Come è tristemente noto, gli infortuni sul lavoro sono lontani dal rappresentare una casistica pressoché inesistente nella quotidianità lavorativa italiana. Sempre più spesso, infatti, i datori di lavoro scelgono di affidarsi a figure professionali che si occupano di fare prevenzione non solo a livello teorico tra i dipendenti, ma anche di imporre alcune direttive pratiche da adottare al fine di ridurre la possibilità che si verifichino incidenti sul luogo di lavoro, così da evitarne tutte le possibili spiacevoli conseguenze.
Oltre al generale rischio che si corre sul luogo di lavoro e che viene tutelato con una normativa che verrà analizzata nel prosieguo della presente trattazione, va ricordato che esistono, altresì, delle tipologie più specifiche di casi che ricorrono specialmente quando l’attività lavorativa prestata abbia una natura pericolosa o richieda ulteriori adempimenti che mettono a rischio l’incolumità dei dipendenti che vi prendono parte.

Disciplina generale
Secondo quanto disposto dal D.P.R. n. 1124/1965, l’infortunio sul lavoro è definito qualora un dipendente subisca delle lesioni che siano causate da un lavoro specifico o che trovino origine in una causa violenta da cui possa derivare una impossibilità della prestazione lavorativa permanente o temporanea, a seconda della gravità dell’evento e del conseguente danno riportato; detta inabilità, in base al fatto che coinvolta totalmente la persona del lavoratore, può a sua volta essere di carattere assoluto o parziale. Per causa violenta, in particolare, si intende quel fattore esterno che abbia una azione intensa e concentrata nel tempo, in grado di arrecare un danno o una lesione all’organismo e che si manifesti in maniera rapida (elemento discriminante rispetto alla malattia professionale).
In generale, l’Ordinamento italiano prevede il dovere di tutelare l’incolumità del dipendente in capo al datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c. In termini pratici, ciò si traduce nel fatto che il titolare dell’azienda presso cui il dipendente presta la propria attività dovrà prendere tutte le necessarie precauzioni al fine di evitare che quest’ultimo possa incorrere in problematiche (fisiche e psichiche) dovute all’ambiente lavorativo. Al fine di offrire al lavoratore dipendente una tutela a 360 gradi, è prevista una assicurazione Inail (non solo per gli infortuni sul lavoro, ma anche per la malattia professionale – cioè quella scaturita da una prolungata attività nociva). Perché un infortunio possa essere inglobato nei casi assicurati è necessario che venga dimostrata l’esistenza di un nesso causale tra l’attività lavorativa prestata ed il danno conseguenza dell’evento lesivo: non basta che quest’ultimo si sia verificato materialmente sul luogo di lavoro, ma serve che l’attività stessa, per sua natura, ne sia stata effettivamente la causa principale. L’assicurazione opera in favore dei dipendenti che prestino la propria attività manuale (solo in alcuni casi anche quella professionale, come ad es. che sovrintende l’attività altrui senza prestarvi contributo materiale) in maniera permanente o avventizia, sotto la direzione altrui e in cambio di una retribuzione. Il datore di lavoro che impieghi almeno un dipendente facente parte di una categoria sottoposta all’obbligo di assicurazione, deve stipularne una; in capo a quest’ultimo vige una serie di doveri, tra cui la denuncia di inizio attività all’Inail (da tale momento viene istituito il rapporto assicurativo con contestuale versamento in acconto del premio da parte del datore).
Una casistica che merita di essere segnalata in questa trattazione è quella relativa all’infortunio c.d. “in itinere”. Come anche chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione in una serie di sentenze in merito (si vedano, in questo senso, le sentenze n. 13733/2014 e n. 20221/2010) si tratta di quegli infortuni che si verificano in danno al dipendente che stia affrontando il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello del lavoro, o che colleghi due luoghi di lavoro nel caso siano stati costituiti più rapporto di questo tipo, o di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti ove non sia presente un servizio di mensa aziendale. Una volta che l’evento infortunistico sia occorso, il dipendente ha il diritto al mantenimento del posto di lavoro per tutto il periodo di comporto (cioè il periodo massimo di assenza causa malattia previsto dai singoli Ccnl di riferimento per ciascuna categoria). Si segnala che, ove venga provata l’esistenza di un collegamento (anche lieve) tra l’infortunio e l’attività lavorativa, una parte della giurisprudenza ritiene che in tal caso sia configurabile un divieto di licenziamento per superamento del periodo di comporto anche se, difatti, esso si sarà verificato (Cass., sent. n. 20718/2015). Il lavoratore deve dare tempestiva informazione dell’accaduto al datore, comunicare il numero identificativo del certificato medico, la data del rilascio ed il periodo di prognosi assegnata, nonché sottoporsi ai trattamenti ritenuti necessari dall’Inail; inoltre, dovrà rendersi reperibile in determinate fasce orarie, così come avviene di norma nei casi di ordinaria malattia. Dal canto suo, il datore dovrà effettuare denuncia all’Inail per qualunque infortunio per il quale sia stata stabilita una prognosi di durata superiore ai tre giorni.

Caratteri particolari del rischio elettivo
Per “rischio elettivo” si intende quello causato dalla condotta del dipendente, volontaria ed arbitraria, eccezionale, abnorme ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, illogica ed estranea alle finalità produttive; diretta a soddisfare un impulso meramente personale del lavoratore; comportante un rischio diverso da quello cui il lavoratore sarebbe assoggettato secondo le normali regolamentazioni cui il datore è tenuto ai sensi della disciplina di settore. Dunque, in sostanza, un comportamento, contrario al buon senso, adottato dal lavoratore in conseguenza del quale si è verificato un infortunio sul lavoro.
La particolarità di tale istituto segnatamente risiede nella assenza del nesso causale di cui si è detto prima (dunque, quello esistente tra l’attività lavorativa ed il danno causato), necessario al fine di riconoscere l’indennizzabilità dell’infortunio. È molto semplice confondere l’istituto in argomento, in forza delle sue peculiarità, con altri elementi, quali l’imprudenza e la negligenza: al fine di evitare che ciò possa verificarsi, la Suprema Corte ha fornito degli specifici criteri di valutazione, i quali prendono in considerazione, ad esempio, la diversa qualificazione dell’evento, la quale di per sé ha un notevole impatto sul datore di lavoro sia a livello di responsabilità, sia per gli effetti sul tasso applicato. Diviene di conseguenza importante distinguere le ipotesi di rischio elettivo dai casi di imprudenza e negligenza in presenza delle quali l’evento infortunistico è riconosciuto. Proprio per queste sue caratteristiche, il rischio elettivo (così come anche altri elementi di malafede quali la simulazione, il dolo e l’aggravamento volontario delle conseguenze) rientra fra le cause di esclusione dalla tutela infortunistica Inail.
La Corte di Cassazione ha poi escluso il rischio elettivo fornendo ulteriori elementi di distinzione rispetto all’imprudenza e/o alla negligenza, che comunque si considerano integrati, qualora l’evento infortunistico si sia verificato per necessità o causa di forza maggiore oppure ove, pur nella anormalità del comportamento, non si è interrotto il collegamento fra l’azione ed il fine lavorativo. In senso opposto, invece, la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto quali indicatori di elettività, quindi di esclusione dalla tutela infortunistica, comportamenti abnormi rispetto il fine lavorativo o aziendale, non legati a necessità particolari certificate/certificabili o a cause di forza maggiore, messi in atto per esibizionismo o legati a scelte individuali voluttuarie. Pertanto, si evince che l’azione attuata, per essere un rischio elettivo, deve interrompere il collegamento con il fine lavorativo o aziendale poiché volontaria e abnorme rispetto alla normalità. Dalle sentenze di Cassazione emerge dunque come, una volta definiti i principi guida, sia fondamentale un corretto accertamento dei fatti in modo da escludere tutti gli elementi di confusione fra elettività e imprudenza e/o negligenza.
Tuttavia, in alcuni casi specifici, è possibile che il lavoratore vittima dell’infortunio sia chiamato a condividere la responsabilità di quanto accaduto. La Corte di Cassazione ha stabilito, a tal proposito, dei chiari principi. Anzitutto, si applica in questi casi il disposto dell’art. 1227, comma 1, c.c., in forza del quale se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Tale principio, naturalmente, va coordinato con le speciali previsioni che attribuiscono al datore di lavoro il potere di direzione e controllo, nonché con il dovere di salvaguardare l’incolumità dei lavoratori anche quando la condotta della vittima di un infortunio sul lavoro possa astrattamente qualificarsi come imprudente.
Ulteriori dettagli relativi all’istituto verranno forniti, più specificatamente, nel prosieguo della presente trattazione, e in particolare nell’analisi delle pronunce della Suprema Corte che, di recente, si è trovata a dover affrontare nuovamente l’argomento.

Orientamento della Suprema Corte
Ordinanza n. 35364 del 18 novembre 2021
Sul tema, la Corte di Cassazione è stata recentemente chiamata a decidere con riguardo all’integrazione del c.d. “rischio elettivo”.
In particolare, la Corte d’Appello di Torino si era espressa – confermandola – sulla decisione resa dal Tribunale di Vercelli in merito alla domanda proposta da una società nei confronti di altre due aziende, avente ad oggetto l’accertamento a carico della prima Società della violazione dell’art. 2087 c.c., per non aver il lavoratore ricevuto la formazione nei rischi specifici del lavoro ed a carico della seconda per la mancata segnalazione del pericolo e la condanna di entrambe al risarcimento del danno subito in occasione dell’infortunio sul lavoro occorsogli presso il cantiere della committente. L’evento specificatamente verificatosi scaturiva dal fatto che l’operaio in questione, incaricato dalla Società datrice di smontare alcuni termoconvettori al piano terreno del cantiere stesso, salendo al piano superiore per cercare valvole idrauliche che potessero intercettare acqua residua nei tubi e ivi aprendo una porta, priva di alcuna segnalazione di pericolo, accedeva alla tromba di un ascensore dismesso, nella quale precipitava.
La Corte territoriale aveva ritenuto infondato nel merito il motivo di gravame, e, in sede di appello, era stato formulato gravame contro l’interpretazione prodotta dal primo giudice il quale avrebbe letto in maniera errata lo svolgimento dei fatti emersi nel corso dell’istruttoria, in particolare con riguardo alle direttive impartite dal datore di lavoro: era infatti stato provato che queste comportassero il procedere allo smontaggio dei due convettori a soffitto siti al piano terra dell’edificio della società. In relazione a tali scenari ed avendo desunto elementi di prova anche dai procedimenti penali come è consentito fare anche in considerazione della giurisprudenza di legittimità, era stato dato atto che il sinistro si fosse verificato in un luogo in cui gli operai coinvolti non avevano motivo di recarsi né avevano ricevuto ordine di andare, così da indurre a considerare il sinistro quale conseguenza di un rischio non prevedibile da parte del datore di lavoro, qualificabile dunque come rischio elettivo capace di escludere la responsabilità dell’azienda. Ciò, nonostante la riconducibilità del sinistro – verificatosi all’interno di un edificio dismesso ed in corso di smantellamento ed in un’area nella quale il lavoratore non si doveva recare e nella quale si è avventurato contravvenendo a specifiche direttive impartite, per poi aprire la porta del vano ex ascensore al fine di entrare nel locale, sollevando anche la moquette posta a protezione della porta, il tutto nella quasi totale oscurità – al caso fortuito.
Con il primo motivo, il ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c., imputava alla Corte territoriale l’erroneo apprezzamento degli elementi di fatto utili alla delimitazione dell’area di intervento del ricorrente e dell’obbligo di informazione gravante sul datore e di conseguenza l’incongruità logica e giuridica dell’iter valutativo in base al quale la Corte territoriale stessa aveva ritenuto di sollevare la Società datrice dall’onere probatorio circa l’assolvimento degli obblighi informativi e la riconducibilità dell’evento al “rischio elettivo” tenuto conto della nozione accolta da questa Corte.
La Suprema Corte, accoglieva i gravami del ricorrente e giustificava tale decisione richiamando altre pronunce passate in forza delle quali il c.d. “rischio elettivo” (e la conseguente responsabilità esclusiva del lavoratore) entra in gioco soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento, creando egli stesso condizioni di rischio estraneo a quello connesso alle normali modalità del lavoro da svolgere, restando diversamente irrilevante la condotta colposa del lavoratore, sia sotto il profilo causale che sotto quello dell’entità del risarcimento, atteso che la ratio di ogni normativa antinfortunistica è proprio quella di prevenire le condizioni di rischio insite negli ambienti di lavoro e nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia dei lavoratori.
Pertanto, deve ritenersi fondata la censura in forza della quale la Corte territoriale non ha dato conto dell’esorbitanza della condotta dalle direttive ricevute, per essere stato espressamente vietato al lavoratore di portarsi al piano superiore rispetto al piano terra ove doveva essere eseguito lo smontaggio dei convettori, non consentendo così di escludere il rischio improprio, insito in un’attività prodromica o strumentale allo svolgimento della specifica mansione affidata.

Sentenza n. 3763 del 12 febbraio 2021
Già nel recente passato la Suprema Corte era stata chiamata ad occuparsi dell’istituto del rischio elettivo, analizzato in una sentenza dello scorso anno.
Nel caso di specie l’Inail aveva convenuto dinanzi al Tribunale di Cremona una azienda a seguito del verificarsi di un infortunio sul lavoro in danno ad uno dei loro dipendenti con qualifica di operaio, che prestava attività presso la suddetta società in forza di un contratto di fornitura di lavoro temporaneo. La domanda dell’Istituto riguardava il regresso verso il datore di lavoro a seguito dell’indennizzo dallo stesso già riconosciuto alla vittima. Costituendosi, l’azienda aveva chiamato in causa il proprio assicuratore della responsabilità civile, chiedendo di essere da questa tenuto indenne in caso di accoglimento della domanda attorea. Investito della causa, il Tribunale di Cremona decideva tuttavia per il suo rigetto, ritenendo carente la prova del fatto che l’infortunio fosse stato causato da un difetto di manutenzione dei macchinari cui l’operaio era stato addetto.
A seguito di tale risvolto, l’Inail impugnava la sentenza presso la Corte d’Appello di Brescia, la quale invece accoglieva il gravame e condannava la società datrice di lavoro a rivalere l’Istituto dell’importo liquidato, e successivamente anche la società assicuratrice a rivalersi a sua volta sulla azienda. Tale decisione veniva assunta in considerazione del fatto che fosse invocabile nei confronti del committente la presunzione di cui all’art. 2087 c.c., che il macchinario cui era stato addetto l’operaio infortunatosi era un macchinario pericoloso e che fosse onere del datore di lavoro provare di aver impartito adeguate informazioni ed istruzioni all’operaio sulla pericolosità della macchina e sul corretto modo d’uso, prova che non era stata fornita.
A questo punto, la società assicuratrice impugnava la sentenza della Corte d’Appello presso la Cassazione; inoltre, in via incidentale si costitutiva successivamente anche l’azienda datrice di lavoro. La prima sosteneva che i giudici della Corte d’Appello avrebbero mancato di considerare che il sinistro in realtà andasse ascritto ad una scelta volontaria e deliberata del lavoratore, il quale aveva coscientemente deviato, per finalità personali, dalle normali modalità di lavorazione, provocando in autonomia l’infortunio ed il conseguente danno. Tuttavia, tale motivo veniva ritenuto non solo inammissibile in quanto censurante la valutazione delle prove, ma anche infondato nel merito: nel giustificare tale conclusione, la Corte offre una analisi dettagliata dell’istituto oggetto del presente articolo.
Scrivono i giudici della Corte, infatti, che «in tema di infortuni sul lavoro, infatti, è configurabile un concorso colposo della vittima solo nel caso di c.d. “rischio elettivo”. Il rischio elettivo non può dirsi sussistere sol perché un operaio sia stato imprudente. Il datore di lavoro, infatti, giusta la previsione di cui all’art. 2087 c.c., ha il dovere di prevenire anche le imprudenze dei suoi lavoratori: vuoi istruendoli adeguatamente, vuoi controllandone l’operato, vuoi dotandoli di strumenti e mezzi idonei e sicuri. Tali princìpi sono più che consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale la responsabilità esclusiva del lavoratore per c.d. “rischio elettivo” sussiste soltanto ove questi abbia posto in essere un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, cosi da porsi come causa esclusiva dell’evento e creare condizioni di rischio estranee alle normali modalità del lavoro da svolgere […]», secondo cui il c.d. “rischio elettivo” è solo «quello che, estraneo e non attinente all’attività lavorativa, sia dovuto ad una scelta arbitraria del dipendente, che […] affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella ad essa inerente»; […]. Si è perciò esclusa la configurabilità d’una colpa a carico di lavoratori che non si siano attenuti alle cautele imposte dalle norme antinfortunistiche od alle direttive dei datori di lavoro, perché proprio il vigilare sul rispetto di tali norme da parte del lavoratore è l’obbligo cui il datore è tenuto, in quanto “il datore di lavoro ha il dovere di proteggere l’incolumità del lavoratore nonostante la sua imprudenza o negligenza” […] “l’omissione di cautele da parte dei lavoratori non è idonea ad escludere il nesso causale rispetto alla condotta colposa del committente che non abbia provveduto all’adozione di tutte le misure di prevenzione rese necessarie dalle condizioni concrete di svolgimento del lavoro, non essendo né imprevedibile né anomala una dimenticanza dei lavoratori nell’adozione di tutte le cautele necessarie, con conseguente esclusione, in tale ipotesi del c.d. rischio elettivo, idoneo ad interrompere il nesso causale ma ravvisabile solo quando l’attività non sia in rapporto con lo svolgimento del lavoro o sia esorbitante dai limiti di esso”)».
A nulla erano valse le ulteriori contestazioni (indicate nel secondo motivo del ricorso principale) con cui la società assicuratrice lamentava poi la violazione dell’art. 2087 c.c. in quanto dall’istruttoria precedentemente effettuata era emerso che il macchinario causa dell’infortunio avesse un doppio dispositivo di sicurezza, che era stato l’operaio a porre in essere una condotta estranea alle finalità del lavoro, rendendo di fatto inoperante tale dispositivo ed infine che la società datrice di lavoro aveva svolto un corso di formazione per l’uso del suddetto macchinario della durata di un giorno.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO