Il Codice civile individua nello “scopo mutualistico” (art. 2511 c.c.) l’elemento caratterizzante le società cooperative, intese quali società di capitali ove, in termini generali, i singoli soci possono godere di servizi, beni ovvero lavoro, appunto, a condizioni maggiormente convenienti e vantaggiose rispetto a quanto offerto dal mercato. Orbene, al netto delle ipotesi delle cooperative di utenza (che svolgono la propria attività in favore di soci consumatori ovvero utenti) e di supporto (che si avvalgono dell’apporto, da parte dei soci, di beni e servizi), in questa sede si intende porre l’accento sulla disciplina legislativa vigente nonché sugli orientamenti interpretativi della giurisprudenza di legittimità – relativa alle cooperative di lavoro, con particolare riferimento allo status giuridico, nonché ai diritti e alle condizioni dei lavoratori in esse impiegati.

Occorre premettere come, ancorché nell’ambito di una società cooperativa, sia sempre possibile procedere all’assunzione di soggetti terzi rispetto alla società, i quali rimangono soggetti alle tradizionali regole del lavoro subordinato (o della diversa tipologia contrattuale) e alle relative tutele. I principali problemi interpretativi – nonché le più rilevanti istanze di tutela – che negli anni si sono posti riguardano i c.d. “soci lavoratori”, ossia coloro che rivestano una duplice posizione nei confronti della società e, allo stesso tempo, siano soggetti ad una duplice disciplina giuridica. A questo proposito, con l’approvazione della legge 3 aprile 2001, n. 142 (recante “Revisione della legislazione in materia cooperativistica, con particolare riferimento alla posizione del socio lavoratore”), il legislatore ha provveduto a riservare disposizioni specifiche in favore di tale peculiare figura, anche – e soprattutto – in considerazione degli abusi registrati negli anni. Prima dell’intervento citato, infatti, non poteva che trovare applicazione quanto previsto dal codice civile in materia di prestazione del socio d’opera (si veda, al riguardo, l’articolo 2263 c.c.), cosicché le maggiori tutele per i lavoratori disciplinate dalle norme di diritto del lavoro erano state apprestate soltanto per mezzo dell’interpretazione operata dalla giurisprudenza (vedasi, in tal senso, Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 10906 del 30 ottobre 1998) e dell’adozione della tesi c.d. “dualista”.

Non rappresentava, invero, prassi infrequente, quella per la quale la scelta di un simile strumento giuridico trovasse esclusiva ragione nella volontà datoriale di eludere la disciplina giuslavoristica, al netto di qualsivoglia scopo mutualistico effettivo da parte della società.

La disciplina di cui alla legge n. 142/2001 e lo status del socio-lavoratore

Come anticipato, la legge n. 142/2001 ha “cristallizzato” la concezione dualistica del rapporto intercorrente tra il socio lavoratore e la cooperativa stessa. Nello specifico, il soggetto vede, da un lato, l’instaurazione di un rapporto associativo, da cui derivano le seguenti funzioni e competenze:

• concorrere alla gestione dell’impresa, “partecipando alla formazione degli organi sociali e alla definizione della struttura di direzione e conduzione dell’impresa”;

• partecipare alla definizione e all’elaborazione di “programmi di sviluppo” e all ’assunzione di decisioni di stampo strategico, nonché alla “realizzazione dei processi produttivi dell’azienda”;

• contribuire alla formazione del capitale sociale e partecipare “al rischio d’impresa, ai risultati economici e alle decisioni sulla loro destinazione”;

mettere a disposizione dell’impresa le proprie capacità professionali, “anche in relazione al tipo e allo stato dell’attività svolta, nonché alla quantità delle prestazioni di lavoro disponibili per la cooperativa stessa” (vedasi, legge n. 142/2001, art. 1, comma 2).

Dall’altro lato, al netto del ruolo di cui sopra e della posizione di “socio”, si ha una contestuale instaurazione di un rapporto di lavoro con la società, che può assumere varie forme previste dall’ordinamento (l’ipotesi classica è, naturalmente, rappresentata dalla forma subordinata, ma, per espressa previsione legislativa, esso può svolgersi secondo le regole del lavoro autonomo ovvero in altre forme, “ivi compresi”, ex art. 1, comma 3, “i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale”). Assume, in concreto, rilievo che, a prescindere dalla forma contrattuale adottata, questa sia idonea a garantire un contributo del lavoratore al raggiungimento degli scopi sociali.

Peraltro, dalla configurazione di tale ulteriore rapporto deriva l’indiscussa applicabilità dei vari oneri ed effetti fiscali e previdenziali previsti dall’ordinamento. Taluno, invero, nonostante l’estrema chiarezza della disposizione ex art. 2, legge n. 142/2001, ha dubitato dell’applicabilità dei diritti sindacali alla peculiare ipotesi del socio lavoratore. Infatti, a ben vedere, può ravvisarsi – in astratto – un’incompatibilità tra l’eventuale attività sindacale di stampo conflittuale che il soggetto può esercitare nella veste di lavoratore subordinato e la posizione ricoperta nell’organizzazione in qualità di socio. Come detto, tuttavia, occorre fare riferimento al richiamato articolo che, nel precisare come ciò valga soltanto se in maniera compatibile “con lo stato di socio lavoratore”, applica espressamente i diritti di cui al Titolo III, legge n. 300/1970 (c.d. Statuto dei lavoratori) a tale figura e, quindi:

• il diritto di costituire rappresentanze sindacali aziendali (art. 19, legge n. 300/1970);

• il diritto di riunirsi in assemblea (art. 20);

• il diritto di indire referendum (art. 21);

• il diritto di ottenere permessi retribuiti e non retribuiti per attività sindacali a vario titolo (artt. 23, 24);

• il diritto di affissione (art. 25);

• il diritto di raccogliere contributi ed effettuare proselitismo (art. 26);

• il diritto di ottenere locali idonei per svolgere riunioni sindacali (art. 27).

Rapporti associativi fittizi e tutela giurisdizionale

Appare evidente come, laddove il rapporto associativo si configuri in senso soltanto formale e, nei fatti, il socio non partecipi in maniera effettiva alla vita dell’impresa nelle modalità richiamate, sia sempre fatta salva la facoltà di adire l’Autorità giudiziaria affinché provveda alla riqualificazione del rapporto e al riconoscimento della relativa natura esclusivamente subordinata. Nell’ambito di un eventuale giudizio sul punto, spetta al lavoratore che si assume subordinato fornire “la prova degli indici atti ad individuare e comprovare la dedotta subordinazione” (cfr. ex multis, Cassazione, sentenza n. 21256 del 28 agosto 2018).

Per converso, l’onere della prova circa la natura “non fittizia” del rapporto associativo e quindi della relativa sussistenza in parallelo al rapporto di lavoro “compete alla società e, ove tale onere non sia assolto, deve escludersi la possibilità di attribuire al medesimo la qualità di socio-lavoratore” (cfr., ancora, Cass. n. 21256/2018). La cooperativa, in particolar modo, è chiamata a soddisfare detto onere, dimostrando, a titolo esemplificativo, l’effettiva partecipazione del socio-lavoratore alle deliberazioni degli organi sociali.

Le funzioni del regolamento interno

Ad ogni modo – e a prescindere da dette ipotesi “patologiche” – le società devono, in linea generale, individuare preventivamente le tipologie dei rapporti di lavoro che intendono instaurare con i soci all’interno di un regolamento interno. Trattasi di un adempimento espressamente previsto dall’art. 6, legge n. 142/2001, a norma del quale risulta necessaria l’indicazione:

• del richiamo ai contratti collettivi applicabili (esclusivamente con riferimento ai lavoratori subordinati);

• delle modalità di svolgimento della prestazione da parte dei soci;

• del richiamo espresso alle “normative di legge vigenti per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato”;

• dell’attribuzione all’assemblea della funzione di deliberare, ove occorrente, un piano di crisi aziendale e, per le cooperative di nuova costituzione, la facoltà di deliberare piani di avviamento.

Va, comunque, precisato che, nonostante l’attribuzione al regolamento interno della funzione di prevedere in astratto il tipo di rapporto da attuare caso per caso serva “a consentire un più agevole controllo pubblico”, essa non determina in concreto “il tipo negoziale di volta in volta attivato” (in questo senso, vedasi Ministero del lavoro e delle politiche sociali, circolare n. 34 del 17 giugno 2002). Laddove la società non provveda all’adozione del regolamento, può dirsi preclusa la possibilità di inquadrare i soci lavoratori con rapporto “diverso da quello subordinato”, nonché all’assemblea la facoltà di deliberare piani di crisi aziendale o piani di avviamento, posto che, come puntualmente rilevato dal Ministero, trattasi di “aspetti che trovano la loro fonte istitutiva e la relativa disciplina esclusivamente nel regolamento interno” (si legga Ministero del lavoro e delle politiche sociali, circolare n. 10 del 18 marzo 2004).

Il trattamento economico del socio-lavoratore

Alcune riflessioni meritano di essere condotte con riferimento al trattamento economico da riconoscere al socio lavoratore, posto che trattasi di un aspetto più volte oggetto di discussione in sede interpretativa. Stando a quanto disposto dalla legge richiamata, il soggetto di cui sopra ha diritto ad un “trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e, comunque, non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine” (art. 3, comma 1, legge n. 142/2001).

Per di più, con l’intervento di cui al D.L. n. 248/2007, il legislatore, al fine di scongiurare il rischio del ricorso ai c.d. “contratti collettivi pirata”, ha ulteriormente precisato che “… fino alla completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperative, in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative … applicano … i trattamenti economici
complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria” (art. 7, comma 4, D.L. n. 248/2007). A norma del citato art. 6, poi, non è possibile provvedere a derogare in pejus i minimi ex art. 3, comma 1 all’interno del regolamento interno (si vedano, ex multis, Cassazione, sentenza n. 17583 del 4 agosto 2014, nonché sentenza n. 19823 del 28 agosto 2013), a cui è riservata semmai – la facoltà di derogare ai trattamenti economici ulteriori eventualmente deliberati dall’assemblea (è il caso delle maggiorazioni retributive, dei ristorni, delle integrazioni retributive, degli aumenti gratuiti di capitale sociale sottoscritto e versato, delle distribuzioni gratuite di titoli ex art. 3, comma 2).

Orbene, come anticipato, il quadro descritto è stato oggetto di diversi dubbi interpretativi. Non risultava, in primo luogo, pacifico se il riferimento alla contrattazione collettiva e ai trattamenti economici minimi comprendesse soltanto la retribuzione di livello ovvero altre voci. In tal senso, si segnala l’intervento del Ministero del lavoro, che ha chiarito come l’aderenza ai minimi contrattuali vada estesa al trattamento economico nel suo complesso, comprendente, quindi, anche “le voci retributive diverse (straordinario e festivo) e le retribuzioni parziali differite” (cfr., ancora, circolare n. 34/2002). In particolare, poi, si è dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 4, D.L. n. 248/2007 che, nel riferirsi direttamente a taluni e specifici – contratti collettivi si sarebbe prestato ad infirmare le garanzie ex art. 39 Cost. e a ledere il dinamismo della concorrenza intersindacale, nonché ad introdurre (illegittimamente) un meccanismo di efficacia erga omnes degli stessi contratti. Sul punto è, con ciò, intervenuto il Giudice delle leggi che, con sentenza n. 51 del 1° aprile 2015, ha negato qualsivoglia profilo di incompatibilità con il testo della Carta. La Corte costituzionale, nello specifico, ha affermato come la disposizione censurata non recepisca in alcun modo a livello normativo il contenuto dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni più rappresentative, ma ne attui un mero richiamo finalizzato a costituire “parametro esterno di commisurazione”, da effettuarsi ad opera del giudice eventualmente investito della questione, “nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell’art. 36 Cost.”. Quindi, continua la Corte, il legislatore avrebbe inteso esclusivamente contrastare possibili forme di competizione salariale al ribasso, cristallizzando un criterio oramai consolidato in sede giurisprudenziale, qual è il riferimento alla “retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative”.

Cessazione del rapporto e tutela

Come già anticipato, dall’affermazione della natura dualistica del rapporto del socio lavoratore discendono conseguenze rilevanti con riferimento, in particolare, alla fase estintiva. Va, in proposito, segnalato che, a norma dell’art. 5, legge n. 142/2001 i due rapporti (associativo e lavorativo) sono contraddistinti dalla stessa sorte e, nello specifico, “… il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformità con gli articoli 2526 e 2527, Codice civile” (oggi rinumerati agli artt. 2532, 2533). Ciò sta a significare che i margini per recedere dal contratto di lavoro con il socio risultano ben più ampi rispetto alle regole ordinarie in materia di licenziamento. Infatti, da una mera lettura delle disposizioni civilistiche richiamate dall’art. 5, può notarsi come costituiscano valide ipotesi di esclusione (e, quindi, anche di estinzione del rapporto di lavoro):

• il mancato pagamento delle quote;

• eventuali altri casi disciplinati dall’atto costitutivo;

• gravi inadempienze delle obbligazioni;

• mancanza o perdita dei requisiti per la partecipazione alla società;

• interdizione, inabilitazione o inidoneità del socio;

• fallimento e liquidazione.

A ciò si aggiunga che l’art. 2 opera un’esclusione espressa dell’applicabilità, all’ipotesi che qui interessa, dell’art. 18, legge n. 300/1970 e, quindi, della relativa tutela avverso il licenziamento illegittimo, ogni qualvolta si registri la cessazione di entrambi i rapporti. La giurisprudenza di legittimità è, con ciò, pervenuta a conclusioni differenti con riferimento al rapporto intercorrente tra le impugnazioni (e i relativi effetti) della delibera di esclusione, da un lato, e del licenziamento dall’altro, affermando principi oggi oramai superati. Una parte della giurisprudenza, in particolare, ha optato per l’applicazione, in ogni caso, dell’art. 18 ogniqualvolta la delibera sociale di esclusione sia fondata soltanto sul licenziamento (e sulle motivazioni poste alla base dello stesso) ed è giunta ad affermare come, in simili circostanze, dall’accertamento dell’eventuale illegittimità del provvedimento disciplinare dipenda automaticamente anche l’illegittimità della delibera di esclusione (si vedano, a titolo meramente esemplificativo, Cassazione, sentenza n. 17868 dell’11 agosto 2014, nonché sentenza n. 14143 del 6 agosto 2012).

Secondo altra tesi, invero, “al cospetto di condotte che ledano nel contempo il rapporto associativo e quello di lavoro”, l ’unico procedimento finalizzato all’estinzione dei due rapporti sarebbe individuabile nella delibera di esclusione, cosicché ove il socio lavoratore intenda impugnare il licenziamento, questi è onerato di impugnare preventivamente la delibera, quale vera e propria condizione di procedibilità per la proposizione del ricorso al giudice del lavoro (in tal senso, vedasi Cassazione, sentenza n. 9916 del 13 maggio 2016, nonché sentenza n. 2802 del 12 febbraio 2015).

A dirimere la questione, sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte, per mezzo della sentenza n. 27436 del 20 novembre 2017. Nel caso oggetto di controversia, in particolare, il socio lavoratore di una cooperativa vedeva contestarsi una pretesa aggressione al superiore gerarchico e a detta condotta conseguiva, da un lato, l’esclusione dalla società e, dall’altro, il recesso per giusta causa. Orbene, ai fini dell’ottenimento di una tutela, questi agiva innanzi al Tribunale in funzione di giudice del lavoro avverso il licenziamento comminatogli, senza impugnare preventivamente la delibera di esclusione dalla cooperativa. Sia in primo grado che in appello, i giudici di merito accertavano l’illegittimità del licenziamento e, in seguito al ricorso in Cassazione da parte della società (la quale eccepiva, in particolar modo, l’avvenuta decadenza dall’azione per omessa impugnazione della delibera) la questione veniva assegnata alle Sezioni Unite, in considerazione degli evidenti contrasti interpretativi registratisi sul punto negli anni. E, infatti, come rilevato dalla stessa Corte, “a seconda del peso, maggiore o minore, che si riconosca a ciascuno dei due rapporti, di lavoro e associativo, si giunge a conclusioni diverse in relazione alla giustiziabilità del licenziamento del socio lavoratore che si accompagni alla delibera della cooperativa che lo escluda, qualora questa non sia impugnata”.

La sentenza in oggetto ha avuto, in primo luogo, modo di dirimere il dubbio circa il collegamento esistente tra i due rapporti nella fase estintiva, rilevando che, se la cessazione del rapporto di lavoro (“non soltanto per recesso datoriale, ma anche per dimissioni del socio lavoratore”) non implica automaticamente il venir meno di quello associativo, allorquando a concludersi sia il secondo, “la cessazione del rapporto associativo … trascina con sé ineluttabilmente quella del rapporto di lavoro”. Infatti, continuano le Sezioni Unite, se il socio può non essere lavoratore, allo stesso tempo – qualora perda la qualità di socio – “non può più essere lavoratore”. Da tale premessa discendono conseguenze rilevanti in materia di impugnazione e decadenze. Con riferimento a detto profilo, laddove il soggetto ometta di contestare la delibera,“l’effetto estintivo del rapporto di lavoro derivante dall’esclusione dalla cooperativa a norma del 2° comma dell’art. 5, legge n. 142/2001” impedisce, in ogni caso, di conseguire “il rimedio della restituzione della qualità di lavoratore”; si registra, quindi, una totale preclusione alla possibilità di ottenere una tutela restitutoria (che, occorre specificare, rappresenta la conseguenza dell’invalidazione di una delibera ed è totalmente distinta rispetto alla tutela reale lavoristica ex art. 18, legge n. 300/1970).

Ciò non toglie, tuttavia, che al lavoratore sia comunque concesso di impugnare il licenziamento, posto che, nonostante l’effetto estintivo del rapporto di lavoro risalga all’esclusione in qualità di socio (“destinato a restar fermo per mancanza d’impugnazione della fonte che l’ha determinato”), ben può determinarsi un danno in capo allo stesso soggetto, cui è possibile porre rimedio “con la tutela risarcitoria”. Secondo la ricostruzione operata dal supremo giudice, a ben vedere, gli effetti derivanti dalla delibera di esclusione non si identificano con quelli derivanti dal licenziamento, ma anzi “sono proprio gli effetti della delibera … a dare consistenza agli effetti risarcitori derivanti dal licenziamento illegittimo”, il che giustifica l’autonomia delle rispettive tutele.

Quale rito applicabile?

Giova, da ultimo, individuare il rito applicabile alle controversie che possano sorgere in materia. Anche tale tema, invero, è stato a più riprese oggetto di discussione, posto che l’art. 5, comma 2, legge n. 142/2001 parrebbe attribuire, secondo taluno, competenza al giudice ordinario in ogni caso (“… le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario”). Secondo tale tesi, anche le questioni relative al rapporto lavorativo dovrebbero essere riservate al g.o., in ragione dell’assoluta centralità che il legislatore avrebbe inteso garantire al rapporto associativo.

Invero, gli orientamenti maggioritari sono giunti a conclusioni del tutto diverse e, in linea generale, tendenzialmente opportune. Nello specifico, in ossequio al dato testuale della norma in oggetto, può dirsi che “l’ambito della competenza del giudice ordinario è … circoscritto alle controversie aventi un oggetto riconducibile nell’alveo della prestazione mutualistica” (Cassazione, ordinanza n. 24917 del 21 novembre 2014). Ove una controversia finisca per coinvolgere entrambi i rapporti (associativo e lavorativo) la competenza non può che attribuirsi, sulla base dell’ordinanza n. 24917/2014, al giudice del lavoro; trattasi, infatti, di un’ipotesi di “connessione di cause” per la quale l’art. 40, comma 3 c.p.c. “fa salva l’applicazione del rito speciale”, con il chiaro intento, da parte del legislatore, di “dare preminenza ad interessi di rilevanza costituzionale”.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA