Per mezzo della recente sentenza n. 105 del 15 febbraio 2018 il Tribunale di Milano (sezione Lavoro) è intervenuto in tema di licenziamento per giusta causa, chiarendo, in particolare, la necessaria sussistenza, all’interno della contestazione disciplinare, di una ricostruzione compiuta e non generica dei fatti imputabili al lavoratore.
Nel caso di specie, un operaio addetto all’installazione di impianti elettrici e antincendio e assunto a tempo determinato, veniva licenziato per giusta causa dalla società di riferimento in seguito all’adozione di comportamenti, a dire del datore, sgarbati e incivili che erano risultati idonei, oltre che a “provocare la suscettibilità” (così come indicato dal datore all’interno della lettera di contestazione) degli altri dipendenti, a perdere parte della fiducia di un committente.
Orbene, il giudice ha, in primo luogo, avuto modo di rilevare come la predetta lettera residuasse di un alto grado di genericità e, in quanto tale, “inidonea a fondare il recesso dal rapporto”. Il datore, infatti, aveva omesso qualsivoglia riferimento al luogo e alla data delle pretese mancanze, né aveva adeguatamente descritto quali fossero, nello specifico, i comportamenti sgarbati e maleducati fondanti il licenziamento, astenendosi, altresì, dall’individuare precisamente le vittime di tali condotte e, in particolare, della committente pretesamente insoddisfatta. L’assenza delle richiamate condizioni si sarebbe prestata, a dire del Tribunale, a ledere – o quanto meno a limitare – il diritto di difesa del lavoratore. Invero, già in diverse occasioni la giurisprudenza – anche di legittimità – ha affermato l’esigenza di precisione delle contestazioni. In particolare, con la recente pronuncia n. 19103 del 2017, la Suprema Corte di Cassazione ha richiesto, ai fini della bontà del recesso, un preventivo addebito disciplinare caratterizzato da “specificità, immediatezza e immutabilità” (da intendersi quest’ultima come l’impossibilità di una successiva modifica o sostituzione dei fatti addebitati; si legga, in questo senso, Cassazione, sentenza n. 2574 del 1992), negando, peraltro, che tali requisiti possano dirsi integrati dal mero richiamo a fatti, come nel caso di specie, “privi di collocazione temporale e riferiti a terzi non meglio specificati”. Per poter esercitare compiutamente il proprio diritto di difesa, infatti, il lavoratore dev’essere posto nella condizione di individuare le condotte allo stesso riferibili, “definite nelle modalità essenziali”, e, con ciò, essere in grado – almeno astrattamente – di discolparsi. La stessa giurisprudenza riscontra, invero, nell’art. 7 della Legge n. 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori), ai sensi del quale, occorre precisare, “il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l’addebito e senza averlo sentito a sua difesa”, un principio garantista di fondo che imporrebbe una ricostruzione dei fatti sufficientemente analitica. Ciò premesso, sulla base dell’oramai unanime orientamento interpretativo, dette generiche contestazioni devono ritenersi affette dal vizio della nullità “per violazione di una norma imperativa di legge”, in quanto frutto di un illegittimo esercizio del potere disciplinare del titolare, a ciò conseguendo l’ulteriore illegittimità dell’eventuale provvedimento adottato, quale il licenziamento, e direttamente collegato ai fatti contenuti nelle stesse (in questo senso si leggano, a titolo meramente esemplificativo, Cassazione, sentenza n. 2206 del 1987, sentenza n. 5484 del 1985, sentenza n. 5876 del 1984, sentenza n. 2369 del 1982, nonché Pret. di Milano, sentenza del 5 gennaio 1988).
Con la sentenza in commento, per di più, il Tribunale si è, altresì, espresso con riferimento alla possibilità che il lavoratore, all’interno della propria lettera di giustificazioni, incorra in un’ammissione implicita dei comportamenti censurati. A dire del datore di lavoro, infatti, il dipendente avrebbe confessato gli addebiti mossi, affermando di “non” essersi “accorto di aver assunto tali atteggiamenti” durante la propria attività lavorativa e scusandosi “per aver tenuto involontariamente un comportamento contrario ai” propri “doveri”. Ebbene, riguardo a tale rilievo, il giudice ha ritenuto “del tutto fuorviante” l’affermazione datoriale, posto che alcun valore di tipo confessorio/ammissivo parrebbe potersi attribuire a delle scuse generiche, anche – e soprattutto – in considerazione del fatto che le stesse si riferiscano a condotte “nemmeno percepite dall’interessato”.
All’esposizione delle predette argomentazioni, è conseguita la dichiarazione di illegittimità del licenziamento per giusta causa comminato e, con ciò, la condanna al pagamento delle retribuzioni non corrisposte nel periodo di riferimento.