Come è noto, a norma dell’articolo 42, comma 5 del Decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, il lavoratore che conviva con un soggetto con handicap in situazione di gravità di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (ossia un soggetto con una minorazione, singola o plurima, che ne abbia ridotto l’autonomia personale “in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione”), gode, tra gli altri, del diritto di fruire di un periodo di congedo (continuativo o frazionato) sino ad un massimo di due anni. Trattasi nello specifico, del c.d. “congedo per eventi e cause particolari” specificatamente disciplinato dalla Legge 8 marzo 2000, n. 43 (art. 4, comma 2). Peraltro, la Corte costituzionale è intervenuta a più riprese ad ampliare progressivamente l’ambito di applicazione soggettivo della misura, estendendo, in particolare, il diritto al congedo al figlio convivente con genitore in situazione di disabilità grave (vedasi, in tal senso, Corte costituzionale, sentenza n. 19 del 26 gennaio 2009).
Orbene, oltre alla previsione del richiamato beneficio, il comma in questione prescrive – del tutto genericamente – che, nel corso della fruizione, “il dipendente conserva il posto di lavoro”. Occorre, con ciò, interrogarsi sull’effettiva portata da attribuire a detta garanzia, in base all’interpretazione operata dalla Cassazione in sede di giudizio di legittimità. Può il datore di lavoro, che veda un lavoratore alle proprie dipendenze avvalersi del diritto di cui sopra, ritenersi completamente privato della facoltà di comminare un provvedimento espulsivo? Il lavoratore conserva tout court il proprio posto di lavoro anche al netto di possibili ragioni oggettive che rendano necessaria una riduzione del personale?
A tali questioni, ha offerto una soluzione la recentissima pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (Sezione Lavoro), n. 5425 del 25 febbraio 2019.
Nella controversia in questione, un dipendente di una società di costruzioni fruiva di un periodo di congedo straordinario ex L. 43/2000, ai fini dell’assistenza al padre (convivente) disabile. Durante il periodo de quo, in ragione della situazione economica dell’impresa, la società datrice di lavoro aveva comminato il recesso al dipendente, all’esito di una procedura di licenziamento collettivo ex Legge n. 223 del 1991. Il lavoratore provvedeva, dunque, all’impugnazione dell’allontanamento (asserendone la nullità) in quanto – a suo dire – avvenuto nonostante un espresso divieto di licenziamento disciplinato dalla legge e, in particolare, del diritto alla conservazione del posto ex art. 4, co. 2, L. 43/2000. Va detto, infatti, che il c.d. Statuto dei Lavoratori (Legge 20 maggio 1970, n. 300) prescrive, all’art. 18, comma 1, la sanzione della nullità del recesso in tutti i casi in cui lo stesso venga intimato “in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54 commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge”, con conseguente reintegra nel posto di lavoro.
Le corti di merito si pronunciavano a favore del datore di lavoro e – investita della questione – la Suprema Corte ha confermato la bontà delle relative decisioni. Infatti, stando alla pronuncia in commento, nel prevedere il diritto alla conservazione del posto in favore del lavoratore per l’ipotesi de quo, il Legislatore avrebbe inteso unicamente tutelarlo avverso possibili provvedimenti espulsivi comminati (proprio) in ragione della fruizione del congedo e non anche, in generale, da qualsivoglia motivo. E, quindi, il divieto di licenziamento richiamato non opera allorquando, a prescindere dalla scelta del dipendente di avvalersi dei diritti ex L. 43/2000, si rilevi la sussistenza di una “causa, diversa e legittima, di risoluzione del rapporto di lavoro” che, nel caso di specie, coincide con le ragioni oggettive fondanti il recesso collettivo (cfr., ancora, Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 5425 del 25 febbraio 2019).
Non può, a ben vedere, infirmarsi il potere datoriale in tal senso. Ciò poiché la disposizione in questione, continua la Corte, “non esprime limitazioni al legittimo potere di recesso” ma è finalizzata, esclusivamente, “a garantire al lavoratore un trattamento economico e assistenziale” – analogamente a quanto avviene per la malattia – “per il periodo di assistenza al congiunto inabile”. Ciò premesso, si è anche aggiunto che la fruizione del congedo “non rende insensibile il rapporto di lavoro ai fatti estintivi previsti dalla legge”; tuttavia ciò vale eventualmente con riferimento ad un altro ordine di conseguenze, ossia l’ipotetica questione circa la sospensione degli effetti di tali fatti (nel caso de quo il licenziamento) “fino al termine del congedo medesimo”.