle energie psicofisiche del lavoratore della disponibilità allo svolgimento della prestazione rispetto al lavoro effettivo – all’art. 36 Cost. La mancata concessione è invece idonea ad integrare un’ipotesi di danno non patrimoniale (per usura psico fisica) da fatto illecito o da inadempimento contrattuale che è risarcibile in caso di pregiudizio concreto patito dal titolare dell’interesse leso, sul quale grava l’onere della specifica deduzione e della prova. Nel caso in esame, il servizio di reperibilità speciale, pur vincolato nel luogo di espletamento, lasciava libero il lavoratore di riposare e dedicarsi ad attività di suo gradimento anche in compagnia, senza alcun obbligo specifico di vigilanza. Si trattava di un servizio sostanzialmente di attesa che si attivava solo a seguito di allarme, per il quale era prevista una indennità e in relazione al quale qualunque prestazione eventualmente richiesta sarebbe stata retribuita come lavoro straordinario.

Si deve convenire allora che, per le sue caratteristiche, la reperibilità speciale per le finalità cui è prevista e per come risulta regolamentata in sede collettiva, rientra tra le occupazioni che richiedono un lavoro discontinuo o di semplice attesa le quali, a norma dell’art. 16, lett. d), del D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, non possono essere comprese nell’orario di lavoro.

In particolare, le ore di reperibilità speciale di cui il guardiano chiedeva la retribuzione quale attività lavorativa vera e propria, sul rilievo che gli sarebbe stato precluso di disporre liberamente del proprio tempo di riposo e il risarcimento del danno sofferto, dovevano essere collocate in una posizione intermedia tra il lavoro effettivo e il riposo.

Dunque, la reperibilità speciale, rispetto alla reperibilità ordinaria, si caratterizza qui per il fatto di poter essere assicurata dalla casa di guardia situata nelle vicinanze della diga, senza che tuttavia ne risultasse precluso il riposo o la coltivazione di interessi e rapporti seppur logisticamente circoscritti all’abitazione.

La reperibilità del guardiano realizzava dunque una prestazione strumentale ed accessoria, ontologicamente diversa dalla prestazione dell’attività lavorativa in quanto limitava ma non escludeva il riposo.

La Corte di merito escluse che sussistessero i presupposti per il riconoscimento di un riposo compensativo osservando che il disagio conseguente alla mera reperibilità passiva, senza effettiva chiamata, era già compensato dal Ccnl e che, conseguentemente, era onere del lavoratore, che era rimasto inadempiuto, dimostrare l’esistenza di un danno alla salute conseguente alla situazione di attesa richiesta.

La pronuncia in esame conferma l’ormai consolidata interpretazione della Suprema Corte in materia di reperibilità speciale del dipendente (cfr., tra le altre, Cass. civ., sez. lav., 14 giugno 2017, n. 14770; 6 ottobre 2015, n. 19936; 18 dicembre 2014, n. 26723).

Conclusioni

La configurazione della reperibilità come reperibilità attiva (c.d. “pronta reperibilità”) o reperibilità speciale, non ha una funzione meramente definitoria ma presenta risvolti pratici.

Infatti, solo la reperibilità attiva è considerata orario di lavoro e come tale retribuita, mentre la reperibilità speciale impone il riconoscimento al lavoratore di una percentuale sulla retribuzione ordinaria stabilita dal Ccnl applicato al rapporto in quanto volta a ricompensare il sacrificio del lavoratore di rendersi rintracciabile, fuori dall’orario di lavoro, in vista di un’eventuale necessità di svolgere l’attività lavorativa.

Per quanto riguarda il diritto al riposo, la reperibilità speciale nel giorno festivo non dà diritto ad un riposo compensativo e resta a carico del lavoratore l’onere di dimostrare l’eventuale danno alla salute dovuto alla mancata fruizione del riposo compensativo.

Nel caso invece di reperibilità attiva nel giorno di riposo settimanale, il datore di lavoro deve garantire al lavoratore un turno di riposo compensativo, a prescindere da una sua richiesta, trattandosi di diritto indisponibile ex art. 36 Cost. e la cui mancata attribuzione è fonte di danno non patrimoniale che non necessita di essere provato dal lavoratore.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO