In quanto genitore, il lavoratore dipendente gode di una serie di vantaggi che consentono di assentarsi dal luogo di lavoro, o di avere una flessibilità di orari maggiore, in considerazione della necessità di prendersi cura della propria prole. Tutti questi vantaggi si modificano in base all’età dei figli (più sono piccoli, maggiori sono i loro bisogni) o alla loro condizione eventualmente patologica. Nel corso degli anni il trattamento del dipendente genitore si è decisamente evoluto, in larga parte con la legge n. 92/2012 (c.d. “Riforma Fornero”), e da ultimo con una serie di novità introdotte dai decreti legislativi del pacchetto “Jobs Act”, in maniera particolare dal D.Lgs. n. 81/2015. In generale, comunque, la normativa di riferimento va ricercata nel Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità contenuto nel D.Lgs. n. 151/2001, da ultimo modificato due anni più tardi, con il D.Lgs. n. 115/2003.

Congedi di maternità e periodi di gravidanza
La tutela fondamentale che questa categoria di lavoratrici trova nella normativa vigente va ricondotta all’art. 37, co. I della nostra Carta fondamentale, che così recita: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.
Con riferimento al periodo di congedo di maternità è stato recentemente modificato, come già detto, dalla legge c.d. “Fornero”, che ha apportato una serie di modifiche inizialmente previste con decorrenza per il solo 2015, e poi rese definitive da quell’anno in avanti. In particolare, la Riforma ha avuto ad oggetto, tra i vari istituti, quello del licenziamento comminato in violazione delle norme a protezione del congedo di maternità, di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (legge n. 300/1970). Laddove si verificasse questo scenario, infatti, la normativa prevede che il licenziamento debba essere dichiarato nullo dal giudice adito, con conseguente condanna del datore alla prestazione della tutela reintegratoria piena in favore della dipendente ingiustamente allontanata dal luogo di lavoro. Ciò comporta che ad ella sarà consentito, a seguito della declaratoria giudiziale, di ritornare nella posizione lavorativa precedentemente occupata, nonché di ottenere il risarcimento del danno relativo alla perdita di introito causata dal licenziamento ingiusto per tutto il periodo per cui esso si è protratto, dedotto quanto percepito a fronte di altre eventuali occupazioni ricoperte in quello spazio di tempo.
La dipendente, inoltre, potrà richiedere, per questo stesso periodo, il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali; infine, ella dispone del c.d. “diritto di opzione”, che riconosce la facoltà di scegliere tra la reintegra nel vecchio posto di lavoro, o di ricevere, in alternativa, una liquidazione di indennità sostitutiva pari a quindici
mensilità della retribuzione globale di fatto. Successivamente, questo regime è stato modificato per i c.d. “nuovi assunti” (cioè i dipendenti che abbiano sottoscritto un contratto lavorativo a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015) a seguito dell’introduzione dei pacchetti Jobs Act e, nello specifico, della legge delega n. 183/2014. Questa nuova disciplina estende le tutele riconosciute alle lavoratrici madri (senza distinzioni verso quelle che abbiano ricevuto dei figli in adozione o in affidamento) durante il periodo della gravidanza, e fino al compimento del settimo mese di vita della prole. Perché queste tutele (di cui si dirà a breve) vengano riconosciute, tuttavia, è necessario che, preliminarmente, la lavoratrice abbia informato il datore della propria condizione.
Alle lavoratrici in stato di gravidanza, inoltre, è fornita una ulteriore tutela definita dagli articoli 7 e 8 del D.Lgs. n. 151/2001, i quali elencano una serie di lavori “pericolosi” proprio per lo stato di vulnerabilità in cui le donne in questione si trovano. La valutazione di pericolosità è un onere che spetta al datore di lavoro, a seguito della quale lo stesso deve provvedere a mettere in sicurezza la lavoratrice e tutelarla dai rischi così individuati. Gli articoli in questione sono rubricati, rispettivamente, “lavori vietati” e “esposizioni a radiazioni ionizzanti”. Essi chiariscono, tra le altre cose, che: “È vietato adibire le lavoratrici al trasporto e al sollevamento di pesi, nonché ai lavori pericolosi, faticosi ed insalubri. I lavori pericolosi, faticosi ed insalubri sono indicati dall’articolo 5 del decreto del Presidente della Repubblica 25 novembre 1976, n. 1026, riportato nell’allegato A del presente testo unico. Il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con i Ministri della sanità e per la solidarietà sociale, sentite le parti sociali, provvede ad aggiornare l’elenco di cui all’allegato A. […] Tra i lavori pericolosi, faticosi ed insalubri sono inclusi quelli che comportano il rischio di esposizione agli agenti ed alle condizioni di lavoro […]” i quali vengono elencati in un allegato a parte, tra cui figurano i lavori sotterranei di carattere minerario, nonché quelli che comportino il trasporto, sia a braccia e a spalle, sia con carretti a ruote su strada o su guida, e al sollevamento dei pesi, compreso il carico e scarico e ogni altra operazione connessa. Ancora: “la lavoratrice è, altresì, spostata ad altre mansioni nei casi in cui i servizi ispettivi del Ministero del lavoro, d’ufficio o su istanza della lavoratrice, accertino che le condizioni di lavoro o ambientali sono pregiudizievoli alla salute della donna. La lavoratrice adibita a mansioni inferiori a quelle abituali conserva la retribuzione corrispondente alle mansioni precedentemente svolte, nonché la qualifica originale […]. Quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni, il servizio ispettivo del Ministero del lavoro, competente per territorio, può disporre l’interdizione dal lavoro per tutto il periodo di cui al presente Capo, in attuazione di quanto previsto all’articolo 17. L’inosservanza delle disposizioni contenute nei commi [precedenti] è punita con l’arresto fino a sei mesi”. E ancora: “Le donne, durante la gravidanza, non possono svolgere attività in zone classificate o, comunque, essere adibite ad attività che potrebbero esporre il nascituro ad una dose che ecceda un millisievert durante il periodo della gravidanza. È fatto obbligo alle lavoratrici di comunicare al datore di lavoro il proprio stato di gravidanza, non appena accertato. È altresì vietato adibire le donne che allattano ad attività comportanti un rischio di contaminazione”. In questo periodo, la lavoratrice in stato di gravidanza è addetta ad altre mansioni, pur mantenendo formalmente la propria posizione iniziale – e, dunque, le conseguenze contributive e retributive relative alla qualifica occupata. Laddove ciò non fosse possibile per motivazioni inerenti la situazione economico-organizzativa del datore di lavoro, alla lavoratrice può essere impedito di prestare attività lavorativa per tutto il periodo della gravidanza e fino al compimento del settimo mese di età del figlio continuando, ovviamente, a mantenere la propria posizione lavorativa fino ad allora formalmente ricoperta.
L’art. 2110 del codice civile prevede, con riferimento alla lavoratrice madre, in stato di gravidanza o di puerperio (cioè durante i 18 mesi successivi al parto), che “se la legge non stabilisce forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo equità”. In attuazione del contenuto di questa norma, il periodo di astensione obbligatoria che essa prevede opera durante i due mesi precedenti alla presunta data del parto, e fino al terzo mese successivo ad essa, per un totale complessivo di cinque mesi, che la lavoratrice ha facoltà di gestire a seconda delle sue esigenze (pertanto, può suddividere nel modo che ritiene necessario la fruizione del congedo stesso). Se la data prevista per il parto dovesse non corrispondere a quella effettiva, l’astensione continua ad operare fino al momento del parto. I giorni, invece, eventualmente perduti a causa di parto prematuro, vengono considerati insieme al periodo di congedo post-parto. Con particolare riferimento a quest’ultimo, inoltre, nel caso in cui il neonato venga ricoverato in una struttura clinica, alla madre è concesso di sospendere il congedo in questione ritornando al lavoro ed eventualmente continuando ad usufruirne al momento della dimissione del figlio dalla struttura. In generale, è bene specificare che, in qualunque caso, la lavoratrice è tenuta a presentare, entro trenta giorni, il certificato attestante la data del parto.
Oltre ai casi appena elencati, il D.Lgs. n. 151/2001, individua una serie di ipotesi in cui è possibile, in via eccezionale, estendere il periodo di congedo di maternità. In particolare, il congedo viene esteso di:
tre mesi antecedenti alla data prevista per il parto nei casi in cui l’attività lavorativa prestata sia caratterizzata da un alto grado di pericolo o rischio – fanno parte di questa categoria, i lavori così definiti da appositi Decreti Ministeriali;
due mesi nel periodo che precede la data prevista per il parto laddove siano rilevate gravi complicanze connesse alla gestazione o comunque di condizioni patologiche che mettono la gravidanza a rischio, quando la lavoratrice non può essere adibita a mansioni inferiori, o ancora quando le condizioni di lavoro non siano sufficientemente
sicure perché l’attività lavorativa sia ivi portata avanti da donna in stato di gravidanza – in tutti questi casi, l’estensione è disposta d’ufficio dalla Direzione Territoriale del Lavoro e dalla Asl competente.
Tra i diritti di cui godono le donne lavoratrici in stato di gravidanza sono ricompresi anche dei permessi retribuiti al fine di effettuare visite cliniche relative alla gravidanza stessa. Perché essi vengano comunque corrisposti alla dipendente, è necessario che, semplicemente, ella presenti apposita richiesta al datore e consegni la documentazione relativa alle visite cui si è eventualmente sottoposta, sì da provare la veridicità di quanto sostenuto. Con riferimento alla possibilità del lavoro notturno, quello cioè eventualmente prestato tra le ore 24 e le 6, esso non può essere richiesto alla lavoratrice in gravidanza e comunque fino al compimento di un anno di età del bambino. È comunque fatto divieto di prestazione di attività lavorativa notturna da parte della dipendente madre di figlio di età inferiore ai tre anni, oppure laddove la lavoratrice sia unico genitore affidatario di figlio convivente di età inferiore ai 12 anni o, infine, nel caso in cui quest’ultimo sia a carico della lavoratrice (o lavoratore) ai sensi della legge n. 104/1992.
Oltre ai congedi di cui si è appena detto, alla lavoratrice madre è riconosciuto anche il diritto ai riposi giornalieri, due fino al compimento di un anno di età del figlio, ciascuno della durata di un’ora nel caso in cui la giornata lavorativa superi le sei ore di tempo – diversamente, la durata del permesso sarà pari ad un’ora; esso, poi, è ulteriormente ridotto a soli 30 minuti nel caso in cui il datore di lavoro metta a disposizione della dipendente la possibilità di usufruire di strutture (interne o esterne all’azienda stressa) preposte all’attività di baby sitting.
Infine, si ricordi che, a seguito delle novità introdotte nel 2012, è stata altresì presentata la possibilità che la lavoratrice madre, in alternativa al congedo parentale di cui può usufruire secondo le modalità appena esposte, scelga di ottenere un voucher per attività di baby-sitting o comunque finalizzato alle attività con questa stessa finalità, siano esse di natura pubblica o privata. Tuttavia, questa facoltà è stata riconosciuta sino al dicembre 2018, non essendo essa stata rinnovata nella relativa legge finanziaria.

Congedi parentali e di paternità
Con riferimento ai congedi parentali in generale, la normativa – come detto in precedenza, recentemente riformata dai Decreti del pacchetto Jobs Act del 2015 – prevede la possibilità per i genitori di figli fino ai dodici anni (non più otto) di astenersi dal lavoro per brevi periodi di tempo retribuiti. In particolare, con riferimento al trattamento economico, i lavoratori hanno diritto ad una indennità pari al 30% della retribuzione normalmente percepita per tutta la durata del congedo. In ogni caso, sia il lavoratore che la lavoratrice neogenitori possono godere di congedi non retribuiti ogni qualvolta il proprio figlio, fino all’età di tre anni, si ritrovi in una condizione patologica a fronte di relativa certificazione medica. Fino al dodicesimo anno di età, invece, il congedo può durare per un massimo di cinque giorni all’anno. Il dipendente che voglia usufruire dei congedi messi a sua disposizione dalla normativa vigente, ha il dovere di comunicare tale intenzione al proprio datore di lavoro con un preavviso di almeno cinque giorni prima del momento in cui usufruirà del congedo stesso. Laddove il congedo sia mi surato in ore e non in giorni, il preavviso si riduce a due giorni.
Sempre a seguito delle ultime modifiche della normativa in argomento, ad oggi al dipendente neogenitore è data facoltà di scegliere, in alternativa al congedo parentale, la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a parziale, con una riduzione massima del 50% dell’orario lavorativo.
Con particolare riferimento ai congedi di paternità, l’istituto della astensione obbligatoria di cui si è parlato supra relativamente alle lavoratrici madri è esteso anche alla figura paterna, in forma complementare rispetto a quello riservato alla madre, e perdura per la parte restante dei cinque mesi di cui la madre non ha usufruito, o nei casi
in morte o infermità grave della stessa, o ancora di abbandono o affidamento esclusivo della prole al padre, che riceve un trattamento, anche economico, identico a quello previsto per la dipendente madre a parità di condizioni.
Da un punto di vista prettamente pratico, l’Inps precisa che “la malattia della lavoratrice madre o del lavoratore padre durante il periodo di congedo parentale interrompe il periodo stesso con conseguente slittamento della scadenza e fa maturare il trattamento economico relativo alle assenze per malattia. In tal caso occorrerà inviare all’azienda il relativo certificato medico e comunicare esplicitamente la volontà di sospendere il congedo per la durata del periodo di malattia ed eventualmente spostarne l’utilizzo”.
Oltre all’astensione obbligatoria, questo stesso istituto è previsto anche in forma facoltativa, ai sensi del D.Lgs. n. 151/2001. Esso è riconosciuto ai dipendenti o anche ai lavoratori autonomi, per un periodo massimo di tre mesi. In generale, comunque, i genitori hanno facoltà di astenersi dal lavoro per un periodo massimo di 10 mesi (consecutivi o frazionati) fintanto che il figlio non raggiunga i 12 anni di età. Inoltre, in senso disgiunto, ciascun genitore ha diritto, se lo ritiene, ad un congedo massimo di 6 mesi, moltiplicato per ciascun figlio nei casi di parti plurimi. Il periodo di astensione facoltativa è computato nell’anzianità di servizio.

Adozione e affidamento del minore
Una volta che il minore in adozione giunga alla famiglia di destinazione, la famiglia viene considerata alla stregua di una in cui il minore sia nato e, di conseguenza, viene trattata allo stesso modo. Tuttavia, vi sono alcune differenze relative, soprattutto, ai tempi. Infatti, i cinque mesi di congedo obbligatorio, nei casi di adozione nazionale, vanno utilizzati a partire dal momento in cui il minore giunge nella casa familiare. Nei casi internazionali, invece, la decorrenza della stessa tempistica può avere inizio già quando il minore si trovi ancora su territorio estero, ma le procedure burocratico-amministrative abbiano già cominciato a fare il loro corso.
Laddove, invece, ricorra il caso di affidamento del minore, il congedo di maternità ha una durata massina di tre mesi, da utilizzare entro i cinque mesi dall’arrivo del minore nella famiglia della lavoratrice.

Dimissioni dei genitori lavoratori
La fonte normativa relativa a questa categoria di lavoratori, il D.Lgs. n. 151/2001, prevede una importante tutela nei confronti di questi ultimi: la necessità che le dimissioni presentate in periodo di gravidanza o comunque entro i primi tre anni di vita del bambino (o nei primi tre anni dall’arrivo in caso di adozione o affidamento), debbano
preliminarmente essere convalidate dall’Ispettorato Nazionale (o Territoriale) del Lavoro perché possano essere considerate efficaci. In sua assenza, esse non producono effetti e il rapporto lavorativo deve considerarsi ancora in essere. Un elemento di particolare interesse, infine, riguarda il caso in cui le dimissioni presentate in questo periodo ricevano accertamento positivo dalle competenti autorità non comportano la necessità di preavviso (D.Lgs. n. 80/2015).

Ultime novità e prospettive future
Nonostante gli strumenti di cui si ha avuto modo di parlare nei precedenti paragrafi del presente articolo, nella pratica quotidiana, godere delle tutele messe a diposizione dal legislatore non risulta comunque facile. Di recente, la crisi conseguente alla pandemia Covid-19 ha però, se non altro, sottolineato come sarebbe una possibilità,
anche alla fine del contesto emergenziale, mantenere lo smart working come una effettiva alternativa di lavoro ogni qualvolta lo svolgimento dell’attività nel luogo fisico non sia possibile. Ciò, specialmente se si fa riferimento alla situazione dei lavoratori con minori a carico. In particolare, il decreto-legge n. 18/2020 (c.d. Cura Italia) ha
previsto misure che hanno avuto delle ripercussioni anche sui lavoratori dipendenti, i quali hanno visto il loro orario di lavoro ridursi e ricevuto una serie di sostegni specialmente nelle famiglie in cui sono presenti uno o più figli minori. Con queste nuove disposizioni è stato reintrodotto il c.d. “bonus baby-sitter” (di cui si è detto supra)
nonché un congedo parentale straordinario: esso può essere richiesto direttamente al proprio datore di lavoro o alla P.A. di appartenenza dai dipendenti sia privati che pubblici che siano genitori (naturali o adottivi) di figli di età inferiore ai dodici anni, alternativamente da parte di un solo genitore, laddove l’altro non benefici già di ulteriori strumenti di sostegno al reddito. Il congedo in questione avrà una durata complessiva di 15 giorni, eventualmente frazionabili, e comporterà la riduzione della normale contribuzione del 50% per i giorni in cui vi si farà ricorso. È interessante come il legislatore abbia inoltre riconosciuto la possibilità per il lavoratore di convertire con una indennità pari al 50% degli stessi, i congedi di cui abbia già usufruito durante il periodo di sospensione delle attività didattiche. Ancora, ai genitori dipendenti che operino nel settore privato, è consentita l’astensione dal lavoro senza corresponsione di alcun tipo di retribuzione, indennità o contribuzione, nel caso in cui essi siano genitori di figli di età compresa tra i dodici ed i sedici anni, per un periodo complessivo di 15 giorni (anche frazionabili). Per tutta la durata del congedo, il datore di lavoro si impegna a mantenere il dipendente che ne fa uso quale titolare della propria posizione sino al suo ritorno. Infine, in via alternativa rispetto al congedo parentale di cui in argomento, è previsto un bonus baby-sitter di valore massimo pari a 600 (in alcuni casi, anche 1000) euro utilizzabile come mezzo di pagamento di quelle prestazioni prestate in periodi di sospensione delle attività scolastiche, riconosciuto ai lavoratori dipendenti del settore sia pubblico che privato.
In considerazione di questo nuovo assetto e della sua eventuale buona riuscita, il legislatore potrebbe mantenere queste condizioni valide anche per il futuro, laddove le necessità, specialmente dei genitori con figli minori a carico, siano tali da dover far sì che il datore di lavoro vada loro incontro utilizzando strumenti che, già in passato, si siano dimostrati validi e capaci di mantenere comunque efficace la prestazione lavorativa così resa.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO