Il danno da compromissione dell’attività professionale di un lavoratore è legato al concetto di capacità lavorativa che è l’idoneità di un soggetto di svolgere un’attività lavorativa produttiva di reddito. Le lesioni all’integrità fisica riportate da un soggetto in seguito ad un evento dannoso o una condotta illecita, oltre ad incidere sulla salute possono condizionare anche la capacità lavorativa del dipendente.

L’attività professionale può risultare compromessa da diversi fattori: un infortunio, un sinistro stradale o altro evento lesivo occorso durante la percorrenza del tragitto per raggiungere il posto di lavoro, ma anche dall’aver subito condotte riconducibili ad ipotesi di demansionamento o mobbing come ormai acclarato da numerose pronunce della Corte di Cassazione. La capacità lavorativa si articola nelle due figure:

  • capacità lavorativa generica, che consiste nell’attitudine, anche potenziale, a svolgere una qualsiasi attività lavorativa produttiva di reddito confacente con le proprie attitudini;
  • capacità lavorativa specifica, che concerne l’idoneità a continuare a svolgere l’attività lavorativa attualmente esercitata dall’infortunato oppure un’attività diversa ma comunque coerente con le sue attitudini.

Capacità lavorativa specifica

Il danno da perdita o riduzione della capacità lavorativa specifica viene tradizionalmente ricondotto nell’alveo del danno patrimoniale da lucro cessante, qualora si accerti che il danneggiato ricaverà minori guadagni dalla propria attività lavorativa.

L’accertamento dell’esistenza di lesioni, anche gravi, non comporta automaticamente l’obbligo di risarcimento del danno patrimoniale da parte del danneggiante, poiché tale diritto sussiste solo se tale invalidità abbia prodotto una menomazione della capacità lavorativa specifica.

Il danneggiato, per aver diritto al risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante, dovrà dimostrare la lesione della capacità di svolgere l’attività lavorativa attuale (o quelle che presumibilmente avrebbe potuto svolgere in futuro) provando di svolgere un’attività produttiva di reddito al momento del sinistro e di non aver mantenuto, dopo l’infortunio, la capacità di attendere ad altri lavori confacenti alle sue attitudini personali e documentando quindi la concreta diminuzione del reddito o il mancato conseguimento di questo in conseguenza del fatto dannoso (Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2015, n. 2758; App. L’Aquila, 19 gennaio 2022, n. 76). Quindi, il danno patrimoniale per l’incapacità lavorativa specifica va sempre dedotto e provato non essendo sufficiente nemmeno il mero dato medico – legale in quanto, notoriamente, nell’attuale società varie sono le possibilità di lavoro e di guadagno e, pur in presenza di postumi macropermanenti, non è possibile desumere automaticamente in via presuntiva la diminuzione della capacità di produrre reddito da parte della vittima (Trib. Brescia, sez. I, 4 ottobre 2021, n. 2421). Il danno per la perdita della capacità lavorativa specifica costituisce pregiudizio di natura patrimoniale da liquidarsi in via separata rispetto al danno biologico e, pertanto, non consegue automaticamente dall’accertamento della lesione all’integrità psico-fisica del soggetto per effetto dell’evento determinato dall’altrui condotta illecita. Pertanto, il risarcimento di tale voce di danno presuppone, nell’ipotesi di un rapporto di lavoro in essere, la prova da parte del lavoratore anche attraverso prove presuntive, del pregresso concreto svolgimento di una attività economica o del possesso di una qualificazione professionale acquisita e non ancora esercitata e che siano stati compromessi, nella loro effettiva realizzabilità. Tale prova costituisce presupposto in punto di accertamento della fondatezza della pretesa risarcitoria e quindi ai fini della ristorabilità della perdita patrimoniale patita.

Per ciò che riguarda la quantificazione del danno, in difetto di una precisa dimostrazione del reddito non conseguibile e in caso di accertata gravità dei postumi invalidanti, lo stesso è liquidabile anche in via presuntiva, in difetto di prova specifica. Peraltro, lo si ribadisce, laddove il danneggiato non abbia dedotto lo svolgimento di un’attività lavorativa (pregressa o contestuale al sinistro), né il possesso di una peculiare abilitazione professionale, la prova dell’an debeatur non potrebbe essere integrata ed il danno non potrebbe essere risarcito (Trib. Napoli 29 luglio 2019, n. 7553).

Capacità lavorativa generica

Se la compromissione della capacità lavorativa specifica è sempre stata pacificamente ricondotta nell’alveo del danno patrimoniale da lucro cessante, più discussa è la collocazione della lesione alla capacità lavorativa generica, per molto tempo collegata al danno biologico.

Secondo l’orientamento tradizionale, in caso di illecito lesivo dell’integrità psico-fisica della persona, la riduzione della capacità lavorativa generica, quale potenziale attitudine all’attività lavorativa da parte di un soggetto che non svolge attività produttiva di reddito, né è in procinto presumibilmente di svolgerla, è risarcibile quale danno biologico, inteso come il pregiudizio psicofisico risarcibile sempre e comunque a prescindere dalla percezione di un reddito (Cass. civ., sez. III, 12 febbraio 2015, n. 2758).

Un altro filone giurisprudenziale riconduce, in determinati casi, l’incapacità lavorativa generica nell’ambito del risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante, offrendo in tal modo adeguata tutela giuridica anche ai soggetti non precettori di reddito al momento dell’evento lesivo. Secondo quest’ultimo orientamento, la lesione della capacità lavorativa generica, può costituire un danno patrimoniale, non ricompreso nel danno biologico, che non può essere escluso per il solo fatto che le lesioni subite non incidano sulla capacità lavorativa specifica del danneggiato. Sul punto, di particolare interesse è la sentenza pronunciata dalla Cass. civ., sez. III, 12 giugno 2015, n. 12211, che distingue l’ipotesi dell’invalidità grave, tale da precludere qualsiasi possibilità per il danneggiato di attendere a lavori diversi da quello prestato al momento del sinistro, dall’invalidità di lieve entità in cui siano assenti elementi concreti dai quali desumere un’incidenza della lesione sulla attività di lavoro attuale o futura del soggetto leso.

Secondo questo orientamento, l’invalidità di gravità tale da non consentire alla vittima la possibilità di attendere neppure a lavori diversi da quello specificamente prestato al momento del sinistro e, comunque, confacenti alle sue attitudini e condizioni personali e ambientali, integra, nella misura in cui venga ad eliminare o ridurre la capacità di produrre reddito, non la lesione di un modo di essere del soggetto (che quindi non potrà più essere ricondotta al danno biologico), quanto un danno patrimoniale attuale in proiezione futura da perdita di chance, ulteriore e distinto rispetto al danno da incapacità lavorativa specifica e derivante dalla riduzione della capacità lavorativa generica, il cui accertamento spetta al Giudice di merito in base a valutazione necessariamente equitativa ex art. 1226 c.c. (Cass. civ., sez. III, 31 gennaio 2018, n. 2348).

Si configura in tal modo un danno di natura patrimoniale derivante dalla compromissione delle aspettative professionali in relazione alle attitudini specifiche della “vittima”, che consente di riconoscere il diritto al risarcimento del danno patrimoniale anche a favore di soggetti privi di occupazione al momento del sinistro.

Al contrario, in caso di lesione di lieve entità, dovrà essere risarcito il danno biologico idoneo a cogliere, nella sua totalità, il pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psicofisica. Questo non significa, precisa la Cassazione, che il danno biologico «assorba» anche la menomazione della generale attitudine al lavoro, giacché al danno alla salute resta pur sempre estranea la considerazione di esiti pregiudizievoli sotto il profilo dell’attitudine a produrre guadagni attraverso l’impiego di attività lavorativa; ma solo che, se il grado di invalidità non consenta, per la sua entità o per il non attuale esercizio di attività lavorativa da parte del soggetto leso, una valutazione prognostica e dunque l’apprezzamento del lucro cessante, va privilegiato un meccanismo di liquidazione (quello del danno alla salute) capace di cogliere nella sua totalità il pregiudizio subito dal soggetto nella sua integrità psico-fisica (Cass. civ., sez. III, 12 giugno 2015, n. 12211). Come detto la diminuzione o lesione della capacità lavorativa o professionale del dipendente può derivare da eventi differenti, come sopra specificato, che si analizzano qui di seguito.

Infortunio

Nell’ipotesi dell’infortunio si richiama l’art. 2 del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (T.U. sull’assicurazione degli infortuni sul lavoro) da cui si evince che: «L’assicurazione comprende tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro, da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni».

L’infortunio può quindi essere definito come un evento traumatico che provoca un danno all’integrità psico-fisica del dipendente durante lo svolgimento dell’attività lavorativa.

Presupposti dell’infortunio sono quindi:

  • l’evento traumatico, dal quale derivi una lesione all’integrità psico-fisica del lavoratore;
  • la causa violenta;
  • il nesso eziologico tra il trauma e lo svolgimento dell’attività lavorativa (occasione lavorativa); la durata dell’inabilità (più di tre giorni). L’azione violenta idonea a determinare una patologia riconducibile all’infortunio deve operare come causa esterna, intensa, repentina e diretta, che colpisce il lavoratore sul luogo di lavoro cagionando lesioni alla sua integrità fisica (o la sua morte).

Si distingue, per questo aspetto, dalla malattia professionale dove la lesione della salute avviene per una causa lenta, cioè un fattore di rischio al quale il lavoratore resta esposto per un lungo periodo di tempo.

Sono stati ricondotti al concetto di causa violenta non soltanto le lesioni causate da urti o impatti violenti con macchinari e attrezzature di lavoro, ma anche menomazioni cagionate da uno sforzo muscolare (Cass. civ., sez. lav., 30 dicembre 2009, n. 27831), l’infarto, quando sia eziologicamente collegato ad un fattore lavorativo (Cass. civ., sez. lav., 22 febbraio 2022, n. 5814), l’azione di un virus tanto penetrando nell’organismo in maniera rapida e concentrata, quanto manifestandosi dal precedente stato latente all’interno dell’organismo in conseguenza di una distrazione delle difese immunologiche indotta dall’attività lavorativa (Cass. civ., sez. lav., 26 maggio 2006, n. 12559).

L’occasione di lavoro racchiude in sé il concetto di nesso causa-effetto tra l’evento lesivo e lo svolgimento dell’attività lavorativa e si estende all’infortunio in itinere, cioè qualsiasi infortunio verificatosi lungo il percorso dall’abitazione al luogo di lavoro, dovendosi dare rilevanza ad ogni esposizione al rischio ricollegabile finalisticamente allo svolgimento dell’attività lavorativa in modo diretto o indiretto (Cass. civ., sez. lav., 22 febbraio 2022, n. 5814).

Sono state così ricondotte all’infortunio in itinere, non solo l’incidente stradale occorso all’infortunato durante la percorrenza del tragitto abitazione-lavoro, ma anche l’aggressione subita dalla vittima durante il normale spostamento dalla propria abitazione al luogo di lavoro e viceversa (Cass. civ., sez. lav., 3 novembre 2021, n. 31485).

Viene escluso dal novero dell’infortunio in itinere il c.d. “rischio elettivo”, dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei e affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente alla attività lavorativa, ponendo così in essere una causa interruttiva di ogni nesso tra lavoro, rischio ed evento. Così, è stato escluso il diritto alla rendita in capo ai superstiti in un caso in cui l’infortunio mortale è occorso in una deviazione del percorso, determinata dalla libera scelta del lavoratore di accompagnare a casa un collega (Cass. civ., sez. lav., 3 agosto 2021, n. 22180).

Demansionamento

Come si diceva in apertura, oltre che da un infortunio o un sinistro stradale, la capacità lavorativa può risultare compromessa anche da condotte riconducibili ad ipotesi di demansionamento o mobbing.

Si parla di demansionamento ogni qualvolta il dipendente venga assegnato a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali è stato assunto. Secondo l’art. 2103 c.c., così come novellato dal Jobs Act (D.Lgs. n. 23/2015, in attuazione della Legge delega n. 183/2014), «Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte».

Superata la formulazione previgente secondo cui il datore di lavoro aveva la facoltà di adibire il lavoratore alle mansioni per le quali è stato assunto o a «quelle equivalenti alle ultime effettivamente svolte» e che sanciva l’illegittimità della dequalificazione posta in essere in violazione del principio dell’equivalenza, il demansionamento (sempreché le mansioni inferiori rientrino nella medesima categoria legale) è legittimo:

  • quando si verifichi una modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore;
  • nei casi di espressa previsione dei contratti collettivi;
  • quando sia previsto in un accordo individuale di modifica delle mansioni stipulato nelle c.d. “sedi protette” (art. 2113, comma 4, c.c.). Costituisce invece motivo di responsabilità contrattuale l’uso illegittimo del potere datoriale di modifica delle mansioni allorquando il demansionamento sia ingiustificato.

Il demansionamento può dar luogo ad una pluralità di pregiudizi, patrimoniali e non patrimoniali, potendo incidere sia sulla potenzialità economica del lavoratore, sia sul diritto del dipendente alla libera esplicazione della sua personalità nell’ambiente di lavoro, sia sul diritto alla salute. Il pregiudizio economico, si sostanzia nell’apprezzabile e non transeunte menomazione del bagaglio tecnico professionale del lavoratore, con conseguente impoverimento della sua capacità professionale, nella mancata acquisizione di una maggiore capacità, nella perdita di chance di progressione in carriera o di ulteriori potenzialità occupazionali o di guadagno.

Il danno non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale) da demansionamento è risarcibile ogni qualvolta la condotta illecita datoriale abbia violato, in modo grave, i diritti del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, nonché all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti (Cass. civ., sez. lav., 20 aprile 2018, n. 9901).

Nella specie, la Cassazione ravvisava una violazione dell’art. 2087 c.c., con conseguente obbligo di risarcimento del danno biologico, nella condotta tenuta dal datore di lavoro nei confronti di una lavoratrice alla quale, dopo il rientro dalla Cassa integrazione, non erano stati assegnati compiti da svolgere, era stato disattivato il telefono e non era stato consentito di sostituire personale assente per maternità, nonostante le reiterate richieste.

I danni patiti, patrimoniali e non patrimoniali, dovranno in ogni caso essere provati dal lavoratore in quanto il danno risarcibile rappresenta una conseguenza possibile, ma non necessaria, della violazione delle norme in tema di demansionamento (Cass. civ., sez. lav., 29 maggio 2018, n. 13484).

Si rende necessario valutare, caso per caso, le caratteristiche delle mansioni alle quali era originariamente adibito il dipendente, il livello di specializzazione posseduto, le possibilità di progressione in carriera normalmente offerte in relazione al livello di inquadramento e al profilo professionale posseduto, le caratteristiche delle mansioni alle quali il lavoratore è stato adibito, la durata e la gravità della dequalificazione (Trib. Cassino, sez. lav., 18 gennaio 2012, n. 34).

Già in precedenza la Cassazione aveva stabilito che in caso di demansionamento, il datore di lavoro risponde di violazione del contratto e deve risarcire il danno equivalente alla differenza retributiva, oltre agli altri danni eventuali. È infatti possibile che il demansionamento produca la perdita di favorevoli opportunità economiche (perdita di chances) e il danno conseguente è risarcibile quando la perdita possa dal lavoratore essere provata anche attraverso indici presuntivi, mentre l’ammontare del danno potrà essere liquidato dal giudice in via equitativa.

Un’altra eventuale voce di danno è, poi, costituita dalla perdita di conoscenze e di esperienze professionali, come detto, conseguita all’abbandono delle precedenti e superiori mansioni, sempre assoggettata all’onere della prova (Cass. civ., sez. lav., 7 settembre 2005, n. 17812). Ai fini del riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale non è quindi sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, ma il lavoratore, anche attraverso presunzioni, sarà tenuto a provare l’oggettiva consistenza del pregiudizio derivante dal demansionamento e il nesso eziologico causale tra l’inadempimento datoriale e il danno subito.

A fronte della richiesta di risarcimento del danno agita dal lavoratore, sul datore di lavoro incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del proprio obbligo attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (Cass. civ., sez. lav., 3 luglio 2018, n. 17365).

Mobbing

Il mobbing può essere definito come il susseguirsi di attacchi frequenti e duraturi e di soprusi subiti dal lavoratore che assumono la forma di prevaricazioni, persecuzioni psicologiche, da cui possono conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psico-fisico.

È evidente come la capacità lavorativa del dipendente possa essere seriamente compromessa da condotte vessatorie riferibili al mobbing, il cui effetto è proprio quello di intaccare gravemente l’equilibrio psichico del prestatore di lavoro menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in sé stesso creando stati di depressione.

Si parla di:

  • mobbing verticale discendente o bossing quando la condotta lesiva è posta in essere dai superiori gerarchici;
  • mobbing orizzontale quando le condotte vessatorie, reiterate e durature sono perpetrate a danno del lavoratore da parte di altri colleghi di lavoro tra soggetti parigrado;
  • mobbing ascendente quando il soggetto passivo dei comportamenti sia un superiore gerarchico.

Funge da comune denominatore delle suddette fattispecie di mobbing lo scopo di isolare il lavoratore, di danneggiarne i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione o la professionalità, di intaccare il suo equilibrio psichico, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in sé stesso, nonché di provocarne le dimissioni. Si tratta di una successione di episodi traumatici correlati l’uno con l’altro ed aventi come deliberato scopo l’indebolimento delle resistenze psicologiche e la manipolazione del soggetto mobbizzato (Trib. Pescara, sez. lav., 15 gennaio 2016, n. 31).

Perché si possa configurare un’ipotesi di mobbing lavorativo devono dunque ricorrere i seguenti elementi:

  • una serie di comportamenti di carattere persecutorio che, con intento vessatorio, vengano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o da parte di superiori gerarchici;
  • l’evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;
  • il nesso eziologico tra la condotta vessatoria e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Volutamente tralasciando in questa sede l’esame della responsabilità datoriale nei casi in cui la condotta vessatoria in esame integri più una grave fattispecie criminosa (Cass. pen., sez. V, 5 aprile 2022, n. 12827, Cass. pen., sez. VI, 28 marzo 2013, n. 28603), alla base della responsabilità per mobbing si pone l’art. 2087 c.c., che obbliga il datore di lavoro ad adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica e la personalità morale del lavoratore, per garantirne la salute, la dignità e i diritti fondamentali di cui agli artt. 2, 3 e 32 Cost. (App. Milano, sez. lav., 26 gennaio 2022, n. 1568). La condotta riferibile alla nozione di mobbing costituisce, quindi, violazione del generale obbligo di sicurezza posto a carico del datore di lavoro e si colloca nell’area della responsabilità contrattuale.

La circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo (Cass. civ., sez. lav., 17 novembre 2021, n. 35061).

Dal punto di vista processuale, l’onere della prova, non diversamente dal demansionamento, è posto a carico del lavoratore.

Il dipendente che richieda il risarcimento del danno per il pregiudizio professionale, biologico ed esistenziale sofferto in conseguenza del mobbing deve essere provato dal danneggiato, in quanto non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo riconducibile alla condotta datoriale, ma incombe sul lavoratore l’onere non solo di allegare gli elementi costitutivi del mobbing, ma anche di fornire la prova, ex art. 2697 c.c., del danno non patrimoniale che ne è derivato e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale.

Perché sussista il danno da mobbing, il lavoratore dovrà quindi provare: la molteplicità delle condotte persecutorie o illecite, poste in essere in modo sistematico e prolungato contro di lui; l’evento lesivo della sua salute o personalità; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore e il pregiudizio all’integrità psico-fisica; l’intento persecutorio (Cass. civ., sez. lav., 29 dicembre 2020, n. 29767, ord.).

Dalla disamina sopra effettuata, limitata alle fattispecie direttamente connesse con un rapporto lavorativo, si evince come il danno alla professionalità sia un danno che può manifestarsi in ipotesi molto differenti tra di loro: l’origine del danno potrebbe essere un sinistro stradale, l’intervenuto fallimento e così via. Anche in relazione alla liquidazione del danno stesso non esistono parametri predeterminati e precostituiti.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO