La nostra Costituzione si occupa, tra le altre cose, di tutelare i soggetti più fragili e vulnerabili della società in cui viviamo, essa prescrive l’eliminazione delle barriere che ostino alla realizzazione personale degli appartenenti alle categorie protette, sia a livello economico che sociale. Naturalmente, una modalità attraverso cui l’individuo ha facoltà di realizzarsi – in questo caso professionalmente – è il lavoro, non soltanto come mezzo di sostentamento.
Categorie protette
Prima di tutto, sarà necessario definire al meglio chi siano i facenti parte delle c.d. “categorie protette”. Si tratta, nello specifico, di familiari dei caduti sul lavoro, vittime del terrorismo, della criminalità organizzata e del dovere e loro familiari. È inoltre opportuno specificare che la legge distingue, in questo ambito, i “disabili” da coloro che facciano parte di “altre categorie”.
Nel primo caso sono ricompresi i soggetti in età lavorativa affetti da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e i portatori di handicap intellettivo, con una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%; i soggetti invalidi del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33%; le persone non vedenti ovvero coloro che sono colpiti da cecità assoluta o hanno un residuo visivo non superiore ad un decimo ad entrambi gli occhi; gli individui sordomuti ovvero coloro che siano colpiti da sordità dalla nascita o prima dell’apprendimento della lingua parlata ed infine gli invalidi di guerra, invalidi civili di guerra ed invalidi per servizio.
Con riferimento alle “altre categorie”, invece, tra queste figurano gli orfani e i coniugi superstiti di coloro che siano deceduti per causa di lavoro, di guerra o di servizio svolto nelle pubbliche amministrazioni, ovvero in conseguenza dell’aggravarsi dell’invalidità riportata per tali cause; i coniugi e i figli di soggetti riconosciuti grandi invalidi per causa di guerra, di servizio e di lavoro, nonché dei profughi italiani rimpatriati il cui status è riconosciuto ai sensi della legge 26 dicembre 1981, n. 763; gli orfani e i coniugi delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata.
Collocamento obbligatorio e rapporto di lavoro che ne consegue
L’altra faccia della medaglia della licenziabilità degli appartenenti alle categorie protette riguarda il loro collocamento obbligatorio. Si tratta, appunto, di un obbligo in capo al datore di lavoro che occupi un minimo di 15 dipendenti, di assumere un numero di soggetti disabili proporzionale rispetto a quello dei normodotati in forze all’interno dell’azienda in esame. In generale, per un numero di lavoratori non disabili compreso fra 15 e 35, sarà obbligatorio assumerne uno che lo sia (per un’azienda da 36 fino a 50, almeno 2; per un’azienda con più di 50 dipendenti, almeno il 7% dei dipendenti con contratto a tempo indeterminato deve appartenere a una categoria protetta).
Una volta che si sia proceduto all’assunzione, e che essa sia stata comunicata ai Servizi per l’impiego entro determinati termini e con specifiche modalità che non è dato esaminare in questa sede, ha formalmente inizio il rapporto di lavoro. Esso è regolato dalle stesse norme che si applicano per la generalità dei lavoratori per quanto possibile. Vi sono, naturalmente, alcune eccezioni: ad esempio, al dipendente disabile devono essere affidate mansioni che la propria condizione gli consentano di portare a termine e della quale si deve necessariamente tenere conto.
L’obbligo di assunzione di almeno un lavoratore con disabilità per i datori di lavoro che occupano in azienda tra 15 e 35 dipendenti è stato così modificato a partire dal 1° gennaio 2017 ed entro 60 giorni dall’insorgenza dell’obbligo: è una delle novità introdotte dal Decreto Semplificazioni (D.L. n. 151/2015) attuativo del Jobs Act, che, come noto, è intervenuto su numerosi ambiti relativi alla gestione del rapporto di lavoro subordinato.
Le modifiche relative al collocamento mirato dei lavoratori disabili mettono fine al regime transitorio che, dopo l’entrata in vigore della legge n. 68/1999, ha previsto un’applicazione graduale degli obblighi da parte di datori di lavoro precedentemente esclusi dalla normativa. L’obiettivo finale sarebbe di snellire la burocrazia e favorire l’inserimento nel mondo del lavoro delle persone affette da disabilità. Tale obbligo si applica anche a partiti politici, organizzazioni sindacali o senza scopo di lucro che operino nel campo della solidarietà sociale, dell’assistenza e riabilitazione.
L’art. 4 del decreto prevede che i lavoratori, già disabili prima della costituzione del rapporto di lavoro, sono computati nella quota di riserva di cui all’art. 3 anche se non assunti tramite il collocamento obbligatorio, a patto di avere riduzione della capacità lavorativa superiore al 60% o con disabilità intellettiva e psichica con riduzione della capacità lavorativa.
Sono esonerati dall’obbligo di assumere un lavoratore disabile le aziende con addetti impegnati in lavorazioni che comportino un’esposizione al rischio con tasso di premio Inail pari o superiore al 60 per mille. Al fine di vedersi riconosciuto questo esonero, i datori di lavoro dovranno autocertificare il rischio di cui si è appena detto, oltre a dover effettuare un versamento al “Fondo per il diritto al lavoro dei disabili” (la quota corrisponde a circa € 30 per ogni giorno lavorativo e per ciascun lavoratore disabile non occupato).
Gli incentivi previsti per i datori di lavoro che assumono persone con disabilità consistono nell’erogazione del 70% o del 35% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, a seconda del grado di riduzione della capacità lavorativa, per un periodo di 36 mesi se l’assunzione è a tempo indeterminato, 60 mesi, in caso di assunzioni di persone con disabilità intellettiva e psichica (sia a tempo indeterminato, sia determinato ma superiore a 12 mesi). Al fine di vedersi riconosciuti tali incentivi, essi vengono corrisposti al datore di lavoro unicamente mediante conguaglio nelle denunce UniEmens; essi vengono poi accreditati dall’Istituto nazionale della previdenza sociale sulla base delle effettive disponibilità di risorse e secondo l’ordine di presentazione delle domande.
In merito a quanto in argomento, il Ministero del lavoro ha rilasciato una circolare in data 21 dicembre 2020, nella quale ha agito disponendo la sospensione degli obblighi occupazionali derivanti dalla citata norma per i datori di lavoro che fruiscono di interventi di integrazione salariale in forza dell’emergenza da Covid-19. Tale decisione è stata giustificata sulla base della sospensione già normalmente prevista ai sensi dell’art. 3, c. 5, legge n. 68/1999 e dell’art. 4, D.P.R. n. 333/2000 e che è già stata riconosciuta dal legislatore in favore delle imprese che versino in situazione di crisi aziendale, ristrutturazione, riorganizzazione, riconversione, procedure concorsuali tali da determinare il ricorso alla cassa integrazione guadagni straordinaria, delle imprese che abbiano stipulato contratti di solidarietà difensiva, nonché di quelle che abbiano attivato procedure di mobilità. Nella citata circolare viene comunque chiarito che «l’obbligo è sospeso per tutta la durata degli interventi di integrazione salariale per emergenza Covid-19, in proporzione all’attività lavorativa effettivamente sospesa e al numero delle ore integrate per il singolo ambito provinciale sul quale insiste l’unità produttiva interessata in caso di Cig straordinaria e in deroga o alla quantità di orario ridotto in proporzione. L’obbligo a carico del datore di lavoro di presentare la richiesta di avviamento ai servizi per collocamento mirato territorialmente competenti, si ritiene ripristinato al venir meno della situazione di crisi assistita dagli strumenti integrati dettati per l’emergenza Covid-19».
Licenziabilità
Il licenziamento del lavoratore appartenente alle categorie protette avviene come in tutti gli altri casi per giusta causa, giustificato motivo oggettivo e per un aggravamento dello stato di salute. In particolare, i licenziamenti causati da riduzione di personale o, in generale, da giustificato motivo oggettivo che riguardi uno dei lavoratori assunti in forza del collocamento obbligatorio di cui al paragrafo precedente, sono annullabili se al momento della cessazione del rapporto il numero dei dipendenti disabili ancora in forze dovesse essere inferiore alla quota legislativamente prevista.
Laddove si intenda procedere con il licenziamento, il datore è tenuto a darne comunicazione, entro 10 giorni dalla decisione, agli uffici competenti così da sostituire il dipendente con un altro che abbia altrettanto diritto, in forza della propria condizione, all’avviamento obbligatorio. Sulla licenziabilità dei facenti parte le categorie protette si è espressa anche la Corte di Cassazione, con sentenza n. 28426/2013. In essa è stato compiuto un bilanciamento tra la tutela dei soggetti con inferiore capacità lavorativa e gli interessi dell’azienda; in base a questo ragionamento, è stato ribadito che il soggetto disabile possa comunque essere licenziato per giusta causa, per giustificato motivo oggettivo, o per giustificato motivo soggettivo (anche in caso di un aggravamento della patologia già esistente tale da ridurre al minimo la capacità lavorativa).
Inoltre, nei momenti di crisi dell’azienda come quelli che comportano ingenti riduzioni del personale, il datore di lavoro può licenziare una categoria protetta, ma solo se il numero dei dipendenti rimasti sia inferiore alla quota di riserva di cui sopra prevista ex lege. Ancora in riferimento a questo ambito, la Suprema Corte di Cassazione si è espressa, più recentemente, nella sentenza n. 9395/2017. Nel caso di specie, un dipendente di una Società, assunto in quanto iscritto negli elenchi degli invalidi, proponeva ricorso avverso il licenziamento allo stesso intimato per superamento del periodo di comporto. Il Tribunale accoglieva il ricorso e condannava la Società alla reintegra del lavoratore e al risarcimento del danno in suo favore. Detta pronuncia veniva riformata in secondo grado, dove le domande proposte dal lavoratore venivano rigettate e quest’ultimo veniva condannato alla restituzione delle somme percepite in esecuzione della sentenza di primo grado. Una volta impugnata presso la Corte di Cassazione tale decisione, la stessa decideva per il respingimento del ricorso. Nello specifico, sussistevano alcuni elementi di dubbio circa l’assegnazione di determinate mansioni al dipendente che, a causa della propria disabilità, era impossibilitato a portare correttamente a termine. Tuttavia, il licenziamento del dipendente e il procedimento che ad esso ha portato il datore di lavoro, ha rispettato le regole imposte alla generalità dei lavoratori.
Le norme che i datori di lavoro devono rispettare per poter licenziare i soggetti appartenenti a categorie protette sono, in diversi punti, differenti, rispetto a quelle per i lavoratori non facenti parte di tali categorie, e in particolare, sono regolati dalla legge n. 68/1999. Più specificatamente, ulteriori aspetti vengono stabiliti dalla già citata sentenza n. 28426/2013 della Corte di Cassazione.
Un altro motivo per cui è possibile licenziare un lavoratore facente parte delle categorie protette è il mancato superamento del periodo di prova, così come chiarito dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 21965/2010). Se l’invalido lo richiede, il datore di lavoro è tenuto a fornire i motivi, validi, seri e obiettivi, del licenziamento. La prova, infatti, serve proprio per valutare l’utilità effettiva di un soggetto all’interno dell’azienda. Se non ci sono i presupposti, il rapporto può essere interrotto in modo legittimo. Un dipendente disabile, comunque, può vedere rescisso il proprio rapporto di lavoro per tutte le cause di norma applicabili alla generalità dei lavoratori. Ad esempio, ciò può verificarsi per giusta causa: i cosiddetti lavoratori appartenenti alle categorie protette, che vengono collocati in azienda secondo quanto previsto dalla legge n. 68/1999 possono essere licenziati se mettono in atto dei comportamenti gravi, in grado di attivare dei provvedimenti disciplinari. Il fatto che si tratti di soggetti portatori di handicap, non incide sulla possibilità di essere puniti di fronte ad atteggiamenti negativi. Come sottolineato, l’unica agevolazione riguarda l’assunzione in azienda, ma in seguito il soggetto si deve dimostrare rispettoso delle regole, proprio come tutti gli altri.
Se da una parte, infatti, la legge impone l’inserimento di individui ipoteticamente meno produttivi, dall’altro non pretende che essi debbano restare in azienda se sono del tutto incapaci di inserirsi nel contesto lavorativo, come ha ribadito la Suprema Corte di Cassazione con la (seppur non troppo recente) sentenza n. 5688/1985.
Detto ciò, risulta evidente la possibilità di potere utilizzare anche nei confronti dei disabili quanto previsto dall’art. 2119 c.c.: ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente.
Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda. In genere, comunque, la previsione presuppone sempre l’esistenza di una possibilità di ricollocazione. Quindi, di fatto, la norma non può essere applicata se non ci sono delle valide alternative occupazionali per il portatore di handicap. Come già detto, quindi, il licenziamento può essere comminato per giustificato motivo soggettivo – ovviamente, in questo caso esso è legittimo solo se non è possibile ricollocare il lavoratore in altro settore – o per giustificato motivo oggettivo (legge n. 68/1999; art. 4, c. 9, legge n. 223/1991). È il caso in cui le aziende che, versando in una situazione di crisi, sono costrette a ridurre il proprio personale. In questo caso, il disabile è licenziabile solo quando il numero dei dipendenti residui disabili è divenuto maggiore o uguale alla quota di riserva (ossia il numero di disabili da assumere obbligatoriamente, in funzione del numero dei dipendenti).
La sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo prescinde, quindi, dallo stato di salute del lavoratore, ma riguarda la fiducia che si ripone in esso. Vengono analizzati, infatti, comportamenti estranei alla capacità lavorativa, ma collegati ai doveri di collaborazione, correttezza e buona fede.
Un soggetto appartenente ad una categoria protetta può altresì essere licenziato per superamento del periodo di comporto. La Suprema Corte, con la sentenza n. 3931/2015, ha sancito la legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto, anche se la quota di riserva non è raggiunta; ancora, per aggravamento dell’invalidità. Il datore di lavoro può licenziarlo solo se dimostra di non poter ricollocare il lavoratore in altri settori e solo se, anche con tutti i possibili adattamenti e accorgimenti accertati dalla Commissione medica (così come definita dalla legge n. 104/1992), il ricollocamento risulta impossibile.
Infine, il lavoratore con handicap può essere licenziato per aggravamento della propria disabilità. Sebbene di norma, infatti, l’ingravescenza delle condizioni di salute o della disabilità, a causa di una malattia professionale, per infortunio sul lavoro o per cause esterne non rappresentano un valido motivo per licenziare qualcuno, esso è comunque comminabile anche se il soggetto non è più in grado di svolgere le mansioni per le quali è stato assunto. In tal caso, infatti, è possibile chiedere alla commissione medica, la sospensione del rapporto fino al perdurare delle condizioni, come stabilito dall’art. 4, legge n. 104/1992:
– gli accertamenti relativi alla minorazione, alle difficoltà, alla necessità dell’intervento assistenziale permanente e alla capacità complessiva individuale residua, di cui all’articolo 3, sono effettuati dalle unità sanitarie locali mediante le commissioni mediche di cui all’articolo 1, legge 15 ottobre 1990, n. 295, che sono integrate da un operatore sociale e da un esperto nei casi da esaminare, in servizio presso le unità sanitarie locali;
– nel caso in cui gli accertamenti di cui al comma 1 riguardino persone in età evolutiva, le commissioni mediche di cui alla legge 15 ottobre 1990, n. 295, sono composte da un medico legale, che assume le funzioni di presidente, e da due medici specialisti, scelti fra quelli in pediatria, in neuropsichiatria infantile o nella specializzazione inerente la condizione di salute del soggetto. Tali commissioni sono integrate da un assistente specialistico o da un operatore sociale individuati dall’ente locale, nonché dal medico Inps competente.
Il lavoratore può essere collocato a svolgere altre mansioni, adatte alle sue condizioni. In caso di rifiuto da parte di quest’ultimo, il datore può procedere con il licenziamento del lavoratore di una categoria protetta.
Si ricordi infine che, a seguito del Decreto Semplificazioni (D.L. n. 151/2015) attuativo del Jobs Act e come già asserito nel corso della presente trattazione, è stata resa obbligatoria l’assunzione di almeno un lavoratore con disabilità per i datori di lavoro che occupano in azienda tra 15 e 35 dipendenti. Tra le altre novità, figura anche quella di assumere lavoratori con disabilità attraverso chiamata nominativa, che permette sostanzialmente al datore di lavoro di scegliere il lavoratore disabile da assumere alle proprie dipendenze attraverso colloqui personali condotti o da figure interne all’azienda interessata o demandati a società specializzate in recruitment.
Un caso che merita una certa attenzione, è quello su cui si è recentemente espressa la giurisprudenza di merito (Trib. lav. Padova, sentenza n. 606/2019). Nel caso di specie, un dipendente avviato obbligatoriamente ai sensi della legge n. 68/1999 conveniva in giudizio la Società sua datrice di lavoro che gli aveva comminato licenziamento per giustificato motivo oggettivo, a seguito della esternalizzazione ad altra società specializzata delle funzioni cui il dipendente era addetto. Tale decisione comportava la conseguenza che, la datrice di lavoro convenuta, finiva per occupare un numero inferiore di assunti obbligatoriamente rispetto alla quota legislativamente prevista per aziende della grandezza della stessa.
Per questo motivo, il licenziamento non poteva non dirsi annullabile.
Tuttavia, a questo punto, il Giudice del merito rilevava due questioni importanti che necessitavano di essere affrontate: in primo luogo, ci si chiedeva quali fossero le conseguenze in caso di accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore assunto obbligatoriamente (scenario appena prospettatosi); secondariamente, risultava opportuno domandarsi quali dovessero essere i parametri per la quantificazione del risarcimento eventualmente riconosciuto al dipendente ingiustamente licenziato. E, più nello specifico relativamente a questo secondo punto, dovrà applicarsi la reintegra e il risarcimento pari a tutte le retribuzioni perse dal licenziamento all’effettiva reintegra, ai sensi dell’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015 (licenziamento discriminatorio, nullo od orale), oppure il solo risarcimento del danno ex art. 3 dello stesso Decreto?
Al fine di risolvere l’annosa questione, è stato ritenuto che il comma 4 del citato art. 2, D.Lgs. n. 23/2015 prevede la tutela della reintegra e del risarcimento del danno pieno solo per i casi in cui sia accertato che il motivo del licenziamento consista nella disabilità fisica o psichica del lavoratore. Nel caso in esame, invece, il Giudice rilevava che la soppressione del posto per esternalizzazione del servizio sia effettiva e che quindi debba trovare applicazione la sola indennità risarcitoria (riportata all’art. 3 dello stesso Decreto). Ciò comportava, dunque, che in presenza di un valido ed effettivo giustificato motivo oggettivo, il licenziamento anche dell’assunto obbligatoriamente è legittimo, a condizione che il datore di lavoro inoltre dimostri l’insussistenza di altre mansioni – anche inferiori- compatibili con lo stato di salute del lavoratore cui poterlo adibire.
Per quanto riguarda l’elemento del repechage (cioè il mancato esperimento di verificare residue possibilità di impiego, espressamente ammesse come possibili dalla stessa Società convenuta), è stato utilizzato dal Giudice competente quale criterio di decisione al fine della graduazione della sanzione economica irrogata.
Nel caso di specie, il Giudice ha ritenuto che non solo il licenziamento fosse annullabile per violazione della quota di riserva e che allo stesso andasse applicata la sola indennità risarcitoria, ma che quest’ultima – proprio in base al comportamento della parte convenuta che non aveva svolto alcuna verifica sull’esistenza di mansioni diverse cui poter adibire l’assunto obbligatoriamente ed anzi ne aveva ammesso l’adibizione ad esse anche se occasionalmente – andasse stabilita in 15 mensilità di retribuzione globale di fatto.