Il patto di prova è una condizione alla cui buona riuscita si subordina il perfezionamento della assunzione del lavoratore. La ratio di tale elemento accidentale del contratto – che, in quanto tale, presenta le caratteristiche tipiche del termine e della condizione – è quello di far valutare ad entrambe le parti la convenienza del proseguire il rapporto di lavoro: durante il periodo di prova, il datore ha la possibilità di valutare le capacità del lavoratore, mentre quest’ultimo può valutare l’ambiente dell’azienda e scegliere se proseguirvi la propria carriera o meno. Dottrina minoritaria, tuttavia, preferisce intendere il patto di prova come una mera condizione di libera recedibilità delle parti, senza preavvisi né motivazioni.

In costanza di periodo di prova, il lavoratore sarà trattato, dal punto di vista economico, come se durante il perdurare di esso l’attività prestata abbia integrato un rapporto di lavoro vero e proprio: esso gli sarà conteggiato ai fini del calcolo di anzianità, nonché alla liquidazione del Tfr maturato fino ad allora; a tal fine, faranno parte del conteggio anche le ferie ed i permessi non usufruiti o le indennità di cui è creditore.

Le norme

All’interno del Codice civile, il riferimento a detto istituto è riscontrabile nell’articolo 2069, rubricato “assunzione in prova”, il quale prevede che “l’assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare da atto scritto. L’imprenditore e il prestatore di lavoro sono rispettivamente tenuti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova”. Nel definire le caratteristiche dell’assunzione in prova, l’art. 2096 c.c. continua specificando la natura tendenzialmente libera di detto istituto, che lascia ad entrambe le parti la possibilità di recedere dall’accordo in tal senso concluso, senza che ciò comporti nessun tipo di obbligo (“Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità” – co. II).

Per quanto riguarda la durata, essa, in coerenza con la natura dell’istituto, non è definita in misura specifica: sarà il Ccnl di riferimento per ciascuna categoria di lavoratori ad istituirne una massima (che generalmente si aggira intorno ai sei mesi), accertandosi della sua adeguatezza, affinché il lavoratore riesca a portare a termine le mansioni affidategli nel patto di prova. Sebbene essa possa essere diminuita su accordo delle parti, un suo aumento sarebbe da escludersi, se non nel caso in cui l’attività posta in essere dal dipendente sia particolarmente complessa, e dunque richieda più tempo perché egli riesca a dimostrare di essere in grado di adempiervi con successo. Nel caso in cui invece datore e lavoratore si accordino per una durata minima del periodo di prova, l’art. 2096 c.c. dispone che “la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del [suo] termine”. A riprova della tutela che tramite il periodo di prova viene apprestata nei riguardi del lavoratore, è sempre l’art. 2069 c.c. a prevedere che, una volta “compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità del prestatore di lavoro”. Tale chiusura, per come redatta ad oggi, è frutto di una modifica apportata dalla Corte Costituzionale, che con sentenza n. 189/1980 statuiva che la formula precedente fosse illegittima nella parte in cui non riconosceva al lavoratore l’indennità di anzianità per tutto il periodo di prova, che dunque non figurava come momento di prestazione dell’attività laddove questi avesse fatto ricorso al recesso dal contratto durante il periodo di prova stesso.

In un secondo articolo inerente alla materia in esame (2241 c.c.), rubricato “periodo di prova”, si precisa che esso sia automaticamente presunto per gli otto giorni iniziali del rapporto di lavoro, in deroga alla necessità del patto scritto. Pertanto, durante detto periodo, valgono le regole specifiche di questo istituto, potendo le parti recedere senza dover rispettare le formalità del licenziamento o del recesso ex art. 18, Stat. lav. o legge n. 604/1966.

Caratteristiche del patto di prova

Ambito di applicazione

Oltre che al rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il patto di prova può applicarsi anche a quello a termine. Limitatamente a questo caso, laddove la previsione della sua durata non sia indicata nel Ccnl di riferimento, essa può essere calcolata in base alla estensione del tempo determinato: in ogni caso, il periodo di prova non può mai avere durata maggiore o uguale all’estensione del contratto a termine stesso. Ancora, la clausola del patto di prova può essere allegata ai contratti part-time (proporzionalmente all’orario di lavoro), di apprendistato, nonché nella formazione lavoro e nel collocamento obbligatorio.

Requisiti sostanziali

Il patto di prova deve presentarsi in forma scritta, in un momento antecedente o al massimo contestuale rispetto alla conclusione del contratto di lavoro cui si allega: è nullo se ciò avviene successivamente all’inizio del vincolo lavorativo (Tribunale Velletri, sez. lavoro, 6 dicembre 2018). Nel patto di prova devono essere indicate con precisione le mansioni affidate al lavoratore, il ruolo che questi andrà a ricoprire, nonché la durata del periodo di prova stesso. Ovviamente, perché sia valido, è necessaria la sua sottoscrizione da parte di tutti i soggetti coinvolti.

La scadenza del periodo di prova

Raggiunto il termine previsto, se nessuno esprime volontà di recedere, la prova si ritiene automaticamente superata, ed il contratto prosegue in via definitiva, senza che sia necessario provvedere ad alcuna formalità in tal senso. Se, invece, le parti scelgono la via del recesso/licenziamento, per nessuna delle due sono previsti oneri di alcun tipo: il datore non dovrà fornire né preavviso, né giusta causa (integrando, così, un caso di licenziamento ad nutum); mentre il lavoratore non dovrà neppure presentare le proprie dimissioni online (come da normativa): basterà una apposita lettera al datore, per renderlo edotto su tale decisione.

Nullità del patto di prova

Violazione della forma scritta

Una prima nullità del patto di prova è integrata laddove esso, superato il periodo della presunzione ex art. 2241 c.c., non venga redatto in forma scritta.

Superamento del limite temporale massimo

Ancora, è nullo il patto di prova che preveda la propria estensione per un periodo superiore a quelli previsti dal Ccnl di riferimento o al quale vengano applicate condizioni di carattere temporale che non siano state approvate da entrambe le parti coinvolte. (Suprema Corte, Sent. n. 16806 del 29 luglio 2011).

Riproposizione di nuovo patto fra le stesse parti

Un caso particolare di nullità è quello che si verifica nel momento in cui venga sottoscritto un patto di prova fra due soggetti già precedentemente coinvolti in un rapporto di lavoro: a questo punto, è lecito presumere che il datore sia già (se non pienamente, almeno in parte) a conoscenza delle qualità e delle attitudini lavorative del prestatore in prova, non potendosi così esplicare la finalità originale dell’istituto – che resta quella, per le due parti, di stabilire, attraverso un periodo di collaborazione, se essa presenti caratteristiche idonee a diventare definitiva.

In tal senso si è espressa anche la Corte di Appello di L’Aquila, in una sentenza del 2011 (n. 798), impugnata di fronte alla Suprema Corte (la quale ha poi rigettato il ricorso), confermando la pronuncia impugnata con la quale la Corte di merito aveva correttamente ritenuto la nullità del patto di prova. È comunque opportuno sottolineare che tale tipologia di nullità non trova sempre diretta applicazione: il periodo di prova, infatti, può ancora essere produttivo di effetti anche laddove, nonostante sia già intercorso un rapporto lavorativo, esso non possa, tuttavia, più dirsi sufficiente a che l’obiettivo dell’istituto possa essere soddisfatto: è possibile, infatti, che in taluni casi una eventuale collaborazione futura integri una differenza quantitativa e qualitativa delle mansioni, e che i contratti di lavoro in cui esse erano delineate precedentemente presentino diversa natura, proprio perché succedutisi nel tempo. Quando, dunque, sia riscontrabile una considerevole variazione dei suoi presupposti, la reiterazione del periodo di prova non presenta elementi di nullità.

Ed ancora, la Suprema Corte ha recentemente chiarito un punto interessante sul tema in argomento, chiarendo che il patto di prova non cada nel buco nero della nullità neppure quando non solo le parti, ma anche le mansioni siano le stesse di un precedente patto, nel caso in cui “oltre alle qualità professionali del lavoratore, devono essere verificati anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione, trattandosi di elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per molteplici fattori, attinenti alle abitudini di vita o a problemi di salute” (Cfr. Cass. n. 15059/2015).

Sulla stessa scia si colloca la sentenza n. 8934/2015 della Suprema Corte, in cui si chiarisce che, ai fini della validità del patto di prova nell’ambito di un nuovo rapporto di lavoro, non rileva che in precedenza, fra le stesse parti, sia già intercorsa una collaborazione di diversa natura sia per quanto riguarda le ore di attività effettivamente prestata e, di conseguenza, il tipo di servizio offerto. Nel caso specifico, quello che precedentemente era un medico dipendente, veniva ora assunto come dirigente presso una AUSL; questi sosteneva che il licenziamento intimatogli per non superamento della prova non avesse validità, proprio in forza della precedente collaborazione. La Suprema Corte, nel respingere il ricorso, ha chiarito che non si trattava di una mera ripetizione di periodo di prova, essendo le mansioni, nel più recente caso, affidate al medico dirigente certamente diverse da quelle oggetto del precedente periodo, “non essendo comparabili con il complesso degli obblighi facenti capo al dirigente inserito stabilmente e a tempo indeterminato con diversità di responsabilità e con funzione di coordinamento”.

Ancora una volta, dunque, sembra che la Corte conferisca una maggiore importanza al contenuto del patto di prova, ed alle qualità sia del datore che del lavoratore, rinforzando più l’elemento contenutistico che quello formale.

Assenza di indicazioni specifiche sulle mansioni

La nullità del periodo di prova può essere integrata anche nel caso in cui il corrispondente patto preveda determinate mansioni, o comunque inquadri il dipendente in una certa area di competenza, per poi imporgli un lavoro pratico ben lontano dalle predette descrizioni. In tal caso, essendo incapace il prestatore, data l’attività richiestagli, di dimostrare le proprie capacità nel lavoro per il quale avrebbe dovuto essere in realtà assunto, il patto si definisce nullo: il contratto di lavoro supera la clausola del patto di prova e si instaura un rapporto definitivo, con tutte le conseguenze del caso (cfr. giurisprudenza analizzata infra).

In tutti i casi di nullità del patto di prova, esso, considerato al pari di una clausola accessoria, deve considerarsi tamquam non esset, così da lasciare intatte le restanti parti del contratto, che prosegue nella sua validità.

Sospensione del periodo di prova

Nel computo dei giorni ai fini della determinazione della totalità del periodo di prova, non devono essere considerati i riposi settimanali, a meno che ciò non sia previsto dalla contrattazione collettiva. A tal riguardo, occorre premettere che la giurisprudenza della Suprema Corte è prevalentemente orientata nel senso di ritenere che il decorso di un periodo di prova determinato, nella misura di un complessivo arco temporale, debba ritenersi sospeso – in quanto preclude alle parti, sia pure temporaneamente, la sperimentazione della reciproca convenienza del contratto di lavoro, che costituisce la causa del patto di prova – in relazione ai giorni in cui la prestazione non si è verificata per eventi non prevedibili al momento della stipulazione del patto stesso quali: la malattia, l’infortunio, la gravidanza e il puerperio, i permessi, lo sciopero, la sospensione dell’attività del datore di lavoro e il godimento delle ferie annuali; quest’ultimo caso, data la funzione di consentire al lavoratore il recupero delle energie lavorative dopo un cospicuo periodo di attività, non si verifica di norma nel corso del periodo di prova (Cassazione, 5 novembre 2007 n. 23061; Cassazione, 13 settembre 2006 n. 19558). Tale principio, tuttavia, trova applicazione solo in quanto non sia diversamente previsto dallacontrattazione collettiva, la quale può attribuire rilevanza sospensiva del periodo di prova in forza di dati eventi che si verifichino in sua pendenza.

A riprova di quanto appena elencato, appare opportuno citare il contenuto di una sentenza del Tribunale di Milano del 2017 (la n. 1097), in riferimento al particolarissimo caso in cui le ferie (di norma idonee a sospendere il periodo di prova), nel complesso di un arco temporale abbastanza lungo, siano imposte dal datore di lavoro.

Quid circa la sospensione? La Suprema Corte si è espressa in questo senso, affermando che, anche nel caso in cui le ferie siano imposte dal datore, esse valgono comunque a sospendere il periodo di prova; la motivazione giace nella natura stessa del patto, che serve alle parti coinvolte per valutare la convenienza l’una dell’altra alla conclusione di un rapporto di lavoro che si protragga nel tempo; nel periodo di ferie, ancorché ingiunto dal datore, ciò comunque non avviene, data l’assenza del lavoratore.

Le tutele nei casi di licenziamento

Nel caso in cui il datore di lavoro intimi il licenziamento al prestatore in prova, ed il relativo patto si riveli nullo, la disciplina a cui fare riferimento diventa quella ordinaria, ex legge n. 300/1970 o legge n. 604/1966, in base alle caratteristiche del caso specifico (cfr., tra le altre, Cass. civ., sez. lavoro, sentenze. n. 17358 del 3 luglio 2018; n. 16214 del 3 agosto 2016; n. 5811 del 26 maggio 1995).

A sostegno di quanto ora esposto, nonché in via chiarificatrice, ha agito la più recente sentenza della Suprema Corte (n. 31159/2018) che ha motivato in tale ambito. Preliminarmente in essa viene precisata la regola generale secondo cui si distingue il licenziamento che si verifichi in costanza di periodo di prova illegittimamente apposto al contratto di lavoro, da quella, fisiologica, in cui il patto di prova non presenti alcun vizio: “nel primo caso c’è la‘conversione’ (in senso atecnico) del rapporto in prova in rapporto ordinario (in realtà c’è la nullità parziale della clausola contenente il patto di prova, che non ridonda in nullità del contratto di lavoro) e trova applicazione, ricorrendo gli altri requisiti, il regime ordinario del licenziamento individuale […]; nel secondo caso (e solo in questo) c’è lo speciale regime del recesso in periodo di prova, frutto so
prattutto di elaborazione giurisprudenziale, che per più versi si discosta dalla disciplina ordinaria del licenziamento individuale”.

Successivamente, la Suprema Corte specifica i caratteri del caso in esame, di maggiore peculiarità rispetto alle norme generali. Nello specifico, infatti, il patto di prova era stato correttamente considerato nullo dalla Corte territoriale poiché le mansioni in esso previste non corrispondevano a quelle effettivamente esperite dal lavoratore in prova. Ciò ha generato non un vizio genetico del patto, che avrebbe richiesto l’applicazione della norma generale suesposta, bensì un vizio funzionale, “rappresentato, come nella specie, dalla non coincidenza delle mansioni espletate in concreto rispetto a quelle indicate nel patto di prova”.

In forza di ciò, la Suprema Corte continua precisando che: “in costanza di un valido patto di prova, la mancata corretta esecuzione del medesimo, svolgendo i suoi effetti sul piano dell’inadempimento senza generare una nullità non prevista, non determina automaticamente la ‘conversione’ in un rapporto a tempo indeterminato bensì, come ogni altro inadempimento, la richiesta del creditore di esecuzione del patto ove possibile – ovvero di risarcimento del danno; eventualmente la circostanza fattuale dell’adibizione a mansioni diverse da quelle previste dalla prova può costituire, unitamente ad altri elementi, il sintomo di una ragione della risoluzione estranea all’esperimento, ma in tal caso dovrà essere il lavoratore ad allegare e provare il motivo illecito ed avanzare la specifica domanda, senza che la stessa possa dirsi proposta per la mera denuncia di difformità delle mansioni svolte rispetto a quelle oggetto dell’esperimento”. Stando così le cose, “il lavoratore avrà esclusivamente diritto al ristoro del pregiudizio sofferto; pertanto una volta accertata l’illegittimità del recesso stesso consegue – anche laddove sussistano i requisiti numerici – che non si applicano la legge n. 604/1966 o l’art. 18 legge n. 300/1970, ma si ha unicamente la prosecuzione – ove possibile della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato oppure il risarcimento del danno, non comportando la dichiarazione di illegittimità del recesso nel periodo di prova che il rapporto di lavoro debba essere ormai considerato come stabilmente costituito”.

La nullità del patto di prova nel sistema delle tutele crescenti

Com’è noto, l’avvento del c.d. “Jobs Act” ha modificato la precedente disciplina sul licenziamento, prevedendo la condanna del datore alla reintegra del lavoratore nei casi di illegittimo licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa di cui sia direttamente dimostrata l’insussistenza del fatto materiale contestato. Rispetto a questa novità, e segnatamente nei confronti del loro rapporto con l’istituto del patto di prova, la giurisprudenza di merito ha adottato scelte differenti. Alcune Corti, infatti, si sono mantenute favorevoli nei confronti della reintegra del dipendente licenziato in costanza di patto di prova; esse, infatti, hanno ravvisato in caso come questo l’assenza di una giusta causa o giustificato motivo soggettivo, la cui prova diretta scaturirebbe proprio dalla nullità del patto.

In forza delle recenti modifiche legislative, dunque, la tutela applicabile, secondo detto orientamento, sarebbe quella della reintegra nel posto di lavoro (cfr. Trib. Milano n. 2912/2016 e Trib. Torino n. 1501/2016). Altre Corti, invece, hanno colto nella novità legislativa uno spunto di cambiamento: è il caso della sentenza n. 730/2017 del Tribunale di Milano, con cui esso ha deciso di discostarsi dalle precedenti interpretazioni sul tema della Suprema Corte, proponendone una che ha escluso la possibilità di reintegra del lavoratore. Nella pronuncia citata si chiarisce che “il mancato superamento della prova di per sé non integra né presuppone necessariamente una condotta disciplinarmente rilevante. Deve quindi ritenersi che, in presenza di patto di prova nullo, il recesso motivato con riferimento al mancato superamento della prova sia da ritenere (meramente) ingiustificato, perché intimato fuori dall’area della libera recedibilità, trovando, quindi, applicazione la disposizione di cui all’art. 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015, che disciplina le ipotesi di licenziamento intimato in assenza di giusta causa o giustificato motivo oggettivo o soggettivo”.

In forza di quanto riportato, il Tribunale di Milano ha ritenuto inapplicabile la tutela reintegratoria divenuta ormai pacifica negli ultimi anni, statuendo l’estinzione del rapporto di lavoro e la condanna al risarcimento da parte del datore. I giudici del caso in esame sostengono che la tutela reintegratoria non si possa applicare se non nei casi di licenziamento disciplinare, nei casi di assenza di giustificato motivo soggettivo o nei casi in cui comunque si può dimostrare l’insussistenza del fatto materiale della giusta causa. Secondo la decisione del citato Tribunale, il mancato superamento della prova non si inserisce in alcun modo in queste ipotesi, e pertanto ad esso può essere applicata la sola disciplina risarcitoria.

Si tratta, comunque, di una posizione minoritaria, in un contesto in cui le Corti tendono a propendere per una tutela rafforzata a beneficio del lavoratore.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA