La mancata indicazione delle causali fa scattare la nullità del contratto di somministrazione a termine. Dopo il decreto sul lavoro 87/2018, che ha reintrodotto le causali, questa conseguenza riguarda solo i contratti di durata superiore a 12 mesi. Ma essendo tornati – comunque – alla disciplina “previgente”, può avere rilevanza in via interpretativa esaminare la linea dettata dalla giurisprudenza, anche in sentenze riferite a rapporti regolati dalle norme antecedenti al Jobs act.

Il ricorso alla somministrazione di lavoro a tempo determinato è una scelta sempre più frequente da parte delle imprese, sia per la flessibilità che la caratterizza, sia per la relativa idoneità a offrire soluzioni adattabili all’andamento economico dell’azienda nel tempo. È tuttavia un’ipotesi che l’ordinamento ammette con particolari cautele.

L’imprenditore “utilizzatore” che intende avvalersi, per un periodo determinato, di prestatori di lavoro assunti con contratto di somministrazione, deve indicare nel contratto – e in modo esplicito – le motivazioni che ne giustifichino la temporaneità. È un orientamento oramai consolidato della giurisprudenza di legittimità e che trova, da ultimo, un’ulteriore conferma nelle pronunce della Corte di Cassazione 2024 del 24 gennaio 2019e 197 dell’8 gennaio 2019.

Infatti, come previsto dall’articolo 20 del Dlgs 276/2003, ancora applicabile nei casi oggetto di pronuncia, la somministrazione di lavoro a termine è ammessa dall’ordinamento esclusivamente se sopraggiungano «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore», che, appunto, devono trovare un’indicazione per iscritto. Anche con gli ultimi interventi normativi, il legislatore ha confermato la necessità di una causale specifica, seppur limitata ai contratti con durata superiore a 12 mesi (Dl 87/2018).

Stando ai rilievi della Cassazione e in base alla disposizione dell’articolo 21 del Dlgs 276/2003, la naturale conseguenza giuridica della mancata indicazione delle causali nel contratto di somministrazione a tempo determinato non può che essere rappresentata dalla nullità del contratto stipulato, come nell’ipotesi di un difetto assoluto di forma scritta.

Non è in alcun modo possibile per l’utilizzatore riservarsi di provare la sussistenza dei motivi tecnico-produttivi in un secondo momento – ed, eventualmente, all’atto dell’instaurazione di un giudizio da parte del lavoratore – posto che, come correttamente affermato dal giudice di legittimità, «ammettere che il contratto di somministrazione possa tacere, puramente e semplicemente, le ragioni della somministrazione» per un periodo limitato di tempo, «riservandosi di enunciarle solo a posteriori in ragione della convenienza del momento», vanificherebbe del tutto la portata delle disposizioni richiamate (si veda, ancora, la sentenza della Cassazione 197/2019). Il giudice di merito, al quale compete la valutazione sulla «sussistenza in concreto delle ragioni» (Cassazione, sentenza 2024/2019), vedrebbe così completamente infirmata la propria possibilità di verifica.

È illegittima anche la scelta di individuare le causali in contratto in maniera generica (o comunque non intelligibile). La causale deve essere specifica, riferirsi a elementi fattuali suscettibili di un idoneo riscontro ed evidenziare, «onde consentire lo scrutinio in sede giudiziaria, il collegamento tra la previsione astratta e la situazione concreta» (si veda la sentenza della Cassazione 8021/2013). Non è consentito, in altri termini, riprendere testualmente – e all’interno del contratto – la generica dicitura prevista dalla legge e affermarne la sussistenza o servirsi di affermazioni a carattere tautologico.

Inoltre, le ragioni tecnico-produttive o organizzative che legittimano il ricorso alla somministrazione a termine devono godere di una particolare attinenza ed essere ancorate alla natura delle mansioni e delle incombenze richieste al lavoratore. Anche questa verifica, per costante giurisprudenza, è rimessa a un accertamento concreto a opera del giudice (si veda la sentenza della Cassazione 20556/2018).

Contributo pubblicato su “IL SOLE 24 ORE”