Il comportamento tenuto da alcuni datori di lavoro e oggetto di recenti pronunce della Suprema Corte di Cassazione è il risultato di pratiche speculative che condizionano la volontà del lavoratore ancor più in un momento di grave crisi sociale e occupazionale, come quello che stiamo vivendo oggi.
La condotta sopra citata si concretizza nell’imporre di fatto al lavoratore di accettare condizioni di lavoro deteriori a fronte della minaccia di licenziamento.
Misure di salvaguardia
Il Legislatore ha cercato di ridurre lo squilibrio che sussiste tra il potere contrattuale riconosciuto al datore di lavoro, e quello riconosciuto al lavoratore subordinato, introducendo nell’Ordinamento delle tutele nei confronti della libertà e della dignità dei lavoratori.
Non sempre queste forme di tutela sono efficaci soprattutto quando i comportamenti illegittimi sfociano in condotte penalmente rilevanti. In realtà, spesso si tratta di lievi forme di sopraffazione che, talvolta, sfociano però in richieste del tutto inique quali imposizioni di orari di lavoro estremi, o nel mantenere condizioni di lavoro, di igiene e sicurezza non conformi ai minimi previsti dalla normativa vigente e adeguati all’attività svolta, condizioni che il lavoratore spesso si trova a dover subire per evitare il licenziamento, e quindi per evitare il concretizzarsi di un “danno ingiusto”.
In passato, solo una parte della giurisprudenza aveva tentato di inquadrare tali comportamenti datoriali nell’ambito dei reati, ma, negli ultimi anni, questa tendenza si è affermata in maniera decisiva.
Infatti, un consolidato orientamento giurisprudenziale, confermato anche di recente, qualifica estorsiva la condotta del datore di lavoro consistente nel prospettare ad alcuni suoi dipendenti la mancata assunzione, il licenziamento o la mancata corresponsione della retribuzione, nel caso in cui non avessero accettato le condizioni di lavoro loro imposte, ed in particolare costringendoli ad accettare condizioni di lavoro contrarie alla legge e alla contrattazione collettiva.
Orientamento della Cassazione
Orientamento ribadito dalla recente sentenza n. 3724/2022, depositata il 2 febbraio 2022, con la quale la Corte di Cassazione, sezione penale, è ritornata sull’accesa tematica, dichiarando nuovamente che integra il delitto di estorsione ex art. 629 c.p. la condotta del datore di lavoro che prospetta la perdita del lavoro per costringere i dipendenti ad accettare condizioni economiche non adeguate alle prestazioni dagli stessi effettuate: «commette il reato di estorsione il datore di lavoro che, approfittando della sua posizione di vantaggio rispetto al lavoratore, lo induca ad accettare condizioni inique e retribuzioni inadeguate sotto la minaccia, se pure celata, di licenziamento».
Nel caso specifico, i dipendenti svolgevano le proprie prestazioni ben oltre il limite orario previsto dal proprio contratto, svolgendo compiti non rientranti nelle loro mansioni, senza alcun riconoscimento economico neppure delle ore di lavoro svolte in più che arrivava anche a venti ore di lavoro giornaliere.
Si precisa che a seconda dei casi, il comportamento del datore di lavoro può costituire il reato di minaccia o quello più grave di estorsione. Il reato di minaccia scatta tutte le volte in cui il lavoratore viene intimorito di licenziamento e portato ad accettare ciò che gli viene chiesto dal datore di lavoro.
Minacciare il dipendente di licenziamento costituisce un abuso di potere da parte del datore di lavoro, che approfittando della sua naturale condizione di prevalenza sul dipendente e della condizione a lui favorevole del mercato del lavoro. Ci sono casi in cui la minaccia può sconfinare nel reato di estorsione.
Tale reato scatta quando la minaccia è finalizzata a trarre un ingiusto profitto ai danni del lavoratore è l’art. 629 c.p. che disciplina il reato di estorsione: «Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000. La pena è della reclusione da sette a venti anni e della multa da euro 5.000 a euro 15.000, se concorre taluna delle circostanze indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo precedente».
Affinché possa configurarsi tale fattispecie criminosa, l’elemento soggettivo richiesto è il dolo intenzionale, che «deve abbracciare tutti gli elementi della condotta e deve ricadere, in particolare, sull’ingiustizia del profitto: il soggetto agente deve cioè essere convinto che quello che spera di ottenere, tramite violenza o minaccia, sia un vantaggio non dovutogli e quindi ingiusto». Secondo la giurisprudenza costante, per violenza si deve intendere l’utilizzo della forza, cioè di un’energia fisica, al fine di vincere la resistenza altrui a fare quanto voluto dal soggetto agente. La minaccia che può integrare il delitto di estorsione è la prospettazione di un male futuro tale da determinare una pressione psicologica sulla vittima, o uno stato di condizionamento morale che poi induce quest’ultima a fare o non fare una determinata cosa.
L’elemento dell’ingiusto profitto si individua in qualsiasi vantaggio, non solo di tipo economico, che l’autore intenda conseguire, e che non si collega ad un diritto o è perseguito con uno strumento antigiuridico, o ancora con uno strumento legale ma avente uno scopo tipico diverso.
Estorsione nel mondo del lavoro
Dopo aver focalizzato i punti essenziali del reato di estorsione, si comprende come lo stesso, può ben essere imputato anche al datore di lavoro (a patto, ovviamente, che ne sussistano i presupposti: violenza o minaccia, ingiustizia del profitto, danno alla parte offesa).
Ciò premesso, operando un transfert di tali elementi nel mondo del lavoro, è lecito domandarsi: quando il comportamento del datore di lavoro integra la fattispecie penale del reato di estorsione?
Tale interrogativo rappresenta, senz’altro, una questione cardine. Ci si chiede, in altri termini, quando la minaccia di licenziamento può diventare estorsione e quali sono le conseguenze per il datore di lavoro. Procediamo con ordine. Come è ormai noto, il Codice penale parla di «azione commessa mediante minaccia o violenza».
Rientra senza dubbio nel concetto di minaccia, la specifica intimazione: “o fai quello che ti ho detto, oppure ti licenzio”.
Per correttezza espositiva, va detto fin da subito che con la recentissima pronuncia della Cassazione penale – sentenza n. 3724/2022, di cui meglio si specificherà in seguito – anche nel caso in cui le comunicazioni non contenessero un’espressa minaccia al licenziamento, sostituita, invece, dalla frase “è libero di andare via”, posta quale condizione alternativa al mancato rispetto delle imposizioni dal datore di lavoro – al pari quindi della prospettazione del licenziamento non può escludere la sussistenza della minaccia dell’estorsione.
In via generica è possibile affermare che secondo i Giudici di legittimità costituisce un comportamento estorsivo, ogni condotta del datore di lavoro che pur non dicendo esplicitamente “o fai questo o ti licenzio” lo lascia intendere, incutendo timore nei dipendenti in modo indiretto. Altro elemento cardine nella configurazione del reato di estorsione proiettato nel mondo del lavoro è la costrizione: il dipendente si vede obbligato a fare (o a non fare) quello che gli viene chiesto, anche se non è giusto, avendo ricevuto la minaccia del licenziamento. Infine, l’art. 629 c.p. parla di «ingiusto profitto con altrui danno».
Operando la consueta traslazione in ambito giuslavoristico, in questo caso, si può interpretare come il guadagno che il datore di lavoro ottiene dall’azione o dall’omissione ingiusta che ha preteso dal suo dipendente con la minaccia del licenziamento (a mero scopo esemplificativo, si precisa che le condizioni imposte riguardavano, in particolare, la sottoscrizione di una lettera di dimissioni in bianco, la corresponsione di una retribuzione inferiore a quella risultante dalla busta paga, il prolungamento non dichiarato dell’orario di lavoro, un aumento della produzione non riconosciuto economicamente al lavoratore, un abbassamento immotivato dello stipendio a parità di quantità di lavoro, ecc.).
Concludendo, nel caso di minaccia, per la sussistenza del reato si richiede solo che l’agente ponga in essere la condotta minatoria in senso generico; è sufficiente la sola attitudine della condotta stessa ad intimorire, considerato il potere concreto che il datore ha di incidere negativamente sulle condizioni lavorative del sottoposto; ed è irrilevante l’indeterminatezza del male minacciato purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente.
Per comprendere perché si parli con sempre maggiore incidenza di estorsione legata al mondo del lavoro, giova partire dalla massima di cui alla sentenza n. 1284/2011 della Corte di Cassazione, che ha dato inizio – unitamente a numerose successive pronunce concordanti – al consolidarsi di alcuni principi di diritto.
Principio cardine in tale materia rende possibile affermare, che si ravvisano gli estremi del reato di estorsione nella condotta del datore di lavoro che, «approfittando della situazione del mercato di lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell’offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, con la minaccia di licenziamento, ad accettare condizioni di lavoro inique e la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi».
La Corte di Cassazione, con la sentenza 2 febbraio 2022, n. 3724, annulla la decisione della Corte d’Appello dell’Aquila.
La Corte in primis rilevava come nel reato di estorsione, la scelta è sempre rimessa alla vittima, che però è consapevole che nell’ipotesi in cui optasse per una scelta non conforme a quanto prospettato dal soggetto attivo si troverebbe a doverne subire le conseguenze, che nel caso di specie sarebbero state quelle del licenziamento. In sostanza nell’estorsione il reato si compie sempre con la cooperazione della vittima, mediante la coartazione della sua volontà.
Da ciò discende che la rimessione al soggetto passivo della scelta della condotta da adottare non è considerazione cui poter fare ricorso al fine di escludere la sussistenza della minaccia e con essa dell’estorsione.
Conseguenze delle minacce sulla validità del contratto di lavoro
A questo punto è lecito domandarsi quali siano le sorti del contratto di lavoro posto in essere in attuazione di una pratica estorsiva, tale da prevedere condizioni inique ab origine per il lavoratore.
In passato la questione era dibattuta: secondo alcuni, la minaccia sarebbe una categoria della violenza morale, idonea a determinare l’annullabilità dell’accordo, ai sensi dell’art. 1435, c.c.; secondo altri, il contratto sarebbe affetto da nullità ex artt. 1343 e 1418 c.c.
Il più recente orientamento giurisprudenziale pone fine con estrema chiarezza al precedente contrasto. Nello specifico la Cassazione, con ordinanza n. 17568 del 31 maggio 2022, arriva ad affermare che il contratto stipulato per effetto del reato di estorsione è affetto da nullità ai sensi dell’art. 1418 c.c., rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, in conseguenza del suo contrasto con norma imperativa, dovendosi ravvisare una violazione di disposizioni di ordine pubblico in ragione delle esigenze d’interesse collettivo sottese alla tutela penale, in particolare l’inviolabilità del patrimonio e della libertà personale.
Pertanto, il contratto stipulato per effetto diretto del reato di estorsione è affetto da nullità. La nullità, com’è noto, rappresenta la più grave forma di invalidità prevista dal Codice civile. Si tratta di un vizio genetico del contratto, che nasce nullo, non lo diventa per sopravvenienza di circostanza. La nullità ha una disciplina legale in quanto tende a tutelare interessi considerati di ordine pubblico.
Un contratto nullo è privo di effetti, il giudice si limita ad accertare l’esistenza del relativo vizio con sentenza di mero accertamento, ha natura dichiarativa e non costitutiva.
La conseguenza del fatto che un contratto di lavoro sia dichiarato nullo lascia spazio all’accertamento giudiziale delle condizioni alle quali lo stesso sia stato svolto con relativo riconoscimento dei diritti che nello stesso non erano stati formalizzati e conseguente condanna di natura economica.
Nullità, annullabilità ed inefficacia del licenziamento
Ulteriore situazione prospettabile è quella della mera minaccia di licenziamento (integrante il reato di estorsione) che si tramuti nell’effettivo licenziamento del lavoratore. Pertanto, si discute della qualificazione di tale licenziamento sopravvenuto.
Con “licenziamento invalido” ci si riferisce ad un provvedimento espulsivo il cui vizio possa essere ricondotto alla nullità o annullabilità. Le ipotesi di nullità del licenziamento derivano per la maggior parte, da norme speciali che sono state inserite nel nostro Ordinamento per tutelare lavoratori in condizioni di particolare fragilità o per sanzionare recessi fondati su ragioni per lo più discriminatorie.
Il licenziamento è considerato nullo:
- se viene intimato a fronte di un divieto legale di licenziamento, in particolare per motivi discriminatori di razza, di opinioni politiche, di credo religioso, di sesso, di nazionalità, di partecipazione ad un sindacato; nei periodi di “non recedibilità” previsti dalla legge (maternità, congedo matrimoniale, ecc.);
- sulla base dei generali principi civilistici sulla nullità degli atti e dei contratti, quando il licenziamento è contrario a norme imperative di legge.
Peraltro, non v’è chi non veda come un licenziamento intimato all’esito di una condotta estorsiva e/o di una minaccia di un male ingiusto sia nullo con tutte le conseguenze di natura risarcitoria e le indennità previste per il caso concreto. Sotto altro punto di vista, sarà certamente censurabile dal punto di vista disciplinare la condotta del dirigente e/o del dipendente che in virtù del proprio potere gerarchico e disciplinare adotti una condotta estorsiva e/o intimidatoria nei confronti di un suo sottoposto, censura che potrà essere la più grave delle sanzioni e quindi il licenziamento per giusta causa dell’autore della condotta.