In questa sede si intende porre l’accento sul tema dell’infortunio in itinere, ossia quello che si verifica non all’interno del contesto aziendale o, comunque, nell’ambito del luogo di lavoro del dipendente, bensì nel corso del tragitto dallo stesso effettuato per recarvisi. Come è noto, anche ove il sinistro avvenga al di fuori del luogo di lavoro, è riconosciuta (a livello legislativo) una tutela assicurativa nei confronti del lavoratore.

Trattasi, tuttavia, di un’ipotesi non priva di rilevanti limiti, che attengono sia alla specifica posizione geografica (rispetto al luogo di esecuzione della prestazione lavorativa) in cui si verifichi l’incidente, sia, a vario titolo, ai mezzi adoperati per gli spostamenti e, ancora, a talune condizioni soggettive riferibili al dipendente all’atto dell’infortunio. Orbene, in questa sede, oltre ad analizzare i richiamati limiti e, in generale, i presupposti per l’indennizzabilità da parte dell’Inail, risulta utile soffermarsi su quanto recentemente affermato dalla Suprema Corte di Cassazione che, con sentenza n. 21516 del 31 agosto del 2018, pronunciandosi sul tema in oggetto, ha offerto spunti interessanti in materia di infortunio in itinere occorso su un velocipede.

Quadro normativo

Già dal 1965, con l’approvazione del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 in materia di Industria (Testo Unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali), oltre a prescrivere ex art. 1 un generale obbligo in capo ai datori di lavoro (eccezion fatta per i casi di attività lavorativa a scopo unicamente domestico) di assicurazione, appunto, contro gli infortuni, prevede, quali soggetti rientranti nella copertura: chi presti opera manuale retribuita alle dipendenze altrui, chi sovraintenda al lavoro di altri, gli artigiani, gli apprendisti, gli insegnanti e gli alunni, i coniugi, figli o parenti del datore di lavoro che prestino opera manuale, i soci delle cooperative, i ricoverati in casa di cura, ospizi o ospedali addetti a lavori e i detenuti in istituti addetti a lavori (vedasi D.P.R. n. 1124/1965, Capo III).

Orbene, in ragione dell’entrata in vigore dell’art. 12, D.Lgs. n. 38/2000 che ha integrato la disciplina ex D.P.R. n. 1124/1965, le persone di cui sopra – al netto dell’ipotesi ordinaria per la quale il sinistro abbia luogo durante il normale orario di lavoro e nell ’ambito del luogo di lavoro – vedono estesa la copertura assicurativa (e con essa l’indennizzabilità dei danni patiti) agli eventuali infortuni occorsi “durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro”, nonché “durante il normale percorso che collega due luoghi di lavoro” se il lavoratore ha più rapporti di lavoro (Capo II). Peraltro, laddove all’interno dell’azienda non sia presente un servizio mensa in favore dei dipendenti, gli stessi risultano, in ogni caso, coperti “durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro a quello di consumazione abituale dei pasti”. Occorre, per di più, sottolineare che talvolta ad essere indennizzabili sono, altresì, le ipotesi in cui quanto sopra avvenga nel corso di un’interruzione o una deviazione di percorso; ciò, tuttavia, esclusivamente ove le stesse siano da intendersi “necessitate” (ossia allorquando siano “… dovute a cause di forza maggiore, ad esigenze essenziali ed improrogabili o all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti”).

Inoltre, si segnala che, dalla lettura dell’assai risalente provvedimento legislativo in oggetto, la copertura assicurativa in caso di utilizzo di un mezzo di trasporto privato opera soltanto se ciò sia “necessitato”; in tal senso, tuttavia, non può non porsi in evidenza l’interpretazione della norma elaborata a livello giurisprudenziale di cui si dirà più approfonditamente in seguito. Ad ogni modo, ciò vale a condizione che, in qualità di conducente di un mezzo privato, il lavoratore sia provvisto dell’idonea abilitazione alla guida, pena, in caso contrario, l’inoperatività della copertura e che lo stesso non abbia abusato “di alcolici e di psicofarmaci” ovvero fatto uso “non terapeutico di stupefacenti ed allucinogeni”.

Il concetto di “normale percorso”

Nell’interpretazione della disciplina giuridica richiamata, non può che porsi, in primo luogo, l’accento sul concetto di “normale percorso” individuato dal citato art. 2, D.P.R. n. 1124/1965 e valutare, in concreto, cosa debba intendersi con tale espressione ai fini di una delimitazione delle ipotesi indennizzabili. In tal senso, occorre fare riferimento all’elaborazione della giurisprudenza di legittimità, più volte investita della questione. In particolare, giova richiamare, a titolo meramente esemplificativo, la sentenza n. 1320 del 1° febbraio 2002 della Suprema Corte di Cassazione (sezione lavoro), per mezzo della quale la stessa ha avuto modo di fornirne una compiuta definizione.

Nello specifico, a dire del supremo giudice, rientra nelle tutele previste dal legislatore l’infortunio in itinere occorso al lavoratore soltanto qualora sussistano le seguenti condizioni:

• sia ravvisabile un nesso eziologico tra il percorso seguito dal lavoratore e l’evento dannoso (“… nel senso che tale percorso costituisca per l’infortunato quello normale per recarsi al lavoro e per tornare alla propria abitazione”);

• sia ravvisabile un nesso almeno occasionale “tra itinerario seguito ed attività lavorativa, nel senso che il primo non sia dal lavoratore percorso per ragioni personali o in orari non collegabili alla seconda” (si veda, in tal senso, anche Cassazione, sentenza n. 5063/2000).

La stessa sentenza ha ritenuto, peraltro, non indennizzabile l’infortunio occorso al ricorrente, in quanto tra i vari e possibili percorsi da percorrere per recarsi nel relativo luogo di lavoro, lo stesso aveva scelto “quello più lungo”, senza che sussistessero motivazioni logistiche che, al netto della maggior distanza, lo rendessero in ogni caso preferibile. Se ne deduce che per “normale percorso” debba sempre intendersi – in linea generale l’itinerario più breve di cui il lavoratore può servirsi.

Il c.d. “rischio elettivo”

Il parametro dell’“occasionalità” individuato dalla giurisprudenza di cui sopra viene, a ben vedere, in rilievo per escludere la sussistenza del cd. “rischio elettivo”. Trattasi di un concetto atto a negare l’indennizzabilità degli infortuni, se gli stessi siano la conseguenza di una scelta propria del dipendente (a prescindere da qualsivoglia necessità in tal senso per l’esecuzione del rapporto di lavoro). Nello specifico, il sinistro si intende derivante da un rischio elettivo “quando esso sia la conseguenza di un rischio collegato ad un comportamento volontario, volto a soddisfare esigenze meramente personali e, comunque, indipendente dall’attività lavorativa”, che può, altresì, definirsi come un “rischio generato da un’attività che non abbia rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa” (si veda, ex multis, Cassazione, sentenza n. 17917 del 20 luglio 2017).

Analoghe considerazioni (e, quindi, una totale esclusione dell’indennizzo), invero, devono muoversi anche ove il rischio in cui sia incorso il lavoratore, ancorché in qualche modo riconducibile alla propria prestazione lavorativa, “esorbiti in modo irrazionale dai limiti di essa” (cfr., ancora, Cass. n. 17917/2917). In altri termini, allorquando, rispetto al “normale percorso” di cui si è detto, il dipendente muti l’itinerario a propria totale discrezione, il rischio professionale che lo caratterizza subisce un declassamento a “rischio elettivo”. Appare quasi superfluo rilevare come talvolta il preciso confine tra esigenze personali e lavorative, nonché, quindi, tra rischio professionale ed elettivo, non sia particolarmente semplice da individuare. Al riguardo, una delle ipotesi più volte oggetto di dibattiti dottrinali è rappresentata dall’esercizio del diritto di sciopero e, in linea generale, di qualsivoglia esercizio di attività sindacale.

Occorre in tal senso chiedersi se i rischi connessi ai tragitti eventualmente percorsi in ragione di dette attività rientrino tra quelli “professionali” e risultino, come tali, idonei a fondare l’indennizzabilità dell’eventuale infortunio. Ebbene, stando ad un orientamento oramai consolidato della Cassazione, la risposta deve intendersi negativa. In particolare, con sentenza n. 956 del 2 febbraio 1988, la Suprema Corte ha perentoriamente affermato che “… non può considerarsi avvenuto in occasione di lavoro non solo l’infortunio che si verifichi durante lo sciopero”, ma anche quello che il lavoratore “subisca mentre si avvia a riprendere il lavoro al termine dello sciopero”. Infatti, sulla base della pronuncia, l’esercizio dei diritti di cui sopra rientrerebbe a pieno titolo tra le possibili scelte (autonome e discrezionali) del prestatore di lavoro e, quindi, i rischi di infortuni – in una simile ipotesi – non sarebbero riconducibili “alle esigenze dello svolgimento del lavoro ma piuttosto alle diverse ragioni di autotutela del lavoratore”.

Parimenti, analoghe considerazioni possono muoversi con riferimento ad altre attività di natura sindacale. A titolo di esempio, la stessa Cassazione ha, in altra circostanza, escluso la tutela assicurativa “nel caso di incidente stradale subito da lavoratori recantisi presso la sede dell’impresa datrice di lavoro per la procedura di consultazione sindacale stabilita per il ricorso alla cassa integrazione ex articolo 5, legge 5 maggio 1975, n. 164” (si veda, in questo senso, Cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 5188 del 25 agosto 1986). Rientrano, invece, senza dubbio alcuno, nella nozione di “occasione di lavoro” gli spostamenti da una sede della prestazione lavorativa all’altra, così come, in linea generale, tutti i “fatti, anche straordinari ed imprevedibili, inerenti all’ambiente, alle macchine o alle persone, sia dei colleghi, sia dei terzi ed anche dello stesso infortunato o comunque attinenti alle condizioni oggettive e storiche della prestazione lavorativa” (Cassazione, sentenza n. 14464 del 7 novembre 2000).

Mezzo privato o mezzo pubblico

Un ulteriore elemento, la cui valutazione risulta imprescindibile ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio in itinere, è costituito dal mezzo di trasporto utilizzato dal lavoratore. Posto che non vi è dubbio che la tutela sia sempre dovuta se il dipendente si sia servito del servizio di trasporto pubblico per recarsi (tramite il percorso più breve ed ottimale) in azienda (ovvero vi si sia recato a piedi), margini di maggior incertezza sussistono con riferimento a mezzi di trasporto propri.

Come anticipato, il D.P.R. n. 1124/1965 richiede, ai fini della copertura, che l’utilizzo di un veicolo privato sia da intendersi “necessitato”. Occorre, tuttavia, considerare come, nell’interpretazione del dettato legislativo, la giurisprudenza di legittimità abbia inteso ampliare le maglie della tutela, abbracciando una lettura non particolarmente restrittiva del presupposto. Premesso che, con il termine “necessitato”, il legislatore parrebbe aver preso in considerazione la circostanza per la quale “non sussista altra agevole e meno rischiosa soluzione (in particolare attraverso l’utilizzo di mezzi pubblici che comporta un minore grado di esposizione al rischio della strada)”, la Suprema Corte ha chiarito che il requisito della necessità “non deve essere inteso in senso assoluto”, essendo, invero, sufficiente una mera necessità relativa, “ossia emergente anche attraverso i molteplici fattori, non definibili in astratto, che condizionano la scelta del mezzo privato rispetto a quello pubblico (esigenze personali e familiari, altri interessi meritevoli di tutela)” (cfr., in tal senso, Cassazione, sentenza n. 16835 del 7 luglio 2017).

Peraltro, lo stesso Inail, sulla scorta degli orientamenti giurisprudenziali, ha provveduto a riassumere, con le proprie “pillole informative” del 12 settembre 2016, i casi espliciti in cui l’uso del mezzo privato può ritenersi necessitato e, nello specifico:

• quando il mezzo è fornito o prescritto dal datore di lavoro per esigenze lavorative;

• quando il luogo di lavoro è irraggiungibile con i mezzi pubblici oppure è raggiungibile ma non in tempo utile rispetto al turno di lavoro;

• quando i mezzi pubblici obbligano ad attese eccessivamente lunghe;

• quando i mezzi pubblici comportano un rilevante dispendio di tempo rispetto all’utilizzo del mezzo privato;

• quando la distanza della più vicina fermata del mezzo pubblico, dal luogo di abitazione o dal luogo di lavoro, deve essere percorsa a piedi ed è eccessivamente lunga.

Non sono, in ogni caso, assenti precedenti nell’ambito dei quali la giurisprudenza parrebbe aver interpretato il requisito della necessità in maniera quanto mai rigorosa. Si segnala, in particolar modo, la sentenza n. 995 del 17 gennaio 2007, per mezzo della quale la Corte di cassazione ha provveduto a negare qualsivoglia indennizzo (rilevando l’assenza della richiamata necessità) in un caso in cui un dipendente avrebbe impiegato, servendosi del servizio pubblico, circa un’ora per raggiungere il luogo di lavoro, mentre, con il proprio autoveicolo, percorreva lo stesso tratto in circa venti minuti. Ebbene, nonostante una simile differenza temporale, il supremo giudice ha ritenuto che la scelta sul mezzo operata dal soggetto sarebbe dipesa esclusivamente dalla volontà di conciliare “le esigenze del lavoro con quelle familiari” (posto l’indiscusso maggior tempo disponibile derivante dallo spostamento più veloce) e, con ciò, detta situazione, ancorché legata ad aspettative “legittime per accreditare condotte di vita quotidiana improntate a maggior comodità o a minori disagi”, non avrebbe assunto uno spessore sociale tale “da giustificare un intervento a carattere solidaristico a carico della collettività” qual è l’indennizzo Inail.

Pertinenze e aree comuni: la nota Inail del 12 gennaio 2004

Con riferimento alla specifica linea di demarcazione tra l’area geografica da intendersi “luogo di lavoro” e il tragitto per recarvisi, è intervenuto, nel silenzio della legge sul punto, lo stesso Inail. L’istituto, in particolare, ha provveduto a chiarire, con nota del 12 gennaio 2004 (Istruzione operativa del 12 gennaio 2004 – “Infortunio in itinere. Limiti spaziali del percorso tutelato”), se l’infortunio verificatosi nelle pertinenze o nelle aree comuni del luogo di lavoro debba intendersi occorso in itinere ovvero rappresenti un infortunio sul lavoro a tutti gli effetti. Allo stesso tempo, l’ente ha, altresì, chiarito se le pertinenze o le aree comuni dell’abitazione del lavoratore debbano già intendersi parte del tragitto per recarsi in azienda e se, quindi, siano coperte dalla tutela prevista per l’infortunio in itinere.

Nello specifico, riguardo al primo profilo e richiamando la pronuncia della Cassazione n. 5837/2001, l’Inail ha affermato che non v’è dubbio che il sinistro verificatosi nelle pertinenze e nelle aree comuni dell’azienda (con ciò intendendosi, ad esempio, i pianerottoli, le scale, i cortili, i viali, le strade interne, ecc.) “sia tutelabile e che vada inquadrato non come infortunio in itinere bensì come infortunio accaduto in attualità di lavoro”, sulla base del concetto di “confine dell’ambito aziendale” ricavabile dalla “vasta accezione di cui all’art. 1, D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124”. Rispetto, invece, alle pertinenze (o aree comuni) dell’abitazione del lavoratore, le conclusioni sono del tutto diverse. Occorre, sulla base della nota in oggetto, effettuare dei distinguo:

• è esclusa la tutela antinfortunistica se l’evento sia avvenuto “entro l’ambito domestico, inteso come comprensivo delle pertinenze dell’abitazione e delle parti condominiali (pianerottoli, scale, cortili, viali, strade interne o, comunque, riservate all’uso esclusivo di privati proprietari, ecc.)”;

• è ammessa la tutela antinfortunistica se l’evento sia avvenuto nelle strade che, seppur di proprietà privata, siano “destinate a soddisfare le esigenze di una comunità indifferenziata” e siano, perciò, “aperte al traffico di un numero indeterminato di veicoli”.

Utilizzo della bicicletta ed infortunio in itinere: la legge n. 221/2015

Premesso il quadro generale sopra descritto, giova, da ultimo, trattare l’ulteriore tema (frequentemente oggetto di discussione) circa la configurabilità dell’infortunio in itinere ove il soggetto danneggiato si rechi in azienda per mezzo di un velocipede. Ebbene, ad oggi non parrebbe sussistere più alcun dubbio interpretativo in tal senso, posto che il legislatore è recentemente intervenuto sul punto.

Invero, con l’approvazione del c.d. “Collegato ambientale”, ossia della legge 28 dicembre 2015, n. 221 (recante “Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali”), tra le altre misure è stato introdotto un periodo aggiuntivo all’art. 2, comma 3, D.P.R. n. 1124/1965, al fine di incentivare la mobilità sostenibile, per il quale “l’uso del velocipede… deve, per i positivi riflessi ambientali, intendersi sempre necessitato” (legge n. 221/2015, art. 5, comma 4).

Deve, con ciò, intendersi che, ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio occorso con tale mezzo, non è richiesta alcuna prova in ordine alla relativa necessità e, quindi, risultano del tutto insussistenti i limiti di cui all’uso di un proprio veicolo sopra richiamati. Occorre, ad ogni modo, specificare che rientrano nella nozione di velocipede i veicoli “con due ruote o più ruote funzionanti a propulsione esclusivamente muscolare, per mezzo di pedali o di analoghi dispositivi, azionati dalle persone che si trovano sul veicolo”, nonché, altresì, “le biciclette a pedalata assistita, dotate di un motore ausiliario elettrico avente potenza nominale continua massima di 0,25 KW”; in ogni caso, in entrambe le ipotesi le dimensioni del velocipede non possono “superare 1,30 m di larghezza, 3 m di lunghezza e 2,20 m di altezza” (vedasi, in tal senso, la definizione di cui all’art. 50, D.Lgs. n. 285/1992). Peraltro, in seguito all’approvazione del decreto citato, lo stesso Inail ha provveduto a chiarire, per mezzo della circolare n. 14 del 25 marzo 2016, che la specifica ipotesi dell’utilizzo della bicicletta deve intendersi pienamente equiparabile, in termini di indennizzo, “a quello del mezzo pubblico o al percorso a piedi”. Ciò vale, fermo restando che, tuttavia, la tutela va comunque esclusa nel caso in cui, “la qualificazione dell’elemento soggettivo del lavoratore debba essere definito in termini di rischio elettivo e non di colpa” (cfr., ancora, Inail, circolare n. 14/2016).

La sentenza della Cassazione n. 21516/2018

Orbene, con la recente pronuncia n. 21516 del 31 agosto 2018, la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di intervenire su tale specifico tema, nell’ambito di una controversia, invero, precedente rispetto all’entrata in vigore della legge n. 221/2015, dichiarando, in ogni caso, del tutto “necessitato” l’utilizzo del velocipede. Infatti, al netto del successivo intervento legislativo, la valutazione sulla necessità della bicicletta privata avrebbe potuto, a dire del giudice, essere compiuta in senso relativo, con particolare riferimento “al costume sociale, anche per assicurare un più intenso rapporto con la comunità familiare, e per tutelare l’esigenza di raggiungere in modo riposato e disteso i luoghi di lavoro in funzione di una maggiore gratificazione dell’attività ivi svolta”.

Peraltro, in sede di giudizio di merito, la Corte d’Appello aveva erroneamente ritenuto che, in considerazione delle condizioni fisiche e di salute del lavoratore che ne rendevano la deambulazione particolarmente faticosa e scarsamente tollerata, tale scelta non avrebbe potuto dirsi necessitata. Cassando con rinvio la sentenza di secondo grado, la Suprema Corte ha, per di più, posto l’accento sul fatto che era stata offerta prova dell’impossibilità di percorrere il tragitto da casa a lavoro a piedi e, in assenza della dimostrazione di un rischio elettivo, il giudice di merito non avrebbe potuto che pronunciarsi a favore del riconoscimento di una tutela per il lavoratore.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA