In relazione ad una sua condizione di malattia, al dipendente può essere comminato il licenziamento laddove lo stesso superi il c.d. periodo di comporto (quello in cui gli è consentito assentarsi per motivi di salute e durante il quale mantiene il diritto alla retribuzione). Tuttavia, se da un lato questa è la versione fisiologica di come il rapporto di lavoro si collega al diritto alla salute dei dipendenti, ve ne sono di diversi che, invece, seguono sfumature patologiche, e che verranno esaminate di seguito.

In generale, è previsto che al lavoratore assente per malattia spetti anche il diritto alla retribuzione, nella misura e per il tempo determinati dalla legge o dalla contrattazione collettiva. A seconda dei casi, tale retribuzione graverà interamente a carico del datore di lavoro o sarà a carico dell’Inps; in questa seconda ipotesi, in particolare, l’Istituto previdenziale eroga un’indennità che può essere eventualmente integrata dal datore di lavoro.

In capo al lavoratore in malattia sussiste anche il cosiddetto “obbligo di reperibilità”: egli dovrà restare entro il proprio domicilio così da essere disponibile a sottoporsi all’eventuale visita del medico fiscale, la quale può essere predisposta d’ufficio da parte dell’Inps o su richiesta del datore di lavoro. In caso di ingiustificata assenza, il lavoratore è sanzionabile disciplinarmente. L’assenza alla visita medica è giustificata solo in caso di necessità a sottoporsi ad accertamenti medici che non possono essere effettuati in diverso orario, per provati gravi motivi familiari o personali oppure per cause di forza maggiore; in tutte le altre eventualità viene considerata non giustificata e comporta quindi per il lavoratore il mancato indennizzo per un massimo di 10 giorni di calendario dall’inizio dell’evento. Un’ulteriore assenza ingiustificata alla seconda visita di controllo comporta, oltre alla sanzione precedente, anche la riduzione del 50% dell’indennità economica nel restante periodo di malattia. Infine, nel caso in cui il lavoratore risultasse ingiustificatamente assente anche a una terza visita di controllo, verrà meno la totale corresponsione dell’indennità a carico dell’Inps.

Durante il periodo di malattia, il datore di lavoro non può procedere alla comminazione del licenziamento del dipendente che ne stia usufruendo. Tuttavia, vi sono tre eccezioni che eliminano questo impedimento: se viene superato il periodo di comporto, se si verifica una grave crisi o ristrutturazione aziendale oppure se il dipendente tiene delle condotte gravi che pregiudichino l’azienda o ledano il rapporto di fiducia con il datore.

Periodo di comporto e suo eventuale superamento

Si tratta di una normativa che fa riferimento all’art. 2110 cod. civ., il quale testualmente riporta che “in caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge non stabilisce forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo equità. Nei casi indicati nel comma precedente, l’imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell’articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge, dagli usi o secondo equità”. Detta norma fornisce dunque una definizione del concetto di periodo di comporto: quel lasso di tempo, cioè, in cui il lavoratore che per motivi di salute sia impossibilitato a rendere la propria attività lavorativa ha diritto a conservare il proprio posto di lavoro. Di norma, sono i singoli Ccnl di riferimento a fissare il tempo massimo per ciascun periodo di comporto – in via generale, tuttavia, la durata è stabilita in 3 mesi se l’anzianità di servizio non superi i 10 anni o 6 mesi se è superiore ai 10 anni. Inoltre, è bene sottolineare che il periodo di comporto, proprio perché comporta il mantenimento di tutti i diritti normalmente riconosciuti in capo al lavoratore, viene computato ai fini del calcolo dell’anzianità di servizio.

Una volta che esso sia stato superato, al datore di lavoro è di norma concesso di procedere con il licenziamento del dipendente per giusta causa, il che vuol dire che egli non dovrà fornire alcuna prova della motivazione dello stesso.

Si può ricorrere al licenziamento anche quando il periodo di comporto sia superato in maniera “spezzettata”, ossia attraverso l’uso di più giorni di mancata prestazione lavorativa per motivi di salute da parte del lavoratore che, sommati, raggiungono e superano il tempo concesso in forza del comporto.

È opportuno sottolineare che, ai fini del conteggio dei giorni così cumulati, devono essere considerati anche quelli festivi in esso ricompresi, così come evidenziato dalla Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 24027/2016). Secondo gli Ermellini, infatti, esiste una presunzione di continuità dell’episodio morboso che opera sia per le festività e i giorni non lavorativi che cadano nel periodo della certificazione, sia nella diversa ipotesi di certificati in sequenza di cui il primo attesti la malattia sino all’ultimo giorno lavorativo che precede il riposo settimanale, e il secondo la certifichi a partire dal primo giorno lavorativo successivo al giorno dedicato al riposo nella settimana lavorativa.

Pertanto, l’unico modo per bloccare il periodo di comporto e impedire una sua prosecuzione, è la ripresa dell’attività lavorativa. Altrimenti, il dipendente può presentare tempestiva richiesta, in forma scritta, di godere delle ferie già maturate, indicando il momento dal quale si intende convertire l’assenza per malattia in assenza per ferie. Il licenziamento intimato a seguito di superamento del periodo di comporto è una mera facoltà del datore di lavoro e non un vero e proprio obbligo. Infatti, questi può attendere il ritorno sul luogo di lavoro del dipendente, e successivamente valutare se la sua prestazione sia ancora necessaria per l’azienda. Laddove l’esito di tale analisi risulti essere negativo, però, il licenziamento va intimato in tempi non troppo distanti dal rientro del dipendente sul luogo di lavoro, o lo stesso perderà efficacia. La tempestività va accertata tenendo conto dell’esigenza del datore di valutare convenientemente la durata e le modalità degli eventi morbosi, sia al fine di stabilire se, secondo il Ccnl di riferimento per il caso concreto sia stato effettivamente superato il periodo di comporto, sia (come già detto) per accertare un eventuale interesse aziendale alla prosecuzione del rapporto nonostante le numerose assenze del dipendente.

Il licenziamento non può mai essere intimato prima che il periodo di comporto sia stato effettivamente superato, anche se tale evenienza si verifica in seguito. Se ciò accade, il datore di lavoro non potrà valersi di tale intimazione una volta superato il comporto, ma sarà tenuto a notificare un nuovo licenziamento.

Un particolare scenario che può verificarsi laddove il dipendente risulti assente per motivi di salute così a lungo da cagionare un effetto nocivo sull’azienda presso cui presta la sua attività lavorativa, riguarda il caso in cui la malattia sia stata causata dal luogo di lavoro stesso. Si tratta di tutte quelle situazioni in cui ci sia stato, ad esempio, mobbing verso il lavoratore, o se lo stesso sia stato adibito a mansioni non compatibili con le sue condizioni fisiche. In tutti questi casi, il datore di lavoro poiché è responsabile, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., di vigilare sulla salute (sia fisica che psichica) dei propri dipendenti, ed essendovi venuto meno, subisce le conseguenze della sua negligenza le quali non possono essere patite da chi ne sia vittima.

Licenziamento per scarso rendimento

Può accadere che, nonostante il periodo di comporto non sia stato superato dal dipendente, le assenze di quest’ultimo siano state così frequenti e assidue che, seppur giustificate da un effettivo stato di morbosità che non sia dovuto a responsabilità del lavoratore, abbiano comportato un grave disagio per l’azienda o comunque per il datore di lavoro.

In questi casi si può ricorrere al c.d. licenziamento per scarso rendimento, che diventa legittimo quando il dipendente di un’azienda ha un livello di efficienza medio molto basso rispetto ai colleghi e ai parametri, oggettivi e quantificabili, fissati dal datore di lavoro, mostrando scarsa produttività per un periodo continuato che duri un considerevole lasso di tempo.

Tuttavia, nel caso in oggetto alla sentenza testé citata, la Suprema Corte chiarisce che “Nella specie, tuttavia, le assenze del lavoratore, seppur dovute a malattia, venivano in rilievo sotto un diverso profilo, per cui non può trovare applicazione la giurisprudenza da ultimo richiamata”. Infatti, proseguono gli Ermellini, «per le modalità con cui le assenze si verificavano, che, riportate in sentenza (per un numero esiguo di giorni, due o tre, reiterate anche all’interno dello stesso mese, e costantemente “agganciate” ai giorni di riposo del lavoratore (numero 520 ore nel 1999, numero 232 nel 2000, numero 168 nel 2001, numero 368 nel 2002, numero 248 nel 2003), non sono contestate dal lavoratore con l’odierno ricorso, le stesse, infatti, davano luogo ad una prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile per la società, rivelandosi la stessa inadeguata sotto il profilo produttivo e pregiudizievole per l’organizzazione aziendale così da giustificare il provvedimento risolutorio (senza peraltro, come dedotto dal lavoratore che la Corte d’appello facesse riferimento a motivi oggettivi). Occorre ricordare che, ai sensi dell’articolo 3 della legge numero 604 del 1966 “il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. La giurisprudenza di questa Corte ha, poi, precisato che in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e produttive, compete al giudice – che non può, invece, sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’articolo 41 Cost. – il controllo in ordine all’effettiva sussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il datore di lavoro ha l’onere di provare, anche mediante elementi presuntivi ed indiziari, l’effettività delle ragioni che giustificano l’operazione di riassetto (ex multis, Cassazione, n. 7474 del 2012)». La motivazione della Suprema Corte è stata particolarmente attenta ai dettagli della disciplina relativa al dipendente che renda una prestazione lavorativa non sufficiente al mantenimento del posto di lavoro. Infatti, nella sentenza in argomento si è affermato che è legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia risultato provato, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore stesso e in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente – e a lui imputabile – in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferito ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione (Cass. n. 3876/2006).

Nel caso in esame, bene aveva statuito la Corte d’Appello nel rendere rilevante alla fattispecie la malattia non di per sé ma in quanto le assenze da essa scaturenti, anche se incolpevoli, davano luogo a scarso rendimento e rendevano la prestazione non più utile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale. Le stesse, infatti, avevano effetti sull’organizzazione e funzionamento dell’azienda, dando luogo a scompensi organizzativi. Le assenze comunicate all’ultimo momento determinavano, peraltro, una grande difficoltà nel trovare un sostituto del dipendente, specialmente se (come nello scenario del caso di specie) il lavoratore risultava assente proprio allorché doveva effettuare il turno nel fine settimana o notturno. Ciò causava ulteriore difficoltà oltre che malumori nei colleghi che dovevano provvedere alla sostituzione. La Suprema Corte finiva quindi per considerare priva di fondamento la suggerita non irrogabilità del licenziamento in presenza di assenze per malattia che non superino il periodo di comporto.

Sempre in tema di eccessiva morbilità e provvedimenti da parte del datore di lavoro, la Suprema Corte si è espressa ancora più recentemente con la sentenza n. 18283/2019. Questa volta, però, gli Ermellini hanno tenuto particolarmente conto di un elemento che di norma, in questi casi, risulta marginale: la condotta del dipendente. Nel caso di specie, infatti, oggetto del procedimento era il licenziamento disciplinare comminato al dipendente che lo riteneva illegittimo e che, pertanto, adiva – in prima istanza – il Tribunale del Lavoro. I fatti contestati a quest’ultimo, tra gli altri, constavano di un ritardo di tredici minuti nella comunicazione dell’assenza di malattia e nella trasmissione con un giorno di ritardo, in due occasioni, di un numero di protocollo di certificato medico.

La Corte territoriale, successivamente adita, riteneva il comportamento del lavoratore connotato da notevole gravità e tale da recare pregiudizio all’organizzazione aziendale. Secondo la Suprema Corte, i giudici di secondo grado avevano giudicato correttamente il caso di specie poiché avevano ritenuto, con argomenti logici e coerenti, come i singoli inadempimenti posti in essere dal lavoratore denotassero un atteggiamento intenzionalmente negligente e reiterato nel tempo, chiaramente teso all’elusione delle norme di legge, della contrattazione collettiva in materia di giustificazione delle assenze per malattia, nonché del generale principio di buona fede che, come è noto, da sempre connota il rapporto di lavoro e che deve essere rispettato da entrambe le parti coinvolte.

Veniva infatti rilevato che la comunicazione delle assenze da parte del lavoratore, avveniva sempre in prossimità della scadenza (e in taluni casi anche oltre) delle prime due ore dell’orario di lavoro, ovvero del termine ultimo fissato al fine di provvedere a dette comunicazioni dal Ccnl di riferimento. Inoltre, la malattia risultava manifestarsi con tempismo quantomeno sospetto: essa aveva curiosamente inizio nei due giorni antecedenti il fine settimana, proseguiva poi nel successivo lunedì e finiva per durare ancora uno o due giorni. Peraltro, si riscontrava altresì che il certificato medico veniva comunicato in ritardo e senza neppure coprire tutti i giorni fruiti, tanto che in alcuni casi le assenze erano rimaste prive di giustificazione.

Permesso per malattia durante la pandemia

Il cosiddetto decreto “Cura Italia” (decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27) ha disposto l’equiparazione della quarantena alla malattia. Il che implica che non solo ai lavoratori che effettivamente sviluppano la malattia ma anche a quelli disposti a quarantena o isolamento fiduciario vengono riconosciute – laddove rientrino per legge tra le categorie aventi diritto alla tutela previdenziale della malattia a carico dell’Inps – l’indennità economica, con correlata contribuzione, e l’eventuale integrazione retributiva dovuta dal datore di lavoro.

Affinché la tutela sia riconosciuta anche in caso di quarantena, il lavoratore deve quindi produrre il certificato di malattia attestante il periodo di quarantena, nel quale il medico fornirà anche indicazione dettagliata della situazione clinica del suo paziente. Come confermato dal messaggio dell’Inps n. 171/2021, decade dall’1° gennaio 2021 l’obbligo di indicare sulla certificazione gli estremi del provvedimento che ha dato origine alla quarantena o alla permanenza domiciliare. In caso di malattia da Covid-19, il procedimento è sostanzialmente analogo. Cosa succede allora nel caso in cui il dipendente si trovi in una situazione di malattia conclamata? Quest’ultimo sarà considerato temporaneamente inabile al lavoro, con diritto ad accedere alla corrispondente prestazione previdenziale, compensativa della perdita di guadagno, così come di norma accadrebbe se, in condizione di malattia, non potesse recarsi sul luogo di lavoro.

Nel contesto emergenziale causato dalla pandemia da Coronavirus, però, sono state prese in considerazione numerose modalità alternative di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, con particolare riferimento alla pratica dello smart-working. Sebbene l’argomento sia particolarmente vasto, e approfondirlo in questa sede comporterebbe l’allontanamento dal tema centrale della presente trattazione, basti qui accennare al fatto che, a riguardo, l’Inps ha precisato che non è possibile ricorrere alla tutela previdenziale della malattia nei casi in cui il lavoratore in quarantena (o in sorveglianza precauzionale perché soggetto fragile) continui a svolgere, per come stabilito in accordo con il proprio datore, la propria attività lavorativa. In questa circostanza, il dipendente continua ad aver diritto alla propria retribuzione così come se svolgesse la propria prestazione dal proprio consueto luogo di lavoro.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO&PRACTICA DEL LAVORO