Il datore di lavoro può legittimamente dare luogo alla ripetizione di un patto di prova nei confronti dello stesso lavoratore, anche se in precedenza quest’ultimo avesse già sottoscritto con la stessa impresa più contratti di lavoro per le identiche mansioni. È quanto ha stabilito, da ultimo, la Corte di cassazione (sezione Lavoro): nella sentenza 22809 del 12 settembre 2019, la Corte si è pronunciata sull’ipotesi in cui, appunto, il datore di lavoro non ritenga sufficienti i periodi di prova già compiuti nell’ambito di contratti di lavoro a termine e intenda nuovamente appurare la compatibilità con le mansioni e le esigenze aziendali del soggetto da assumere a tempo indeterminato.

Nel disciplinare la possibilità di testare le caratteristiche e le qualità del dipendente prima dell’assunzione, il legislatore ha previsto, all’articolo 2096 del Codice civile, che, oltre a risultare necessariamente «da atto scritto», il patto di prova sia una clausola accessoria che consente a entrambe le parti del rapporto di recedere dal contratto alla sua scadenza e che, in caso contrario, l’assunzione diventa definitiva. Posto che la ratio dell’istituto è nella nella garanzia di un’adeguata valutazione sulla possibilità di proseguire o meno il rapporto lavorativo, la questione affrontata dalla Cassazione riveste un’assoluta rilevanza, poiché non c’è dubbio che, in linea teorica, i periodi di prova già trascorsi – e la scelta di sottoscrivere ulteriori contratti di lavoro – consentano di presumere che una valutazione in questo senso sia già stata effettuata.

Così non è secondo il giudice di legittimità. Infatti, al datore di lavoro è sempre consentito di dar luogo a verifiche ulteriori che si rendano necessarie. Per la legittimità della scelta datoriale, però, occorre che sia effettivamente dimostrata (con onere della prova a carico del datore) la reale esigenza di nuove verifiche, e che queste ultime possano definirsi «rilevanti ai fini dell’adempimento della prestazione». Ciò può avvenire, stando alla sentenza, in tutti i casi nei quali sopraggiungano mutamenti strettamente legati alla persona del lavoratore «per molteplici fattori», relativi, ad esempio, «alle abitudini di vita o a problemi di salute». A ben vedere, infatti, sia la professionalità del lavoratore che, appunto, il suo comportamento e le caratteristiche personali ben si prestano a essere «elementi suscettibili di modificarsi nel tempo» (si veda anche la sentenza della Cassazione 10440 del 22 giugno 2012).

Occorre giungere a conclusioni analoghe laddove la prova già effettuata in precedenza non sia risultata sufficiente alla parte datoriale per verificare l’idoneità del prestatore a eseguire tutte le attività riconducibili alla qualifica di assunzione (ordinanza della Cassazione 28930 del 12 novembre 2018). Per quanto, apparentemente, la pratica della ripetizione del periodo di prova non possa definirsi totalmente al riparo da abusi e, in particolare, dal rischio che a una tale scelta consegua, di fatto, un’ingiustificata procrastinazione della stabilizzazione del lavoratore (per il quale siano ad esempio esaurite le possibilità di proroga di contratti a termine), l’ammissibilità di una simile opzione è stata avallata da una giurisprudenza pressoché consolidata, anche recente. I vantaggi della ripetizione del patto di prova non sono esclusivamente per il datore: come sostenuto dalla Cassazione (sentenza 28930/2018), anche il lavoratore può giovarsi dell’opportunità di valutare l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto di lavoro.

LA CONCLUSIONE ANTICIPATA NON PORTA ALLA REINTEGRA

La regola generale sul patto di prova prevista dall’articolo 2096 del Codice civile sulla possibilità per le parti del rapporto di lavoro di sciogliersi dal vincolo assunto, è rappresentata dalla libera recedibilità di entrambi i soggetti. Salvo il caso in cui il patto risulti nullo per assenza di forma scritta o mancata indicazione delle mansioni oggetto di prova, quindi, il datore di lavoro può astrattamente optare per un recesso ad nutum e, segnatamente, allontanare il lavoratore a prescindere dalla sussistenza di qualsivoglia giustificato motivo o giusta causa.

Tuttavia, nel silenzio della legge sul punto, la giurisprudenza di legittimità è intervenuta a offrire alcune garanzie in favore del lavoratore in prova e, in particolare, a tutelare quest’ultimo laddove la durata del periodo di prova alle dipendenze del datore sia del tutto insufficiente a garantirgli un’effettiva esecuzione dell’esperimento. È il caso che si verifica, ad esempio, quando le parti stabiliscono una durata del patto in linea con le disposizioni della contrattazione collettiva e, tuttavia, la parte datoriale recede anticipatamente, adducendo il mancato superamento (o l’esito negativo) della prova.

Ebbene, in una ipotesi simile, si è osservato che, nonostante la natura totalmente discrezionale della scelta dell’imprenditore, quest’ultimo abbia comunque l’onere di esercitare il potere di recesso in maniera «coerente con la causa del patto di prova», cosicché, se in concreto alle parti non sia consentito di verificare, in maniera effettiva, la reciproca convenienza dell’assunzione, in quanto «la durata dell’esperimento non risulti adeguata ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova», non è configurabile un esito negativo della prova (in questo senso, si veda la sentenza della Cassazione n. 19558 del 13 settembre 2006).

Appare difficile, in questo senso, individuare con precisione un periodo minimo di riferimento: la congruità della durata non può che essere oggetto di valutazione in sede giurisdizionale, sulla base del concreto esplicarsi del rapporto e della tipologia di mansione cui risulterebbe addetta la persona da assumere, con onere probatorio a carico del prestatore che ne adduca l’insufficienza. Risulta, ad ogni modo, evidente che, a fronte di una maggiore complessità tecnica dell’attività lavorativa richiesta, debba ritenersi proporzionalmente necessaria una durata della prova superiore, perchè la verifica della sua idoneità non si riveli soltanto apparente.

Fatte queste premesse, bisogna anche osservare che, quand’anche si accerti l’illegittimità del recesso anticipato per l’ipotesi considerata, le conseguenze giuridiche in cui può incorrere il datore di lavoro si limitano a una potenziale condanna alla «prosecuzione della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato» ovvero, ricorrendone i presupposti, al risarcimento del danno, dovendosi, per converso, escludere che «il rapporto di lavoro debba essere ormai considerato come stabilmente costituito», o che possa trovare applicazione il regime sanzionatorio previsto dalla legge 604/1966 sui licenziamenti individuali e dallo Statuto dei lavoratori, la legge 300/1970 (si veda la sentenza della Cassazione 23231 del 17 novembre 2010).

Contributo pubblicato su “IL SOLE 24 ORE”