SOGGETTI
Soggetti titolari della facolta` di procedere ad un licenziamento collettivo:
 Aziende con piu` di 15 dipendenti, da computarsi con riferimento al criterio della normale occupazione e cioè all’occupazione media dell’ultimo semestre.
Destinatari:
 Lavoratori subordinati: operai, impiegati, quadri e dirigenti (questi ultimi con alcune peculiarità).

PROCEDIMENTO
 Fase sindacale: il datore di lavoro comunica alle RSA e alle associazioni di categoria la propria intenzione di procedere ad un licenziamento collettivo; i destinatari della comunicazione possono chiedere un esame congiunto al fine di trovare un accordo. E` possibile stipulare in questa sede un accordo sindacale che preveda l’uscita incentivata di alcune categorie di lavoratori.
 Fase amministrativa: qualora l’esame congiunto non venga effettuato oppure dia esito negativo l’ufficio pubblico competente ha il potere di convocare le parti.

CRITERI DI SCELTA
Variano in ragione del fatto che sia stato raggiunto o meno un accordo sindacale, in mancanza è la legge che prevede precisi criteri da attuare in concorso fra loro:
 accordo sindacale: i criteri vengono concordati con i sindacati;
 criteri legali: carichi di famiglia; anzianita` di servizio; carichi di famiglia.

ILLEGITTIMITÀ DEL LICENZIAMENTO COLLETTIVO
La violazione della procedura di riduzione del personale comporta conseguenze diverse anche a seconda della data di assunzione dei lavoratori licenziati:
 Lavoratori assunti sino al 6 marzo 2015 (art. 5, comma 3, L. n. 223/1991);
 Lavoratori assunti dal 7 marzo 2015.

EMERGENZA CORONAVIRUS
Fino al 31 gennaio 2021 è previsto
 il divieto di avviare procedure di licenziamento collettivo
 la sospensione delle procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020.
Le preclusioni e le sospensioni non si applicano nelle seguenti ipotesi:
 cessazione definitiva dell’attività dell’impresa;
 fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione;
 accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente piu` rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo.

FONTI
 Legge 20 maggio 1970, n. 300
 Legge 23 luglio1991, n. 223
 D.Lgs.26 maggio 1997, n. 151
 Legge 12 marzo 1999, n. 68
 Legge 28 giugno 2012, n. 92, art. 2, comma 71.
 D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23
 D.Lgs. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 12, commi 9 e 11

SOGGETTI
La Legge n. 223/1991 e le successive modifiche prevedono due diverse ipotesi di licenziamento collettivo che si distinguono per i presupposti fattuali alla base.
La prima ipotesi, il licenziamento collettivo al fine di ridurre il personale, e` quella prevista dall’art. 24 della Legge n. 223/1991 e riguarda tutti i datori di lavoro privati, imprenditori e non, che siano in possesso dei seguenti requisiti:
 numero complessivo di dipendenti superiore a 15;
 intenzione di effettuare almeno 5 licenziamenti in ciascuna unita` produttiva o in più unità produttive, nell’ambito del territorio di una stessa provincia, nell’arco di 120 giorni dalla conclusione della procedura, salvo che un diverso termine sia stato previsto con accordo sindacale;
 si trovino in una situazione di riduzione o trasformazione di attività o di lavoro o intendano cessare l’attività.
I requisiti di cui sopra devono tutti sussistere al momento dell’avvio della procedura e non anche nella fase conclusiva di essa, potendo gli accordi sindacali incidere sul numero dei dipendenti da licenziare, che può alla fine anche essere inferiore a 5, come sull’arco temporale in cui porre in essere il licenziamento.
La normativa è stata integrata e modificata dal D.Lgs. 26 maggio 1997, n. 151, emanato in attuazione della direttiva 56/1992/CEE, e dal D.Lgs. 8 aprile 2004, n. 110, con il quale si è esteso l’ambito di applicazione dei licenziamenti collettivi ai datori di lavoro non imprenditori, ossia datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione, ovvero di religione o di culto.
Il numero dei dipendenti va calcolato sulla media di dipendenti nel semestre precedente l’avvio della procedura di licenziamento collettivo (criterio della c.d. ‘‘normale occupazione’’).
Il collocamento in mobilità , invece, è previsto dall’art. 4, comma 1 della Legge n. 223/1991 e riguarda solo i datori di lavoro privati imprenditori che rientrano nella disciplina dell’intervento della CGIS e che, una volta ammessi al trattamento, ritengano di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative.
In questa ipotesi non sono richiesti i requisiti dimensionali e numerici, previsti dall’art. 24, comma 1 della L. n. 223/1996. In entrambe le due ipotesi di licenziamento collettivo la procedura da attivare è la stessa ed è disciplinata dall’art. 4, commi da 2 a 12, assieme all’art. 5 e all’art. 24.
In primo luogo, il datore di lavoro deve obbligatoriamente informare per iscritto sia le rappresentanze sindacali interne come anche le Associazioni sindacali di categoria, sia l’organo competente territorialmente (struttura provinciale delegata dalla Regione).
Sul datore di lavoro ricade l’onere di illustrare i motivi alla base della decisione del licenziamento, e l’impossibilità di utilizzare strumenti diversi per scongiurarlo. Nella comunicazione devono essere individuati il numero dei lavoratori, i tempi di attuazione della procedura, le misure per limitare l’impatto sociale del licenziamento sui lavoratori.
Entro 7 giorni dal ricevimento della comunicazione, datore di lavoro e sindacati, su richiesta di quest’ultimi, possono procedere ad un esame congiunto della situazione al fine di raggiungere un accordo modificativo o alternativo.
Le trattative con le parti sociali hanno un termine massimo di 45 giorni, esaurito il quale, se non dovesse essere raggiunto alcun accordo, l’impresa ha l’obbligo di comunicare per iscritto all’organo territoriale le motivazioni sottostanti il fallimento delle stesse. In caso di mancato accordo, vi può essere la possibilità di una seconda convocazione da parte dell’organo territoriale ai fini conciliativi. Se neanche in questa fase si raggiunge un accordo il datore di lavoro può procedere al licenziamento dei lavoratori in esubero come definito dall’art. 4, comma 9 della Legge n. 223/1991.
I lavoratori licenziati collettivamente venivano inseriti, fino all’anno 2016, nelle c.d. ‘‘liste di mobilità ’’ che permettevano ai lavoratori sia di usufruire di un’agevolazione al ricollocamento in un ruolo adeguato alla loro professionalità, sia il diritto ad una speciale indennità di disoccupazione (c.d. ‘‘indennità di mobilità ’’) in attesa della nuova occupazione.
Peraltro, a decorrere dal 1º gennaio 2017, per effetto di quanto previsto dall’art. 2, comma 71, L. n. 92/2012 (c.d. Riforma del mercato del lavoro o legge Fornero) sono state abrogate una serie di disposizioni sulla procedura di mobilita` e sull’indennita` di mobilita` (art. 5, commi 4, 5 e 6, artt. da 6 a 9, art 10, comma 2, art. 16, commi da 1 a 3, e art. 25, comma 9, L. n. 223/1991) che negli ultimi decenni hanno accompagnato le crisi aziendali e le ricollocazioni dei lavoratori espulsi dai processi produttivi, attenuandone l’impatto con lo stato di disoccupazione e favorendo, altresı`, una loro ricollocazione incentivata.
Con la normativa sopra citata, viene, infatti, definitivamente abrogata la disciplina sull’indennita` di mobilita` e finisce il regime di transizione che ha portato prima all’AspI – Assicurazione Sociale per l’Impiego – e poi alla NaspI – Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego.
Infine, sempre dal 1º gennaio 2017, cessano gli incentivi alla riassunzione dei lavoratori licenziati collettivamente introdotti negli ultimi anni dal legislatore, che prevedevano una contribuzione INPS ridotta in misura pari a quella prevista per gli apprendisti per un periodo di 12 mesi in caso di assunzione a termine (rinnovabile di ulteriori 12 mesi in caso di trasformazione) o di 18 mesi in caso di assunzione a tempo indeterminato ed, altresı`, la possibilita` per il datore di lavoro di beneficiare di parte dell’indennita` di mobilita` che avrebbe dovuto essere corrisposta al lavoratore.
Al riguardo, l’INPS ha ribadito che, per le assunzioni, proroghe o trasformazioni effettuate a decorrere dal 1º gennaio 2017, il regime agevolato non puo` piu` trovare applicazione, a prescindere dalla data di iscrizione del lavoratore nelle liste di mobilità; resta ferma, invece, in relazione a proroghe e trasformazioni intervenute entro il 31 dicembre 2016, la fruizione degli incentivi fino alla loro naturale scadenza (INPS mess. n. 99/2017).
Nella procedura di avviamento del licenziamento collettivo di cui all’art. 4, commi da 2 a 12, e all’art. 24 della Legge n. 223/1991, la comunicazione tempestiva ed esaustiva della stessa, da parte del datore di lavoro alle rappresentanze sindacali e alle Associazioni sindacali di categoria, nonche´ alla stessa Autorità territorialmente è da ritenersi di fondamentale importanza.
Tale priorità è stata ribadita dalla stessa giurisprudenza che ha confermato che: ‘‘l’incompletezza di contenuto della comunicazione di avvio della procedura di mobilità invalida la procedura e determina l’inefficacia dei licenziamenti, nonostante la stipulazione di un accordo sindacale di riduzione del personale che contempli un criterio di scelta dei lavoratori da licenziare’’ (Cass. n. 5034/2009).
Tuttavia ‘‘il requisito della contestualità fra comunicazione del recesso al lavoratore e comunicazione alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici del lavoro dell’elenco dei dipendenti licenziati e delle modalità di applicazione dei criteri di scelta, contestualita` richiesta a pena d’inefficacia del licenziamento, deve essere valutato nel senso di una indispensabile contemporaneita` delle due comunicazioni, la cui mancanza puo` non determinare l’inefficacia del recesso solo se sostenuta da giustificativi motivi di natura oggettiva della cui prova e` onerato il datore di lavoro’’ (Cass. n. 23616/2015).

CRITERI DI SCELTA
Il rispetto dei requisiti procedurali da espletare, da parte del datore di lavoro, e` posto dalla legge a pena invalidita` del licenziamento e i criteri di scelta si devono basare su criteri oggettivi, trasparenti e verificabili, derogabili solo in presenza di un accordo sindacale che disciplini il programma di riduzione del personale.
Qualora i contratti collettivi, nello specifico, non dovessero prevedere i criteri di selezione del personale da licenziare, sara` la Legge n. 223 del 1991 a integrarne i limiti; la norma stabilisce tre criteri generali da rispettare nella scelta e da applicare congiuntamente.
L’art. 5 comma 1, indica:
 i carichi di famiglia, la presenza di un coniuge e/o figli a carico del lavoratore selezionato;
 l’anzianita` del lavoratore, in considerazione del fatto che un lavoratore piu` anziano ha piu` difficolta` a reinserirsi nel mondo del lavoro rispetto ad uno giovane;
 le esigenze tecniche, produttive e organizzative dell’impresa, elevate a criterio logico-funzionale, dalla giurisprudenza, nella valutazione della legittimita` del licenziamento.
L’applicazione di tali criteri da parte del datore di lavoro, comunque, viene valutata sulla base dei principi generali di buona fede e correttezza, come delineato dalla Cassazione nella sentenza n. 17556 del 2004.
Eventuali accordi tra imprese e sindacati, in deroga ai criteri ex art. 5, Legge n. 223 del 1991, devono rispettare due principi di carattere generale:
– quello di non discriminazione (licenziamenti non basati su motivazioni sindacali, religiose, politiche, ecc.) e
– quello di razionalita` (la presenza di un nesso causale tra le esigenze aziendali e il licenziamento da porre in essere).
Il contenuto del principio di razionalita` e` stato specificato dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 268 del 1994, che ha sancito che i criteri concordati debbano avere ‘‘i caratteri dell’obbiettivita` e della generalita` e devono essere coerenti col fine dell’istituto della mobilita` dei lavoratori’’.
Ulteriori limiti insuperabili, nella scelta del personale da licenziare sono previsti legislativamente, e specificati dalla giurisprudenza, per alcune categorie di lavoratori.
Ad esempio, nel licenziamento collettivo il numero di invalidi coinvolti, rispetto al totale di lavoratori licenziati, non potra` essere superiore alla percentuale prevista dalla norma in tema di assunzioni obbligatorie (art. 10 della L. n. 68 del 1999) pena il possibile annullamento. Il datore di lavoro pur essendo obbligato all’osservanza dei criteri sopraindicati in ogni caso sara` tenuto, come detto, a motivare le sue scelte di riduzione di personale attenendosi ai principi generali di razionalita` e buona fede.
Infatti la giurisprudenza, ai fini dell’applicazione dei criteri di scelta dettati dall’art. 5 della Legge n. 223 del 1991, sostiene che ‘‘la comparazione dei lavoratori da avviare alla mobilita` deve avvenire nell’ambito dell’intero complesso organizzativo e produttivo ed in modo che concorrano lavoratori di analoghe professionalita` (ai fini della loro fungibilita`) e di similare livello, rimanendo possibile una deroga a tale principio solo in riferimento a casi specifici ove sussista una diversa e motivata esigenza aziendale; in caso contrario sarebbe possibile finalizzare i criteri di scelta (eventualmente in collegamento con preventivi spostamenti del personale) ad esigenze imprenditoriali non esclusivamente tecnico produttive e all’espulsione di elementi non graditi al datore di lavoro, senza concrete possibilita` di difesa da parte degli interessati’’ (Cass. n. 17201/2020); e ancora ‘‘il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad una unita` produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, la platea dei lavoratori interessati puo` essere limitata agli addetti a un determinato reparto solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale, ed e` onere del datore provare il fatto che determina l’oggettiva limitazione di queste esigenze e giustificare il piu` stretto spazio nel quale la scelta e` stata effettuata; con la conseguenza che non puo` essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perche´ impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalita`equivalente a quella degli addetti ad altre realta`organizzative’’ (Cass. n. 118/ 2020).
Il criterio dei ‘‘carichi di famiglia’’ emerge per il fatto che, a parita` di altre condizioni, si dovrebbe licenziare chi ha un minor numero di familiari a carico rispetto ad un lavoratore che ne ha di piu` . Partendo dal presupposto che la normativa tende a limitare le conseguenze sociali del licenziamento collettivo in riferimento a lavoratori con situazioni economiche piu` deboli, i ‘‘carichi di famiglia’’ sono stati interpretati dalla giurisprudenza come sintomo di debolezza sociale ed economica dell’individuo scelto nel licenziamento.
Sulla stessa linea, la Corte di Cassazione, nella sentenza n. 20464 del 2 agosto 2018, ha statuito che i carichi di famiglia vadano interpretati estensivamente e riscontrati fattualmente, non essendo sufficiente l’accertamento documentale e fiscale da parte del datore di lavoro.
Il caso in esame, in particolare, vedeva coinvolto un datore di lavoro che, nell’applicare il criterio di scelta dei carichi di famiglia, si era basato sui dati risultanti dalle dichiarazioni IRPEF per procedere al licenziamento di una lavoratrice, che aveva figli a carico, non risultanti dalle sue dichiarazioni dei redditi.
La societa` partendo dal solo dato fiscale, procedeva con il licenziare la lavoratrice, anche se avrebbe potuto presumere la situazione denunciata sulla base dei permessi per maternita` concessi alla lavoratrice.
La Corte di Cassazione, pronunciandosi sul caso sopra citato, ha definitivamente dichiarato l’illegittimita` della condotta aziendale, e conseguentemente del licenziamento della lavoratrice, statuendo che la corretta applicazione del criterio dei carichi di famiglia impone di considerare la situazione familiare effettiva dei singoli lavoratori e ‘‘non puo` limitarsi alla semplice verifica del numero delle persone a carico da un punto di vista fiscale, che potrebbe risultare anche riduttiva’’.
E` stato, dunque, giudicato che: ‘‘e` onere del datore di lavoro che sia a conoscenza in modo ufficiale della reale situazione economica familiare del dipendente, tener conto di quest’ultima anche a prescindere da una espressa comunicazione ad hoc del lavoratore’’.
Se l’azienda avesse tenuto conto dei reali carichi di famiglia della lavoratrice, e non solo dei dati emergenti dalla dichiarazione dei redditi, quest’ultima non sarebbe stata licenziata.
Sebbene il parametro della dichiarazione IRPEF non costituisse un dato sufficiente per misurare il criterio dei carichi familiari, l’interpretazione della Corte non onera il datore di lavoro dell’obbligo di condurre indagini approfondite su ogni singolo lavoratore, che potrebbero risultare invadenti e lesive della privacy di quest’ultimo, ma di agire secondo buona fede e correttezza.
L’anzianita` del lavoratore, come parametro legislativo summenzionato, trova un limite nella prassi degli accordi collettivi. Esso, infatti, viene bilanciato dal criterio della prossimita` della pensione, per il quale in assenza di ulteriori elementi distintivi, andrebbe preferito nella selezione il lavoratore piu` vicino all’eta` pensionabile.
La prossimita` alla pensione e` sempre stato uno dei criteri piu` utilizzati in sede di contrattazione collettiva ed e` stato recentemente riconfermato dalla giurisprudenza, in relazione al principio del minor impatto sociale al quale dovrebbe aspirare, idealmente, il licenziamento collettivo.
Il nucleo centrale di questo criterio selettivo e` la possibilita` di sostituire il reddito da lavoro con il trattamento pensionistico (Cass n. 4186/2013).
Rispetto alla possibilita` che tale criterio potesse risultare discriminatorio, in tutti i casi in cui i lavoratori vicini alla pensione rappresentino una percentuale piu` alta rispetto ai dipendenti da licenziare, la giurisprudenza ha elevato a requisito di legittimita` l’inserimento di un ulteriore criterio di selezione interna.
In particolare, il raggiungimento dell’eta` pensionabile, come criterio, va ancorato a ragioni di riorganizzazione aziendale e, in ogni caso, deve essere applicato in modo tale da non lasciare spazio alla discrezionalita` del datore di lavoro nella scelta dei dipendenti da licenziare (Cass. n. 10424/2012).
Come si e` gia` delineato, gli accordi sindacali potrebbero prevedere criteri diversi da quelli previsti legislativamente, nella selezione del personale coinvolto nella procedura dei licenziamenti collettivi. I principi da rispettare permangono quelli di non discriminazione e razionalita`, vagliati anche sulla motivazione addotta nel licenziamento. Uno di questi criteri puo` essere la specializzazione del lavoratore in rapporto al settore in cui opera l’azienda.
Tale criterio ha avuto diverse declinazioni giurisprudenziali, che hanno interessato il piu` ampio ambito delle esigenze produttive aziendali e la fungibilita` della prestazione lavorativa in altre mansioni aziendali.
Infine, merita di menzione la scelta volontaria di porsi in mobilita`.
Molto spesso, nell’ambito di una procedura di licenziamento, la scelta di porsi in mobilita` viene usata come primo criterio di selezione, potendo gli stessi lavoratori aderirvi. La spontanea adesione trova molto spazio negli accordi sindacali e nei casi di accompagnamento dei lavoratori alla pensione. Rispetto ai criteri summenzionati occorre sottolineare che la giurisprudenza, al fine di limitare l’abuso del licenziamento collettivo, tende a concentrarsi sui riscontri fattuali dei criteri scelti dal datore di lavoro, per il quale l’obbligo di motivazione diviene sempre piu` incisivo.
La sussistenza del nesso logico-funzionale tra crisi aziendale e i criteri di scelta, oggi deve risultare ictu oculi, e va giustificata tanto al principio del licenziamento, nella comunicazione, quanto nella fase esecutiva di esso.
Al fine di porre in essere la individuazione dei soggetti da sottoporre alla procedura di mobilita` e` necessario che il datore di lavoro segua obbligatoriamente dei criteri quali espressamente stabiliti dall’art. 5 della Legge n. 223 del 1991: ossia i carichi di famiglia, l’anzianita` del lavoratore, e le esigenze tecniche- produttive e organizzative dell’impresa. L’applicazione di tali criteri sopraindicati deve essere valutata secondo correttezza e buona fede, non potendo in ogni caso – anche in deroga ai principi indicati nell’art. 5 summenzionato dare attuazione a licenziamenti di natura discriminatoria ne´ irrazionale. Infatti, con riferimento alle lavoratrici ‘‘e` discriminatorio e produce gli effetti reintegratori e risarcitori di cui all’art. 18, comma 1, della l. n. 300 del 1970, il licenziamento collettivo di lavoratrici intimato in violazione dell’art. 5, comma 2, della l. n. 223 del 1991, quando la percentuale femminile di manodopera licenziata e` superiore a quella delle addette alle medesime mansioni proprie dell’ambito aziendale interessato dalla procedura’’ (Cass. n. 14254/2019).
In merito alla disciplina applicabile ai soggetti assunti obbligatoriamente di cui alla L. n. 68 del 1999 ‘‘nel caso di licenziamento collettivo, la violazione della quota di riserva prescritta dall’art. 3 della l. n. 68 del 1999 rientra nell’ipotesi di ‘‘violazione dei criteri di scelta’’ in quanto assunti in contrasto con espressa previsione legale, ai sensi dell’art. 5, comma 3, della l. n. 223 del 1991, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, st.lav. novellato, quale opzione interpretativa rispettosa del dettato normativo e conforme alla finalita` della disciplina – anche sovranazionale – in materia, posta a speciale protezione del disabile’’ (Cass. lav. n. 26029/2019). Anche le convinzioni personali rientrano tra le ipotesi di discriminazione nella scelta del datore di lavoro nell’individuazione del lavoratore da licenziare. La giurisprudenza infatti afferma che in ‘‘tema di parita` di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, nell’espressione ‘‘convinzioni personali’’, richiamata dagli artt. 1 e 4 del D.Lgs. 216 del 2003, caratterizzata dall’eterogeneita` delle ipotesi di discriminazione ideologica estesa alla sfera dei rapporti sociali, va ricompresa la discriminazione per motivi sindacali, tenuto conto che l’affiliazione sindacale rappresenta la professione pragmatica di una ideologia, di natura diversa da quella religiosa, connotata da specifici motivi di appartenenza ad un organismo socialmente e politicamente qualificato a rappresentare opinioni, idee e credenze, suscettibili di tutela in quanto oggetto di possibili atti discriminatori vietati’’ (Cass. civile sez. lav. n. 1/2020).
La complessa procedura di messa in mobilita` di cui agli artt. 4, 5, e 24 della Legge n. 223/1991 prevede una serie di fasi procedurali precise nonche´ di specifici requisiti la cui inosservanza porta all’illegittimita` del licenziamento.
La Cassazione a tal proposito afferma che e` stato introdotto un fondamentale elemento innovativo in tale puntuale procedura di licenziamento consistente ‘‘nel passaggio dal controllo giurisdizionale, esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell’iniziativa imprenditoriale, concernente il ridimensionamento dell’impresa, devoluto ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica gia` collaudata in materia di trasferimenti di azienda. In tale quadro, i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa, non riguardano piu` gli specifici motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo), ma la correttezza procedurale dell’operazione (ivi compresa la sussistenza dell’imprescindibile nesso causale tra progettato ridimensionamento e singoli provvedimenti di recesso)’’ (Cass. n. 15765/2020).
Per cui il giudice non valuta il merito della giustificatezza del recesso datoriale, come avviene nella fattispecie per giustificato motivo oggettivo ma accerta unicamente la correttezza procedurale dell’operazione e l’esistenza del nesso di causalita` tra il progettato ridimensionamento aziendale e i singoli provvedimenti di recesso (Cass. n. 2197/2020). Infine e` da osservare come la violazione delle procedure e quella della violazione dei criteri di scelta porti ad esiti differenti: infatti nel primo caso, il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennita` risarcitoria onnicomprensiva; nel secondo caso, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, come espressamente dichiarata dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 12095/2016.
La violazione della procedura di riduzione del personale comporta conseguenze diverse anche a seconda della data di assunzione dei lavoratori licenziati.
 Illegittimita` della procedura dei lavoratori assunti sino al 6 marzo 2015 (art. 5, comma 3, L. n. 223/1991):
– senza il rispetto della forma scritta, comporta l’applicazione del regime di tutela reale di cui all’art. 18, comma 1, L. n. 300/1970, ovvero reintegrazione nel posto di lavoro e indennita` commisurata all’ultima retribuzione globale maturata dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito nel periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attivita` lavorative e comunque non inferiore a 5 mensilita`; in alternativa, su richiesta del lavoratore (entro 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza o dell’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore), indennita` sostituiva della reintegrazione. Resta ferma la corresponsione dell’indennita` risarcitoria;
– senza il rispetto delle procedure di licenziamento (di comunicazione preventiva dell’intenzione di ridurre il personale, di consultazione sindacale, di comunicazione dell’elenco dei lavoratori licenziati), comporta l’applicazione della tutela prevista per i licenziamenti economici ai sensi dell’art. 18, comma 7, terzo periodo, L. n. 300/1970, ovvero risoluzione del rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e indennita` risarcitoria omnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilita` dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianita` del lavoratore;
– in violazione dei criteri di scelta comporta l’applicazione della tutela reale prevista per i casi piu` gravi di licenziamenti disciplinari illegittimi, ovvero la reintegrazione nel posto di lavoro e una indennita` commisurata all’ultima retribuzione globale maturata dal momento del licenziamento all’effettiva reintegrazione, comunque non superiore a 12 mensilita`. Il datore di lavoro deve altresı` versare i contributi previdenziali e assistenziali per il periodo intercorrente dal giorno del licenziamento sino all’effettiva reintegrazione.
A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro 30 giorni dall’invito del datore di lavoro. Qualora i lavoratori il cui rapporto si sia risolto in violazione dei suddetti criteri di scelta vengano reintegrati nel posto di lavoro, il datore di lavoro puo` licenziare un numero di lavoratori pari a quelli reintegrati, previa comunicazione alle RSA e nel rispetto dei criteri di scelta, senza dover esperire una nuova procedura sindacale (art. 17, L. n. 223/1991).
La tutela reale di cui al richiamato art. 18 dello Statuto dei lavoratori, non si applica al recesso intimato da datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attivita` di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto (art. 24, comma 1-ter, L. n. 223/1991).
Nei confronti di tali soggetti, infatti, nei casi di inefficacia e/o di annullabilita` del licenziamento collettivo, trovano applicazione le disposizioni di cui alla L. n. 604/1966 in materia di licenziamenti individuali (art. 24, comma 1-quater, L. n. 223/1991).
Infine, con riferimento al licenziamento collettivo dei dirigenti, la L. n. 161/2014 (Legge europea 2013-bis), ha introdotto un apposito regime sanzionatorio nel caso in cui siano stati violati le procedure e/o i criteri di scelta dei dirigenti: in entrambi i casi la sanzione consiste nel pagamento da parte dell’impresa o del datore di lavoro non imprenditore in favore del dirigente di una indennita` in misura compresa tra 12 e 24 mensilita` dell’ultima
retribuzione globale di fatto, avuto riguardo alla natura e alla gravita` della violazione, salve le diverse previsioni sulla misura dell’indennita` contenute nei contratti e negli accordi collettivi (art. 24, comma 1-quinquies, L. n. 223/1991).
 Lavoratori assunti dal 7 marzo 2015
Nei confronti dei lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, in caso di licenziamento collettivo intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio della reintegrazione previsto dall’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015 (licenziamenti nulli); in caso di violazione delle procedure di licenziamento o dei criteri di scelta si applica, invece, il regime indennitario di cui all’art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 23/2015 (art. 10, D.Lgs. n. 23/2015).
Per fronteggiare l’emergenza sanitaria ed economica da COVID-19 (Coronavirus), e` stato introdotto il divieto di eseguire licenziamenti collettivi inizialmente dall’art. 46 del Decreto c. d. Cura Italia (D.L. n. 18/2020) fino alla data del 17 maggio; tale divieto e` stato successivamente prorogato con il Decreto c.d. Rilancio (D.L. n. 34/2020) e con il Decreto Agosto (D.L. 14 agosto 2020, n. 104).
Da ultimo, l’art. 12, commi 9 e 11, D.L. n. 137/2020 (c.d. Decreto Ristori) proroga al 31 gennaio 2021 il divieto di avviare procedure di licenziamento collettivo e la sospensione delle procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020.
Le preclusioni e le sospensioni non si applicano nelle seguenti ipotesi:
 cessazione definitiva dell’attivita` dell’impresa;
 fallimento, quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa, ovvero ne sia disposta la cessazione;
 accordo collettivo aziendale, stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente piu` rappresentative a livello nazionale, di incentivo alla risoluzione del rapporto di lavoro, limitatamente ai lavoratori che aderiscono al predetto accordo.
Molte di queste pronunce hanno avuto ad oggetto la chiusura di un ramo aziendale o di un settore della società, ed il conseguente impossibile reimpiego dei lavoratori licenziati collettivamente.
Il requisito della professionalita` e` stato meglio espresso dalla Cassazione nella sentenza del 5 settembre 2018, n. 21670, con motivazione di questo tenore: ‘‘non puo` essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perche´ impiegati nel reparto lavorativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalita` equivalente a quella di addetti ad altre realta` organizzative’’.
Egualmente e` stato enunciato il principio di diritto per il quale: ‘‘…qualora un’azienda debba ridurre il personale a seguito di chiusura di un reparto o di un’unita` produttiva, la scelta dei dipendenti da porre in mobilita`non puo` essere limitata ai soli addetti al reparto o all’unita`da sopprimere, ma va necessariamente estesa a tutti i lavoratori con professionalita` fungibili,’’ (Cass. n. 22788/2016).
Il criterio della fungibilita` della prestazione viene anche ad essere utilizzato quale principio di reimpiego del lavoratore: qualora si proceda ad un licenziamento settorializzato o di reparto, sul datore di lavoro permane l’onere di provare le motivazioni rispetto alle professionalita` scelte e l’incompatibilita` tra i dipendenti oggetto di licenziamento e i colleghi esclusi da esso (cfr. Cass. n. 3175/2018).
Particolare attenzione e` stata data, nella fase di accertamento del nesso causale tra il licenziamento collettivo e le esigenze aziendali, ai profili di professionalita`, da valutarsi come piu` o meno utili rispetto all’attivita` d’impresa.
Specificazione di tale criterio e` rappresentato dall’alta specializzazione del lavoratore: esso attiene alla coincidenza del profilo professionale del lavoratore con il settore in cui opera l’impresa.
Da ultimo la giurisprudenza della Suprema Corte ha ribadito che il’’ criterio di selezione dell’alta specializzazione risulta dunque piu` funzionale, rispetto ai criteri di legge (anzianita`di servizio e carichi familiari) eventualmente derogati dall’accordo sindacale, per scongiurare la cessazione dell’attivita` e, quindi, per tutelare l’occupazione, poiche´ consente la prosecuzione delle’attivita` aziendale con un impatto minimo sui livelli occupazionali dell’impresa.’’ (Cass. n. 31872/2018).
In questo caso il principio dell’alta specializzazione e` stato considerato legittimo perche´ il ricorso ai menzionati criteri di legge risultava essere del tutto insufficiente allo scopo di salvaguardare la prosecuzione dell’attivita` produttiva.

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