Lo smart working rappresenta una modalità di esecuzione della prestazione del tutto innovativa che, nel tempo, ha visto incrementare progressivamente la propria applicazione. L’autore analizza i vantaggi dello strumento, nonché i riflessi sull’organizzazione del lavoro da parte del datore.

INTRODUZIONE

Il Legislatore ha inteso disciplinare, con il dichiarato obiettivo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, lo smart working (o “lavoro agile”), quale modalità di esecuzione della prestazione da parte del lavoratore che, se da un lato rientra a pieno titolo nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, dall’altro se ne discosta in concreto per vari elementi di autonomia riconosciuti al prestatore.

La L. n. 81/2017 (c.d. “Jobs Act autonomi”), all’art. 18, co. 1, chiarisce che lo strumento non deve intendersi come inedita tipologia di rapporto di lavoro, bensì come una mera “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato” che trova la propria principale fonte di regolazione in uno specifico “accordo tra le parti”. Compete infatti alle parti, in sede di accordo, individuare i tratti fondamentali del futuro svolgimento della prestazione, sia con riferimento all’eventuale organizzazione “per fasi, cicli e obiettivi”, sia alla temporaneità o meno dell’accordo stesso. Se le parti optano per il tempo indeterminato, il termine di preavviso dell’eventuale recesso datoriale non può essere, ai sensi dell’art. 19, “inferiore a 90 giorni”.

Questo innovativo strumento rappresenta senza dubbio una vera e propria opportunità per le imprese e per i dipendenti.

Gli ampi margini di libertà che l’ordinamento garantisce alle parti del rapporto nella definizione di modalità di svolgimento “su misura” per quanto riguarda l’orario e la presenza fisica in azienda, oltre a consentire allo smart worker di gestire il proprio tempo nella maniera maggiormente ottimale, si prestano, altresì, al conseguimento di vantaggi a vario titolo da parte del datore di lavoro stesso, tra cui la possibilità di gestire in maniera oculata i costi dell’impresa legati alla sede e alla relativa manutenzione.

A prescindere dalle concrete modalità stabilite nell’accordo, lo smart working si caratterizza sempre per un’esecuzione della prestazione “in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa” (art. 18) e ciò sarebbe risultato assolutamente non ipotizzabile prima dell’inarrestabile avanzare del progresso tecnologico.

Sussistono, in ogni caso, taluni problemi interpretativi, di stampo prettamente giuslavoristico, che risulta opportuno mettere in luce, anche con riferimento alle soluzioni adottate dalla giurisprudenza. La particolare autonomia di cui gode lo smart worker, infatti, porta talvolta l’interprete a ritenere alcuni elementi tipici della subordinazione inconferenti con l’ipotesi in oggetto.

LA RESPONSABILITA’ PER GLI INFORTUNI

Una delle questioni preminenti riguarda il tema della sicurezza sul lavoro.

Da un lato, la L. n. 81/2017 individua nel datore di lavoro il “responsabile della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore” e da ciò discende un’indubbia riconducibilità degli eventuali danni patiti dal prestatore alla sfera datoriale, in ragione dei vizi dello strumento tecnologico stesso.

Tuttavia, dal dato testuale della disposizione non risulta altrettanto evidente se il titolare dell’impresa sia al tempo stesso onerato di porre in essere le varie misure prescritte dal D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 in materia di salute e sicurezza sul lavoro, tra cui l’elaborazione della preliminare valutazione dei rischi ex art. 28, co. 1, nonché l’adeguata formazione del lavoratore ex art. 37, in tema di rischi e sicurezza.

A dirimere tale questione, è intervenuta la recente Cassazione, Sez. Pen., sent. 5 ottobre 2017, n. 45808, che conferma come gli obblighi sopra citati (valutazione dei rischi e sicurezza) debbano intendersi sempre sussistenti in capo al datore e nei confronti dei dipendenti, “ovunque essi siano situati”; la nozione di “luogo di lavoro” dovrebbe intendersi, secondo il Supremo Giudice, in senso quanto mai estensivo, finendo per ricomprendervi “ogni tipologia di spazio… a condizione che ivi sia ospitato almeno un posto di lavoro o esso sia accessibile al lavoratore nell’ambito del proprio lavoro”. Una simile interpretazione ricomprende anche la postazione di lavoro dello smart worker situata all’interno della propria abitazione.

Allo stesso modo, in tema di sicurezza, occorre prestare particolare attenzione che i carichi di lavoro non eccedano l’ordinarietà. Se, infatti, i rischi di un’eccessiva esposizione del dipendente a ritmi di lavoro frenetici sono stati oramai da tempo definiti dalla scienza psicologica, così come le possibili patologie dagli stessi derivanti (si pensi alla nota sindrome da burnout), va detto che per il datore di lavoro, in assenza di una presenza fissa in azienda, può talvolta risultare difficoltoso assicurarsi che l’orario osservato dal lavoratore non ecceda i limiti sanciti da norme di legge o dai contratti collettivi. Lo stesso Legislatore parrebbe aver preso in considerazione un simile pericolo, tanto da aver ritenuto necessario prescrivere in capo al datore l’obbligo di individuare in via preventiva, e nell’ambito della stesura dell’accordo, “i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro” (art. 19, co. 1, L. n. 81/2017).

In ogni caso, quand’anche la prestazione sia resa al di fuori dei locali aziendali, al lavoratore è garantita, ex art. 23, L. n. 81/2017, la tutela INAIL contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, quando il sinistro insorga “durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello prescelto per lo svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali”.

In sede di approvazione parlamentare della legge in oggetto, sono state configurate possibili mitigazioni di responsabilità in favore del datore, in considerazione della difficoltà per lo stesso di godere di un effettivo potere di controllo e di gestione dei rischi in concreto. Il Governo stesso, in fase di presentazione del DDL nell’ambito della Commissione competente, si era, con ciò, impegnato ad adottare successive misure per “garantire al lavoratore un’adeguata tutela e non aggravare la responsabilità del datore di lavoro per eventi che potrebbero andare oltre la sua sfera di controllo”. Trattasi di un auspicio cui, allo stato, non sono seguiti interventi concreti.

SMART WORKING E CONTROLLI A DISTANZA

L’art. 4, L. 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori) prescrive un divieto, in capo al datore di lavoro, di utilizzare strumenti al fine di sorvegliare, a distanza, l’attività lavorativa dei propri dipendenti.

Nonostante i recenti interventi normativi, l’installazione di impianti di videosorveglianza (il cui fine non può che essere dato da esigenze di sicurezza e tutela del patrimonio aziendale) da cui possa derivare anche un controllo sull’attività dei lavoratori, è sottoposta a rigide cautele e al necessario raggiungimento di un accordo con le organizzazioni sindacali ovvero all’ottenimento di un’autorizzazione in tal senso da parte dell’Ispettorato del Lavoro (nella sua sede territoriale). Tuttavia questi obblighi non risultano indispensabili se si tratta di strumenti “utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa”. È lo stesso Statuto a prevedere, altresì, l’utilizzabilità per fini connessi allo svolgimento del rapporto, delle informazioni raccolte tramite gli strumenti di cui sopra.

Riguardo a quest’ultimo profilo sorgono talune perplessità. In concreto, infatti, dai dispositivi utilizzati dal lavoratore (si pensi al PC) e grazie agli sviluppi della tecnologia, risulta tecnicamente possibile controllare gli orari di connessione/disconnessione dello smart worker, nonché, tramite l’uso di software particolari, anche il contenuto dell’attività prestata. Appare evidente che i rischi per la riservatezza del dipendente in tal senso assumono una discreta rilevanza. Per converso, la tutela dello smart worker deve essere adeguatamente bilanciata con l’interesse datoriale ad un corretto adempimento della prestazione ed è innegabile che, in assenza del ricorso ad un “controllo a distanza” nei termini indicati, la possibilità di verificare il regolare svolgimento delle mansioni verrebbe potenzialmente infirmata.

Orbene, il Legislatore ha ritenuto, nella difficoltà di individuare un preciso discrimine tra la liceità o l’illiceità di tali controlli, opportuno attribuire un ruolo decisivo all’accordo tra le parti. Spetta dunque alla pattuizione disciplinare, nello specifico, l’esercizio “del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione resa dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali” e, allo stesso tempo, predeterminare le “condotte, connesse all’esecuzione della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, che danno luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari” (art. 18, L. n. 81/2017). La scelta di riservare ad un accordo individuale un aspetto così delicato, al netto della partecipazione delle organizzazioni sindacali ad un’eventuale trattativa sul punto, si presta a suscitare dubbi di opportunità, ma rappresenta un discreto compromesso tra i valori in questione.

Non si registra, al momento, un copioso contenzioso su tale aspetto e occorre, con ciò, attendere il consolidarsi degli orientamenti giurisprudenziali per determinare, con maggior grado di dettaglio, sino a che punto le parti siano effettivamente libere di determinare i confini del controllo datoriale.

POTERE DIRETTIVO DEL DATORE

All’interno dell’accordo scritto, delle modalità di esercizio del controllo sulla prestazione dello smart worker, va detto che allo stesso documento è riservata la disciplina del potere direttivo del datore di lavoro.

Da una lettura dell’art. 19, L. n. 81/2017, si evince che l’accordo “disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro”.

Il Legislatore ha inteso attribuire un’assoluta libertà alle parti coinvolte di determinare gli aspetti salienti della gestione del rapporto, cosicché, a titolo esemplificativo, possono essere pattuite per iscritto eventuali riunioni (cui lo smart worker debba obbligatoriamente partecipare) che debbano svolgersi necessariamente in sede alla presenza del datore, eventuali fasce orarie di reperibilità, eventuale giornate lavorative da svolgersi anch’esse in sede, eventuali obblighi in capo al lavoratore agile di trasmettere al datore (o superiore gerachico) dei report giornalieri o settimanali sull’attività prestata, eventuali meccanismi di verifica sui risultati raggiunti dallo smart worker (con o senza una preventiva determinazione di obiettivi).

Quest’ultima ipotesi ha visto una frequente applicazione nella prassi e più delle altre permette di avvicinare il rapporto di lavoro prestato in regime di smart working alle caratteristiche del lavoro autonomo, al netto della qualificazione formale operata dalla legge. Un esercizio del potere direttivo e di controllo sull’aspetto qualitativo dell’adempimento del lavoratore basato sul raggiungimento di obiettivi, infatti, parrebbe incline a configurare senz’altro un’obbligazione di risultato (e non di mezzi, tipica della subordinazione).

Ad ogni modo, la scelta legislativa di riservare all’accordo la scelta delle ipotesi richiamate rappresenta una novità, posto che, nel tradizionale rapporto di lavoro subordinato, le modalità di esercizio del potere direttivo non possono che essere stabilite in via unilaterale dal datore di lavoro stesso, senza coinvolgimento alcuno del prestatore. Peraltro a tale documento scritto è riservata la configurazione delle ipotesi cui dar luogo a sanzioni disciplinari.

In tal senso, si pone un problema interpretativo legato al rapporto con l’eventuale codice disciplinare affisso nei locali aziendali ovvero con il regolamento aziendale che regoli detti aspetti. Occorre domandarsi, nello specifico, se il lavoratore, che in genere renda la prestazione in parte all’interno e in parte all’esterno dell’azienda, sia da ritenersi sanzionabile indifferentemente sulla base del codice disciplinare (o regolamento) o sulla base dell’accordo per condotte perpetrate all’esterno. In ogni caso, il dato testuale della disposizione, nonché ragioni di ordine logico, consentono di concludere con buona probabilità che per tali ipotesi il codice o il regolamento non si applichino al prestatore. Appare, perciò, del tutto evidente come, in caso di contestazioni disciplinari o sanzioni, il lavoratore non possa eccepire, in un eventuale giudizio sulla legittimità del provvedimento, la pretesa mancata affissione del codice disciplinare ovvero del regolamento aziendale.

CONCLUSIONE

Al netto dei dubbi richiamati, non può negarsi come lo smart working rappresenti un’indubbia opportunità per entrambe le parti del rapporto e, a prescindere dai possibili rischi ed abusi, sia uno strumento idoneo a riscontrare le esigenze di flessibilità che, in senso lato, caratterizzano il mercato del lavoro.

Del resto, la bontà della scelta legislativa parrebbe suffragata dai dati relativi all’utilizzo di tale particolare modalità di esecuzione da parte delle imprese.

Basti pensare che, nel mese di ottobre 2018, l’Italia contava ben 480.000 c.a. (dati ricavati dall’Osservatorio Smart Working) lavoratori in regime di smart working, con un decisivo incremento pari al 20% rispetto all’anno prima. Si tratta di un trend che, fatte salve eventuali “frenate” da parte del Legislatore, non può che essere destinato progressivamente ad aumentare.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU “LA STAMPA – TUTTOSOLDI”