Principi del lavoro penitenziario

L’attività lavorativa in detenzione trova regolamentazione nella legge 26 luglio 1975, n. 354 (Legge sull’Ordinamento penitenziario), così come riformata dal D.Lgs. 124/2018.

Come vedremo a breve, le disposizioni dell’Ordinamento penitenziario in materia di lavoro carcerario danno attuazione ai principi fondamentali della Costituzione italiana e, in particolare, all’art. 1 («L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro»); all’art. 4 («La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società») e all’art. 35 («La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni»).

L’art. 15 della legge n. 354/1975 stabilisce che il trattamento penitenziario debba essere svolto avvalendosi «principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno», ed inoltre che «ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato sia assicurato il lavoro». A sua volta, l’art. 20 prevede che negli Istituti penitenziari debbano essere favorite la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale. Nel nuovo quadro normativo, il lavoro svolto dai detenuti è sostanzialmente allineato a quello svolto dai cittadini liberi.

Al fine del reinserimento sociale, il lavoro penitenziario dovrebbe essere organizzato in modo tale da far acquisire al detenuto delle capacità professionali adeguate al mercato del lavoro. Affinché possa assolvere alla sua funzione rieducativa, il lavoro in carcere non deve avere carattere afflittivo, cioè non può essere considerato come componente di maggiore inasprimento della pena. Tale previsione si pone come una decisa rottura con il passato dove il lavoro era considerato un elemento diretto ad inasprire la pena e aveva una funzione essenzialmente punitiva.

Inoltre, dev’essere remunerato. La remunerazione, oltre a soddisfare un elementare principio di giustizia riconoscendo il diritto ad essere retribuiti per il lavoro svolto, produce effetti psicologici positivi facendo percepire al detenuto l’utilità del proprio lavoro che gli consente di provvedere autonomamente ai propri interessi. Merita osservare come il carattere obbligatorio del lavoro penitenziario, in ragione del principio di libera adesione al trattamento, sia stato espunto dalla riforma dell’Ordinamento penitenziario, ponendo in tal modo fine al lungo dibattito dottrinale sulla configurabilità del lavoro penitenziario come diritto o piuttosto come obbligo gravante sul detenuto. La durata delle prestazioni lavorative non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro. I detenuti lavoratori hanno diritto a ferie, ad assenze per malattia retribuite, a contributi assistenziali e pensionistici. Ai soggetti che frequentano i corsi di formazione professionale e svolgono i tirocini è garantita, nei limiti degli stanziamenti regionali, la tutela assicurativa e ogni altra tutela prevista dalle disposizioni vigenti. Inoltre, i detenuti e gli internati, in considerazione delle loro attitudini, previa analisi svolta dagli esperti, possono essere ammessi a esercitare, per proprio conto, attività artigianali, intellettuali o artistiche, nell’ambito del programma di trattamento.

Per l’assegnazione all’attività lavorativa dei detenuti deve osservarsi un sistema di graduatorie su parametri prefissati dalla legge al fine di garantirne l’oggettiva attribuzione. Presso ogni Istituto penitenziario è istituita una Commissione che provvede a:

  1. formare due elenchi, uno generico e l’altro per qualifica, per l’assegnazione al lavoro dei detenuti e degli internati, tenendo conto esclusivamente dell’anzianità di disoccupazione maturata durante lo stato di detenzione e di internamento, dei carichi familiari e delle abilità lavorative possedute, e privilegiando, a parità di condizioni, i condannati;
  2. individuare le attività lavorative o i posti di lavoro ai quali, per motivi di sicurezza, sono assegnati detenuti o internati, in deroga ai suddetti elenchi;
  3. stabilire criteri per l’avvicendamento nei posti di lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, nel rispetto delle direttive emanate dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria.

Tipi di lavoro penitenziario

Il lavoro dei detenuti può svolgersi alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria e alle dipendenze di soggetti esterni.

Lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria

Il lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria è di tipo intramurario in quanto è sempre svolto all’interno delle mura carcerarie e può essere di tipo domestico, industriale e agricolo.

Il lavoro domestico comprende le attività dirette ad assicurare la gestione quotidiana dell’istituto: pulizie, facchinaggio, preparazione e distribuzione dei pasti, piccoli interventi di manutenzione del fabbricato, attività di magazzino e alcune mansioni esclusive dell’ambiente penitenziario come lo scrivano, addetto alla compilazione di istanze, e l’assistente di un compagno ammalato o non autosufficiente.

Si tratta di attività che il detenuto svolge alle dirette dipendenze dell’Amministrazione e per le quali viene regolarmente retribuito.

Nelle lavorazioni industriali sono prodotte gran parte delle forniture di vestiario e corredo, di arredi e quant’altro destinato al fabbisogno di tutti gli Istituti del territorio nazionale.

Le lavorazioni si svolgono in laboratori e officine presenti all’interno degli Istituti penitenziari e occupano sarti, calzolai, tipografi, falegnami e fabbri.

Nelle colonie agricole e nei tenimenti agricoli presenti in circa quaranta Istituti penitenziari sono occupati i detenuti con varie specializzazioni, come apicoltori, avicoltori, mungitori, ortolani. I detenuti che lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria percepiscono una remunerazione pari ai 2/3 di quanto stabilito dai Contratti collettivi nazionali di lavoro.

È di tutta evidenza come non vi sia ancora una completa equiparazione di trattamento. Gli Istituti penitenziari possono vendere i prodotti delle lavorazioni penitenziarie o rendere servizi attraverso l’impiego di prestazioni lavorative dei detenuti a prezzo pari o anche inferiore al loro costo, tenuto conto, per quanto possibile, dei prezzi praticati per prodotti o servizi corrispondenti nella zona in cui è situato l’Istituto. È prevista la possibilità di destinare gli introiti delle lavorazioni penitenziarie al finanziamento per lo sviluppo del lavoro e della formazione professionale.

La riforma dell’Ordinamento penitenziario prevede la possibilità per i detenuti di esercitare attività di produzione di beni da destinare all’autoconsumo, da svolgersi mediante l’uso di beni e/o servizi dell’Amministrazione penitenziaria, come ad esempio, spazi verdi intramurari, locali, attrezzature, ecc. Parte della produzione, come detto, non viene venduta o scambiata ma destinata all’autoconsumo dell’Istituto penitenziario.

Lavoro alle dipendenze di soggetti esterni

Il lavoro alle dipendenze di soggetti terzi può essere di tipo intramurario o di tipo extramurario.

Il Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario (D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230) ha introdotto la possibilità per le imprese pubbliche e private e per le cooperative sociali di avvalersi della manodopera dei detenuti e di organizzare e gestire officine e laboratori all’interno delle carceri.

Per promuovere l’ingresso di attività esterne nelle carceri sono previsti incentivi per gli imprenditori e le cooperative, quali la concessione dei locali in comodato gratuito e, ove possibile, le attrezzature già esistenti.

Il rapporto di lavoro intercorre tra il detenuto e le imprese che gestiscono l’attività lavorativa (soggetti pubblici o privati o cooperative sociali interessati a fornire opportunità di lavoro a detenuti o internati), mentre il rapporto di queste ultime con le Direzioni carcerarie è definito tramite convenzioni.

Quando ad operare all’interno dell’Istituto penitenziario siano le cooperative, i detenuti sono assunti quali soci lavoratori con la possibilità di mantenere l’impiego anche successivamente alla scarcerazione.

L’art. 21 dell’Ordinamento penitenziario disciplina il lavoro dei detenuti all’esterno dell’Istituto penitenziario stabilendo che possono essere ammessi a svolgere attività lavorativa extramuraria i condannati, gli internati e gli imputati sin dall’inizio della detenzione.

In questa fattispecie il lavoro penitenziario assolve anche alla funzione di risocializzazione del reo.

Il lavoro all’esterno viene disposto a seguito dell’approvazione del Magistrato di sorveglianza. Quando si tratta di imprese private, il lavoro si svolge sotto il controllo della Direzione dell’Istituto a cui il reo è assegnato, la quale può avvalersi a tal fine del personale dipendente e del servizio sociale.

Per le imprese che assumono un detenuto nelle attività produttive sia all’interno che all’esterno del carcere sono previsti sgravi fiscali e contributivi che permangono anche oltre il “fine pena” (legge 22 giugno 2000, n. 193, c.d. “Legge Smuraglia”).

La Legge Smuraglia offre benefici fiscali ai datori di lavoro sotto forma di credito d’imposta, uno sconto significativo sui contributi che il datore di lavoro versa allo Stato per la pensione e l’assistenza sanitaria, benefici che si estendono ad un periodo, a seconda dei casi, di diciotto o ventiquattro mesi successivi alla scarcerazione. Diversamente da quanto stabilito per il lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione carceraria, le retribuzioni dei lavoratori alle dipendenze di soggetti esterni corrispondono a quelle dei lavoratori liberi.

Lavoro di pubblica utilità

L’art. 20-ter dell’Ordinamento penitenziario prevede, infine, il lavoro di pubblica utilità, che è praticabile a titolo volontario e gratuito – salva la possibilità di prevedere un minimo di rimborso spese erogato dalla Cassa delle Ammende o dagli Enti presso cui viene svolto – a favore di istituzioni pubbliche, soggetti privati, sulla base di apposite convenzioni.

Può anche essere svolto all’interno degli Istituti o per il sostegno delle famiglie delle vittime dei reati commessi da chi svolge il lavoro di pubblica utilità.

Le modalità con cui deve svolgersi non devono comunque pregiudicare esigenze di lavoro, studio, famiglia e salute dei condannati e degli internati.

Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI)

Particolarmente controverso e dibattuto è il riconoscimento del diritto all’indennità di disoccupazione del lavoratore-detenuto che si trovi in stato di disoccupazione involontaria.

In breve, la NASpI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego) è una indennità mensile di disoccupazione che sostituisce le precedenti prestazioni di disoccupazione ASpI e MiniASpI in relazione agli eventi di disoccupazione involontaria che si sono verificati a decorrere dal 1° maggio 2015.

La NASpI può essere richiesta dai lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che abbiano perso involontariamente il lavoro, compresi gli apprendisti, gli artisti con contratto di lavoro dipendente, i soci lavoratori di cooperative di produzione lavoro e i lavoratori a tempo determinato delle aziende pubbliche o esercenti pubblici servizi.

L’indennità è riconosciuta anche ai lavoratori che abbiano rassegnato le dimissioni per giusta causa e nei casi di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell’ambito della procedura di conciliazione obbligatoria.

Per potere accedere al beneficio della NASpI i lavoratori devono possedere i seguenti requisiti:

  • essere in stato di disoccupazione;
  • risultare in possesso, nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, di almeno tredici settimane di contribuzione;
  • dimostrare di aver lavorato regolarmente per almeno trenta giornate nei dodici mesi precedenti l’inizio della disoccupazione.

L’indennità è corrisposta per un numero di settimane pari alla metà di quelle fatte valere negli ultimi quattro anni, escludendo dal computo le settimane che hanno già dato titolo all’erogazione di prestazioni per disoccupazione. Il periodo massimo è di due anni. Mentre il diritto alla NASpI è pacificamente riconosciuto nei casi di disoccupazione involontaria del detenuto che abbia svolto la propria attività lavorativa alle dipendenze di terzi, più controverso è il riconoscimento del diritto all’indennità di disoccupazione involontaria dei detenuti dipendenti dall’Amministrazione penitenziaria che abbiano perso involontariamente il lavoro per una delle seguenti cause:

  • fine del lavoro assegnato per rotazione dei detenuti;
  • trasferimento ad un altro Istituto penitenziario;
  • scarcerazione per “fine pena”.

Fine del lavoro assegnato per rotazione dei detenuti

Rispetto alla fattispecie di perdita involontaria del lavoro per turnazione, la Corte di Cassazione ebbe occasione di pronunciarsi già nel 2006 (Cass. pen., sez. I, sent., 25 maggio 2006, n. 18505) affermando che «l’attività lavorativa svolta dal detenuto all’interno dell’Istituto penitenziario ed al medesimo assegnata dalla Direzione del carcere non è equiparabile alle prestazioni di lavoro svolte al di fuori dell’ambito carcerario e, comunque, alle dipendenze di datori di lavoro diversi dall’Amministrazione penitenziaria. Detta attività, infatti, ha caratteri del tutto peculiari per la sua precipua funzione rieducativa e di reinserimento sociale e per tale motivo prevede la predisposizione di graduatoria per l’ammissione al lavoro ed è soggetta a turni di rotazione ed avvicendamento che non possono essere assimilati a periodi di licenziamento che, in quanto tali, danno diritto all’indennità di disoccupazione».

La pronuncia della Suprema Corte è richiamata nel messaggio del Direttore Generale dell’Inps n. 909 del 5 marzo 2019 dove si specifica che «ai soggetti detenuti in Istituti penitenziari, che svolgano attività lavorativa retribuita all’interno della struttura ed alle dipendenze della stessa, non può essere riconosciuta la prestazione di disoccupazione in occasione dei periodi di inattività in cui essi vengano a trovarsi. È fatto salvo, invece, il diritto dei medesimi soggetti detenuti presso Istituti penitenziari alla indennità di disoccupazione da licenziamento nel caso in cui il rapporto di lavoro si sia svolto con datori di lavoro diversi dall’Amministrazione penitenziaria». Sulla sentenza n. 18505/2006 e sul messaggio n. 909/2019 dell’Inps si è spesso basata la tesi difensiva dell’Inps, adottata anche nei procedimenti volti ad ottenere il riconoscimento e l’accertamento del negato diritto alla NASpI per involontaria disoccupazione dovuta a motivi affatto diversi dalla turnazione cui invece fa riferimento la citata sentenza.

Sul punto, merita di essere segnalata la sentenza del Tribunale di Padova n. 603 del 15 novembre 2021, che accoglieva il ricorso del ricorrente-detenuto dipendente presso l’Amministrazione penitenziaria in veste di addetto alla distribuzione dei pasti soltanto per alcuni mesi, ricordando come l’involontarietà della disoccupazione, assente nella fattispecie, difetti esclusivamente quando il lavoratore scelga liberamente di perdere il lavoro.

La sentenza in esame riconosce il diritto alla indennità di disoccupazione in favore dei detenuti, anche nel caso di disoccupazione involontaria per turnazione richiamando la Raccomandazione Rec (2012)5 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sul Codice Europeo di Etica per il personale penitenziario che all’art. 26, punto n. 7, prevede che «l’organizzazione e le modalità di lavoro negli Istituti penitenziari devono avvicinarsi, per quanto possibile, a quelle che regolano un lavoro analogo all’esterno, al fine di preparare i detenuti alle condizioni della vita professionale normale».

Mentre il punto n. 13 prevede che «le misure applicate in materia di sanità e di sicurezza devono garantire la tutela efficace dei detenuti e non possono essere meno rigorose di quelle di cui beneficiano i lavoratori nella società libera».

Il successivo punto n. 15 stabilisce che «ll limite massimo di ore di lavoro giornaliere e settimanali dei detenuti deve essere stabilito conformemente alle regole o agli usi locali che disciplinano il lavoro dei lavoratori liberi».

Infine, il punto n. 17 secondo cui «Per quanto possibile i detenuti che lavorano devono essere inseriti nel sistema nazionale della previdenza sociale».

Regole analoghe, continua il Tribunale, si rinvengono nella United Nations Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners (the Mandela Rules), adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 17 dicembre 2015.

Ne consegue, tenendo conto anche dell’art. 3 Cost., che non vi può essere alcuna discriminazione a danno dei detenuti che lavorano in carcere, nemmeno ai fini della NASpI.

Trasferimento ad un altro Istituto penitenziario

Altra ipotesi di disoccupazione involontaria si configura in caso di trasferimento del detenuto ad altro Istituto penitenziario. Anche in questo caso, al detenuto va riconosciuto il beneficio della NASpI. Lo afferma Corte di Appello di Torino con la sentenza n. 523 del 26 ottobre 2021.

Nel caso in esame, il detenuto, dopo aver svolto attività lavorativa intramuraria alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, veniva trasferito ad altro Istituto per mutamento dello status del lavoratore-detenuto (da imputato a condannato definitivo).

Nella specie, precisa la Corte, la cessazione del rapporto di lavoro tra il detenuto e l’Amministrazione penitenziaria non è dovuta a dimissioni, né a una scelta del lavoratore, ma a una circostanza di fatto, quale il mutamento dello status del detenuto, in quello di condannato definitivo. Il trasferimento ad altra Casa circondariale, che ha reso impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro, non preclude l’attribuzione dell’indennità NASpI.

Scarcerazione per “fine pena”

Particolarmente dibattuta è la questione della disoccupazione involontaria dovuta a scarcerazione per “fine pena”.

Sulla questione si è recentemente espresso il Tribunale di Milano (Trib. Milano, sez. lav., sent. n. 2718 del 10 novembre 2021) riconoscendo il diritto alla NASpI del lavoratore scarcerato, dovendosi equiparare la scarcerazione alla risoluzione del rapporto di lavoro per motivi che non siano riconducibili alla volontà del lavoratore detenuto. Dopo aver lavorato continuativamente per l’Amministrazione carceraria per quasi due anni, il rapporto di lavoro tra l’ex detenuto e l’Amministrazione stessa cessava per “fine pena”. L’istante presentava quindi domanda di riconoscimento della NASpI.

Ancora una volta, la difesa dell’Inps si basa sul messaggio n. 909/2019 e sulla sentenza della Cassazione penale n. 18505 del 25 maggio 2006 più volte citati.

Dopo un richiamo alle norme costituzionali e alle norme dell’Ordinamento penitenziario in materia di lavoro, il Tribunale afferma che il lavoro penitenziario alle dipendenze del Ministero della Giustizia e quello “libero” subordinato sono assimilabili: pertanto non possono sussistere ragioni per escludere il diritto alla NASpI qualora ricorrano tutti i presupposti previsti dalla normativa specifica.

Precisa il Tribunale che non vi sono differenze tra lavoro penitenziario svolto all’interno alle dipendenze del Ministero e quello reso all’esterno in favore di un soggetto terzo.

Con riferimento alla perdita involontaria dell’occupazione, va osservato che la stessa è stata determinata da un atto del datore di lavoro, o comunque da un evento non riconducibile alla sfera volitiva del lavoratore: la scarcerazione per “fine pena”.

Non sorgono dubbi sul fatto che un simile provvedimento debba essere equiparato a tutti quei casi di risoluzione del rapporto di lavoro per i quali è pacificamente riconosciuto il trattamento di disoccupazione poiché non riconducibili a una libera scelta del lavoratore.

Opinando diversamente, prosegue il Giudice, si perverrebbe a conclusioni contrarie alla finalità del lavoro penitenziario e alla sua tendenziale equiparabilità al lavoro libero.

La scarcerazione rende impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro in carcere sicuramente non per volontà del detenuto. A fondamento della propria decisione, il Tribunale richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 158 del 22 maggio 2001 che riconosce come il lavoro penitenziario, specie quello intramurario, presenti proprie «peculiarità derivanti dalla inevitabile connessione tra profili del rapporto di lavoro e profili organizzativi, disciplinari e di sicurezza, propri dell’ambiente carcerario». Pertanto, «è ben possibile che la regolamentazione di tale rapporto conosca delle varianti o delle deroghe rispetto a quella del rapporto di lavoro in generale». Tuttavia, «né tale specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena, valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato».

Se al detenuto che ha svolto attività lavorativa alle dipendenze dell’Amministrazione carceraria si negasse il diritto alla NASpI, precisa il Tribunale, si impedirebbe il verificarsi della finalità rieducativa e di reinserimento sociale che costituisce l’essenza del lavoro carcerario.

Sempre con riferimento all’ipotesi di disoccupazione involontaria per scarcerazione, tra le sentenze più recenti merita un cenno quella del Tribunale di Verona, 7 febbraio 2022, n. 54. Anche in questo caso si costituiva l’Inps che resisteva richiamando la sentenza della Cassazione penale n. 18505 del 25 maggio 2006 ed il messaggio 909/2019 del Direttore Generale dell’Istituto oltre ad alcune isolate pronunce di merito. Chiarisce il Tribunale che la pronuncia della Suprema Corte del 2006, sulla quale si impernia la difesa dell’Inps, concerne fattispecie affatto diversa da quella della disoccupazione involontaria per “fine pena”, attendendo in quel caso alla richiesta di valorizzare ai fini della domanda di disoccupazione i periodi di non lavoro dei detenuti tra un turno di avvicendamento al lavoro e quello successivo.

Concludendo, in materia di diritto all’indennità di disoccupazione involontaria, l’interpretazione maggioritaria offre una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni di legge che prevedono e disciplinano il diritto alla NASpI, venendosi diversamente ad affermare una maggiore afflittività della pena e la negazione della sua finalità rieducativa.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO