Al momento della ricerca di un lavoro, non è inusuale che, per aumentare le chance di essere assunti, i candidati apportino delle “migliorie” al proprio curriculum; a volte, tuttavia, si tende ad esagerare: un comportamento del genere, infatti, può addirittura comportare delle conseguenze penali. Restando, intanto, in ambito civile, però, basti pensare alla scorrettezza del comportamento del dipendente che inserisca, nella propria presentazione al datore, una serie di informazioni non corrette o non complete sulle proprie competenze. Il problema, oltre ad avere carattere meramente morale, tange praticamente la prestazione dell’attività del lavoratore: se, infatti, si sostiene, in fase conoscitiva, di essere in grado di svolgere una certa mansione, o, ad esempio, di avere dimestichezza con riferimento ad alcune pratiche, è ovvio che, se assunto, questi avrà a che fare con attività che richiedano quelle competenze che, falsamente, egli si era vantato di avere. A questo punto, cosa succede? Il dipendente non sarà in grado di svolgere il compito a lui assegnato ed il datore si troverà di fronte una prestazione incompleta.
L’inserimento di informazioni false all’interno del curriculum può declinarsi in diversi comportamenti: ad esempio, si può fare dichiarando di essere in possesso di competenze e capacità senza che ciò sia vero, o ancora modificando un voto di laurea, o il possesso stesso di un titolo al solo fine di spacciarsi per un vero e proprio professionista meritevole di una retribuzione magari più alta. Generalmente, si tende a mentire con maggiore frequenza con riferimento alle competenze informatiche, o la capacità di parlare una o più lingue straniere. Peraltro, è diventata una pratica così abituale che, nei casi in cui la posizione lavorativa proposta goda di una certa importanza, talvolta i datori scelgono addirittura di affidarsi a dei professionisti che indaghino sulla personalità
presa in considerazione per l’incarico; tale pratica, negli Stati Uniti d’America, ha il nome di “Employment history verification”. Si può dire, dunque, che il lavoratore che fornisca informazioni false tramite presentazione del proprio curriculum vitae, violi il concetto di standard di comportamento per come originariamente enunciati da due sentenze della Corte di Cassazione della fine degli anni novanta (cfr. sentt. Cass. nn. 10514 del 22 ottobre 1998 e 434 del 18 gennaio 1999). Qui, la Suprema Corte chiarisce che le definizioni di cui all’art. 2119 c.c. siano scarne, e che esse vadano integrate, appunto con riferimento agli standard di comportamento cui il dipendente è tenuto in costanza di rapporto di lavoro, con regole della civiltà del lavoro, rinvenibili nell’insieme dei principi giuridici espressi dalla Corte stessa e che stabiliscono quali comportamenti, in un dato contesto storico-sociale siano esigibili dalle parti. Pertanto, nel caso di un licenziamento per giusta causa, il giudice di merito deve valutare la conformità a questi standard del comportamento contestato al lavoratore licenziato.

Conseguenze sul piano civile
Le conseguenze dell’aver inserito informazioni false all’interno del proprio curriculum variano in base al rapporto di lavoro, e al tipo di azienda per cui esso è prestato – se pubblica o privata. Nel primo caso la situazione si complica, poiché, ad esempio in sede di concorsi, appunto l’elemento “pubblico” è coinvolto e la responsabilità
da meramente civile passa a quella penale, nelle ipotesi che si esamineranno al prossimo paragrafo. Nella seconda eventualità, invece, il datore di lavoro ha la facoltà di procedere direttamente con l’intimazione del licenziamento al dipendente mendace, senza neppure avere l’obbligo di darne preavviso: si tratterebbe, infatti, di licenziamento
per giusta causa di cui all’art. 2119 c.c. Inoltre, questi ha altresì la possibilità di fare causa all’ex lavoratore, chiedendo la restituzione degli stipendi indebitamente percepiti, nonché dei danni riportati all’azienda (tra cui, ad esempio, quello all’immagine della stessa). Nell’ambito del diritto civile, infatti, la legge impone di tenere, fin dai
rapporti precontrattuali, un comportamento improntato a buona fede e correttezza, di cui agli articoli 1175 e 1375 del Codice civile. È indubbio che una condotta tesa alla menzogna ed alla falsificazione della effettiva competenza del dipendente non possa dirsi rispettosa di questi due concetti, fondamentali per la buona prosecuzione di un rapporto contrattuale, quale è quello lavorativo. Ciò, pertanto, implica il dovere di non nascondere circostanze di cui sièaconoscenza o manifestarne altre non veritiere che potrebbero incidere sul consenso della controparte a stipulare la scrittura privata. Una ulteriore eventualità da prendere in esame, riguarda il caso che a mentire sui contenuti del proprio curriculum vitae sia un professionista. Oltre a comportare conseguenze sul piano meramente morale e personale, potrebbe configurarsi un illecito deontologico, il quale comporterebbe una sanzione disciplinare da parte del Consiglio del proprio Ordine di appartenenza.

Le conseguenze: licenziamento per giusta causa e risarcimento del danno
Il licenziamento per giusta causa (art. 2119 c.c.) prevede che le parti coinvolte nel rapporto di lavoro – anche a tempo indeterminato – possano recedervi, senza alcun preavviso, nel momento in cui si verifichino circostanze, condotte o elementi sopraggiunti che ne impediscano la prosecuzione anche provvisoria. In particolare, è necessario che ricorra un inadempimento talmente grave, che il licenziamento diventi l’unica alternativa possibile per tutelare l’interesse del datore, della propria azienda e anche degli altri dipendenti. Ai fini della presente trattazione, tuttavia, il concetto di inadempimento potrebbe comportare la necessità di una analisi più precisa. Tecnicamente, infatti, l’inserimento di informazioni mendaci all’interno del curriculum vitae non rientra ancora
nell’ambito della inadempienza contrattuale, non essendo il contratto ancora formalmente concluso. Si potrebbe asserire, in risposta a tale problematica, che la falsità continuerebbe ad essere tale nel momento, allora, della conclusione, ma in effetti la presentazione mendace delle proprie competenze si era verificata in un momento già precedente. Tuttavia, discussioni di tal sorta lasciano il tempo che trovano, avendo la giurisprudenza di legittimità chiarito, in tal senso, che la giusta causa non sia rappresentata esclusivamente da comportamenti costituenti notevoli inadempienze contrattuali: essa può, altresì, essere determinata da condotte estranee alla sfera del contratto e diverse dall’inadempimento, purché idonee a riflettersi nell’ambiente di lavoro e a far venire meno la fiducia intercorrente tra le parti del rapporto. Volesse considerarsi, dunque, la falsità delle informazioni inserite nel proprio curriculum vitae una mancanza contrattuale o precontrattuale, essa rientra comunque nella sfera più generale dell’inadempimento, e come tale va punito con la più dura delle sanzioni, e cioè il licenziamento. Generalmente, nei Contratti collettivi nazionali del lavoro, viene fornita una elencazione esemplificativa e non esaustiva delle condotte che possono essere considerate sufficienti perché si proceda in tal senso.
Va specificato, inoltre, che quello per giusta causa è un licenziamento disciplinare e che, pertanto, dovrebbe essere preceduto dall’attivazione del procedimento disciplinare, posto in essere con la contestazione dell’addebito, cioè la comunicazione al dipendente della condotta ritenuta sanzionabile dal datore, con l’invito ad interromperla. Si ricorda brevemente che in questa fase, il lavoratore ha facoltà di rispondere alla contestazione, instaurando un  piccolo procedimento con il datore, che si concluderà con la comminazione della sanzione, o con il ritiro della stessa da parte di chi l’aveva emessa.
Con riferimento all’ipotesi in cui il licenziamento per giusta causa sia stato comminato senza il previo rispetto della disciplina vigente al fine di tutelare il dipendente, il procedimento che porti all’eventuale condanna del datore segue regole diverse a seconda che il dipendente sia un “neo-assunto” (con contratto di lavoro concluso dopo il 7 marzo 2015), o un “vecchio assunto” (in forza sin da prima della data appena citata). Nel primo caso, si applicherà la versione aggiornata dai pacchetti del c.d. Jobs Act del 2015, mentre nel secondo la disciplina previgente, di cui alla legge c.d. “Fornero” (legge n. 92/2012). La differenza principale si rinviene nel fatto che, in applicazione delle disposizioni del 2012, se il licenziamento per giusta causa viene intimato da un datore di lavoro che superi le soglie dimensionali previste dall’art. 18 della legge 300/1970 (unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale), nelle ipotesi di insussistenza del fatto contestato o licenziamento intimato per un fatto che rientra fra le condotte punibili con una sanzione conservativa, il datore di lavoro può essere condannato a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro (si ricordi che, laddove al di sotto di tali soglie, trova invece applicazione il più blando regime di tutela previsto dalla legge 604/1966 relativa al licenziamento individuale, che riconosce al lavoratore illegittimamente licenziato il solo
diritto a percepire un indennizzo economico). Se, invece, la tutela applicabile è quella scaturente dai Decreti del Jobs Act – quindi con riferimento ai lavoratori in forze dal 7 marzo in poi – ciò comporta una significativa riduzione delle garanzie riconosciute ai lavoratori, soprattutto in ragione della sostanziale diminuzione delle ipotesi in cui il giudice può ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato. In particolare, il decreto prevede che, in caso di licenziamento per giusta causa, il datore di lavoro può essere obbligato a reintegrare il lavoratore (assunto presso un’impresa di maggiori dimensioni) solo allorché sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (esclusa ogni valutazione circa l’eventuale sproporzione del licenziamento). In questi casi, il giudice può ordinare, oltre alla reintegrazione del dipendente, che il datore di lavoro versi in favore di quest’ultimo i contributi previdenziali ed assistenziali, oltre ad una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto e corrispondente al periodo che va dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto sia quanto il lavoratore ha eventualmente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative in quello stesso periodo (c.d. aliunde perceptum), o quanto avrebbe potuto percepire se avesse deciso effettivamente di lavorare altrove. In ogni caso, l’indennità non può superare le 12 mensilità.
Laddove la dimostrazione della illegittimità del licenziamento non sia dimostrata secondo le modalità della normativa in esame, il rapporto si estingue comunque e al lavoratore è dovuta unicamente una indennità che oscilla tra le 6 e le 36 mensilità (da 2 a 12, se si tratta di violazione procedimentale). D’altro lato, se il datore di lavoro accusato di aver illegittimamente fatto ricorso al licenziamento per giusta causa non raggiunga le soglie
numeriche richieste per l’applicazione dell’art. 18, Statuto dei lavoratori, la nuova normativa prevede che, nei confronti dei dipendenti in argomento, sia esclusa la reintegrazione nell’ipotesi del licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto materiale e la tutela economica risulta sostanzialmente dimezzata.
In sostanza, ciò si traduce nella circostanza per cui, pur avendo accertato il Giudice l’illegittimità del provvedimento espulsivo, il lavoratore avrà comunque diritto ad un mero indennizzo economico pari ad una mensilità per ogni anno di servizio. In ogni caso, è previsto un limite minimo di tre mensilità, ed uno massimo di sei. Al fine di vedersi tutelata la propria posizione, il dipendente avrà l’onere di impugnare il licenziamento comminatogli entro 60 giorni dalla ricezione della relativa comunicazione, ed eventualmente depositare il relativo ricorso presso la competente Autorità giudiziaria entro i 180 giorni successivi. Si ricordi, in ogni caso, che la nuova disciplina prevede una nuova procedura conciliativa, finalizzata a rendere più rapida la definizione del contenzioso sul licenziamento la quale, dovesse raggiungere esito positivo, comporterebbe l’immediata conclusione della lite attraverso il subitaneo pagamento dell’indennizzo definito in sede di contrattazione in favore dell’ex dipendente.
Più nello specifico, in caso di licenziamento, il datore di lavoro, al fine di evitare il giudizio, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, può convocare il lavoratore presso una delle sedi conciliative  indicate dal quarto comma dell’art. 2113 c.c. (tra cui, in particolare, le commissioni di conciliazione presso le direzioni provinciali del lavoro) e dall’art. 76, Decreto legislativo 276/2003, e offrirgli un assegno circolare di importo pari ad una mensilità per ogni anno di servizio (anche in questo sono previste delle soglie, identificate in un minimo di tre mensilità ed un massimo di ventisette). L’accettazione dell’assegno da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia all’impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta.

La prospettiva penale
Falsificare le informazioni inserite all’interno del proprio curriculum vitae, oltre che una condotta inappropriata con riferimento alla buona fede che il dipendente dovrebbe tenere nei confronti del proprio datore di lavoro, può talvolta configurare un vero e proprio reato. In prima istanza, infatti, la condotta posta in essere dal candidato dipendente può generare una truffa, di cui all’art. 640 c.p., il quale recita che “Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032”. In una seconda ipotesi, leggermente attenuata rispetto alla prima, la condotta può invece configurare il falso ideologico (art. 496 Codice penale), ad esempio nei casi in cui viene esplicitamente dichiarato il falso, come capita quando si dichiari di essere in possesso di un titolo di studi che non si è mai davvero conseguito. Nello specifico, il legislatore chiarisce che “Chiunque […] interrogato sulla identità, sullo stato o su altre qualità della propria o dell’altrui persona, fa mendaci dichiarazioni a un pubblico ufficiale o a persona incaricata di un pubblico servizio, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, è punito con la reclusione da uno a cinque anni”. È bene chiarire, comunque, che i reati appena indicati non si configurano automaticamente ogni qualvolta in un curriculum siano indicate competenze non corrispondenti alla realtà, ma solo laddove ricorrano particolari condizioni. A tal fine, infatti, occorre corredare il tutto con documenti falsi, agire cioè attivamente per far credere al datore di lavoro che le informazioni contenute nel CV siano effettivamente reali, ed incentivando ciò con la presenza di allegati non veritieri, o che riportino un contenuto modificato, migliorato in favore di chi lo propone al fine di arricchirsi. In questo senso, fa ancora giurisprudenza una sentenza della Suprema Corte di Cassazione, Sezione penale, n. 15535/2008. Nel caso di specie, il Giudice monocratico del  Tribunale di Messina aveva condannato la ricorrente (unitamente ad altri soggetti) per concorso nel falso ideologico commesso mediante l’inserimento del superamento di alcuni esami universitari mai effettivamente sostenuti, su supporto informatico portante i dati della carriera universitaria della stessa; la Corte di Appello confermava la decisione del Tribunale. Nonostante ciò, veniva comunque proposto ricorso presso la Corte di Cassazione adducendo, tra i vari motivi che scagionerebbero la ricorrente, la diversa identificazione del supporto utilizzato dalla ricorrente quale effettivo “atto pubblico”. Il Giudice di legittimità, tuttavia, restava dello stesso parere dei suoi predecessori, e dichiarava il ricorso infondato. Ciò in forza del fatto che “integra falsità in atto pubblico la confezione, ad opera di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, di infedeli atti informatici, ottenuti mediante la falsificazione o l’alterazione di un supporto informatico, poiché l’art. 491-bis c.p. equipara espressamente il supporto informatico a quello cartaceo. Soltanto in via meramente astratta possono avanzarsi perplessità sulla natura pubblicistica dell’atto incriminato in ragione del suo possibile utilizzo. Ma, in concreto, ogni possibile dubbio è fugato in fatto che, come appurato dai giudici del merito e come articolatamente esposto dalla impugnata pronuncia, il supporto informatico dispone di funzione vicaria dell’archivio in discorso e, dunque, assume potenzialità probatoria, quantomeno provvisoria, in attesa di più puntuale controllo. Ogni più approfondita indagine sulla destinazione del dato informatico in seno all’Università di Messina attiene alla valutazione del fatto e non è consentita al giudice di legittimità. È, invece, manifestamente infondato il motivo che ritiene innocua l’alterazione disposta sul supporto incriminato, anche perché – a tacer d’altro – il requisito sotteso all’art. 49 c.p., comma 2 (e, cioè, la capacità del falso di raggiungere l’illecito risultato mirato dagli autori) deve essere verificato ex ante, irrilevante essendo che il successivo controllo abbia di poi, nei fatti, scoperto l’infedeltà commessa”. Ancora, sempre sotto il punto di vista delle conseguenze penali, un’altra decisione della Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 26600/2013) risulta di rilevante interesse ai fini della presente trattazione. Nello specifico, un soggetto era stato condannato sia in primo grado che in appello per aver reso false dichiarazioni sulle proprie qualità personali: aveva infatti inserito, nel proprio curriculum vitae, informazioni false circa l’aver ricoperto determinate posizioni lavorative di particolare rilievo in ambito televisivo. Lo stesso CV veniva poi, dallo stesso, proposto al Comune a seguito di domanda di assunzione. Elemento di particolare interesse, in questo caso, riguarda il fatto che, ricorrendo in Cassazione, l’imputato aveva chiarito, a propria difesa, di non aver sottoscritto il curriculum, facendo così venir meno la tesi del falso ideologico di cui all’art. 496, Codice penale. La Suprema Corte, tuttavia, respingeva il ricorso, chiarendo che “Per qualità personali ai fini del delitto di cui all’art. 496 c.p., devesi intendere ogni attributo che serva a distinguere un individuo nella personalità economica o professionale e che possa avere interesse per l’autorità interrogante; pertanto, una qualifica professionale ovvero l’effettivo esercizio di un’attività lavorativa rientrano nel novero delle suddette qualità da dichiarare nella loro reale consistenza ai fini e per gli effetti del precetto penale di cui all’art.496 c.p. […] L’allegazione, ad una domanda rivolta ad un Ente pubblico, di un curriculum vitae contenente false dichiarazioni circa le proprie esperienze lavorative vale, quindi, ad integrare gli estremi oggettivi del mendacio richiesto dall’art.496 c.p., così come non pertinente deve ritenersi la rimostranza circa la mancata sottoscrizione del curriculum falso, atteso che la sottoscrizione in calce alla domanda presentata al Comune vale a rendere proprie dell’istante anche le allegazioni riguardanti le pregresse esperienze lavorative, sia pure indicate in diverso foglio”. La Corte, dunque, sottolinea che la mancata firma del CV non è sufficiente a far venir meno la responsabilità del soggetto che lo sottopone all’esame di un potenziale datore di lavoro, avendo effettiva rilevanza il fatto di aver comunque allegato, alla domanda di assunzione, tutto ciò che nel curriculum era comunque contenuto.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO&PRATICA DEL LAVORO