Come è noto, la reintegrazione nel posto di lavoro di un dipendente da parte del datore, è stata introdotta nell’ordinamento italiano con l’articolo 18, legge n. 300/1970 (c.d. “Statuto dei lavoratori). Si tratta, dunque, di un rimedio che consente al datore che abbia illegittimamente licenziato un proprio dipendente, il quale abbia ottenuto tale riconoscimento in sede giudiziale, di riammetterlo nella posizione lavorativa da questi precedentemente occupata. Una volta appurate queste condizioni preliminari, il datore cui sia stato giudizialmente imposto di provvedere alla reintegrazione ha l’obbligo di farlo entro termini e modalità particolari. Di seguito, un’approfondita analisi di presupposti e conseguenze del delicato momento del ricongiugimento tra datore e lavoro a seguito di sentenza che abbia appurato l’illegittima condotta del primo verso il secondo.

Ipotesi di licenziamento che prevedono la reintegrazione
La normativa nazionale sull’illegittimità del licenziamento e sulle sue conseguenze è stata per lungo tempo oggetto di numerose modifiche e integrazioni, soprattutto negli ultimi anni. Ad oggi, al fine di stabilire quale sia il trattamento riservato al lavoratore che sia stato ingiustamente licenziato, un elemento di discrimine risulta necessario: la data di assunzione a tempo indeterminato (o di conversione del lavoro a tempo indeterminato). A seconda che ciò sia avvenuto prima o dopo il 7 marzo 2015, infatti, si fa riferimento, nel primo caso, ai c.d. “vecchi assunti”; nel secondo, invece, si parla della categoria dei c.d. “neoassunti”. Preliminarmente, occorre sottolineare che per entrambe le categorie ora citate e a prescindere dal requisito dimensionale che l’azienda datrice di lavoro soddisfa, laddove il licenziamento venga riconosciuto dal giudice nullo, discriminatorio o intimato in forma orale, o ancora laddove sia stato accertato dal giudice che il licenziamento sia stato comminato difettando di giustificazione per motivi relativi alla salute e disabilità fisica o psichica del lavoratore – in tutti questi casi, il datore sarà costretto a reintegrare il lavoratore nel suo vecchio posto di lavoro, e dovrà riconoscergli anche un indennizzo corrispondente alla retribuzione dovuta dal giorno del licenziamento al giorno di effettiva reintegrazione. Si noti che, con riferimento ai “vecchi assunti”, questo particolare regime viene definito come “tutela reintegratoria piena” – a seguito della sua applicazione, oltre che alla reintegrazione nel vecchio posto di lavoro, il datore è condannato ad indennizzare il lavoratore con una somma commisurata alla retribuzione da questi percepita, la quale non può comunque essere inferiore alla cifra corrispondente a cinque mensilità (non sono previsti, invece, limiti massimi). Con riferimento a tale previsione, peraltro, è bene sottolineare che il lavoratore ha comunque facoltà di scelta, potendo egli preferire alla reintegrazione un indennizzo maggiore, pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto – una tale scelta, comporta tuttavia la risoluzione del rapporto lavorativo. Analizzando, invece, le singole situazioni nel dettaglio, la reintegrazione è prevista solo in determinate circostanze. Con riferimento ad i c.d. “vecchi assunti”, se il datore di lavoro supera le soglie di cui all’art. 18, legge n. 300/1970 (unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale) si applicano i regimi così come modificati dalla c.d. legge “Fornero”, n. 92/2012. Nello specifico, detta riforma prevede la possibilità che il datore venga condannato alla reintegrazione del dipendente in soli due casi, i quali vengono identificati come regimi di tutela “reintegratoria piena” – di cui si è parlato nel paragrafo precedente – e “reintegratoria attenuata”. In quest’ultimo caso – che si applica quando non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa per insussistenza del fatto contestato o perché il fatto rientra fra le condotte punibili con una sanzione conservativa – il giudice condanna il datore di lavoro non solo alla reintegrazione nel posto di lavoro, ma anche ad un indennizzo commisurato alla retribuzione con il limite di 12 mensilità (oltre al versamento dei contributi previdenziali per tutto il periodo dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione). Se, invece, il datore non supera le soglie di cui supra, per il lavoratore illegittimamente licenziato è prevista la possibilità di un mero indennizzo (i singoli casi sono disciplinati dalla legge n. 604/1966). Con riferimento, invece, ai c.d. “neoassunti” pertanto, lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato formalizzato dopo la data del 7 marzo 2015 – ad essi si applicano le regole di cui al D.Lgs. n. 23/2015 (e successive modificazioni), le quali prevedono la possibilità che il lavoratore illegittimamente licenziato venga reintegrato nel proprio posto di lavoro solo qualora il licenziamento sia avvenuto in un contesto lavorativo che superi le soglie di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, laddove esso si sia verificato per giusta causa o giustificato motivo soggetto, e solo se il dipendente riesca a dimostrare in giudizio la insussistenza del fatto materiale che ha comportato il licenziamento che, dunque, il giudice riterrà manifestamente illegittimo. Laddove le circostanze del caso concreto non rispettino i requisiti appena elencati, al dipendente può solo essere concesso di ricevere un mero indennizzo, mentre il rapporto di lavoro resta inevitabilmente risolto.

Reintegrazioni, azioni esecutive e incoercibilità
Una volta che il giudice adito abbia appurato l’illegittimità del licenziamento, nonché il verificarsi delle condizioni che comportano l’ordine di reintegra del lavoratore in capo al datore, quest’ultimo deve, inevitabilmente, provvedervi. Da un punto di vista meramente pratico, il datore che si trovi in una situazione di tal sorta deve fare tutto quanto è in suo potere per far sì che il lavoratore illegittimamente licenziato possa tornare a ricoprire il proprio posto di lavoro. In questo senso, è molto chiara la Suprema Corte di cassazione, che in non recenti sentenze (n. 9125/1990 e n. 112/1988) si è così espressa: “nel posto di lavoro comporta non soltanto la riammissione dei lavoratore nell’azienda […] ma anche un indispensabile ed insostituibile comportamento attivo del datore di lavoro di carattere organizzativo-funzionale, consistente, fra l’altro, nell’impartire al dipendente le opportune direttive, nell’ambito di una relazione di reciproca ed infungibile collaborazione”. In particolare, il datore deve reinserire il lavoratore nella posizione precedentemente occupata, non limitatamente ai profili retributivi e sindacali, ma dando piena attuazione dell’effettivo significato della parola “reintegrazione”, cioè “restituire in integro”, così come specificato dalla stessa Corte di cassazione (sentenza n. 9956/2012). Peraltro, è necessario, come già detto, che il datore non si limiti a consentire al lavoratore un mero rientro sostanziale: egli deve provvedere al suo inserimento, anche formale, nel ciclo produttivo dell’azienda – in assenza di una tale condizione, la decisione del giudice non potrebbe dirsi effettivamente eseguita. In considerazione di quanto sinora specificato, l’evenienza che il posto di lavoro in precedenza appartenuto al lavoratore illegittimamente licenziato sia stato assegnato ad un soggetto terzo, è irrilevante. A livello puramente pragmatico, non sono previste particolari formalità che il datore debba porre in essere al fine di eseguire correttamente l’obbligo impostogli: sarà sufficiente che questi presenti un invito a riprendere l’attività lavorativa al dipendente, specificando le mansioni alle quali egli sarà assegnato ed esplicando in maniera concreta la posizione che egli andrà a coprire, così da consentire una immediata ripresa dell’attività. Una volta ricevuto l’invito, il lavoratore ha l’onere di presentarsi sul luogo di lavoro entro 30 giorni, superati i quali l’obbligo del datore si considera comunque eseguito, anche laddove il rapporto lavorativo – stavolta per una mancanza del dipendente – non riesca a proseguire.
Il concetto dell’incoercibilità dell’obbligo di reintegra cui il datore è eventualmente condannato dal giudice adito è stato a lungo dibattuto da autorevole dottrina. In generale, detto obbligo viene definito in tal senso in forza della sua infungibilità, per cui nessuno, ad eccezione del datore stesso, può darvi esecuzione. Secondo l’orientamento ormai pacifico della Suprema Corte di cassazione, l’obbligo di reintegrazione imposto al datore è incoercibile nel senso che esso non è suscettibile di esecuzione in forma specifica, poiché costituisce una condotta infungibile da parte del datore, unico e solo legittimato a porla effettivamente in essere. Peraltro, una tale visione dell’incoercibilità di detto obbligo esclude qualsiasi tipo di responsabilità in tal senso in capo al lavoratore: l’incoercibilità comporta che l’unico legittimato attivo sia il datore di lavoro colpevole di aver intimato un licenziamento illegittimo, e che pertanto è l’unico a dovervi porre rimedio.

Mancata esecuzione da parte del datore di lavoro
È possibile talvolta, nonostante l’esistenza di una sentenza di condanna del datore, che quest’ultimo agisca comunque in senso contrario ad essa: nello specifico caso di cui alla presente trattazione, può succedere che l’azienda datrice di lavoro decida di non reinserire il lavoratore nella sua vecchia posizione. Naturalmente, questo comporta un’incrinazione della posizione del datore, cui inevitabilmente si farà carico di tutti i costi che una tale decisione comporta. In tal senso, infatti, si ricordi che oltre alla reintegrazione, il lavoratore ha diritto a vedersi corrisposte le mensilità cui avrebbe avuto diritto se il licenziamento – riconosciuto illegittimo – non fosse mai avvenuto. Fintanto che il lavoratore non ritorna nella sua posizione, tale retribuzione deve continuare ad essere versata, senza che il datore riceva in cambio un’effettiva prestazione lavorativa: questa è il primo svantaggio a scapito del datore che si rifiuti di eseguire la decisione dell’autorità competente. Oltre a ciò, ovviamente, il lavoratore ha la facoltà di agire per l’esecuzione di quanto disposto in sede giudiziaria, oltre che per richiedere il danno di demansionamento contro il datore che, non reinserendolo nell’ambiente lavorativo che
gli competa, ha potenzialmente aggredito la sua professionalità. Inoltre, per il datore che non dia esecuzione alla decisione del Giudice, si profilano inevitabilmente anche delle ipotesi sul piano penale. Tuttavia, la Suprema Corte ha escluso ipotesi estreme quali la condanna al reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, di cui all’art. 388 c.p. In una sentenza del 2015, infatti (n. 6777), essa chiarisce – ricordando che il caso in questione faceva riferimento ad un procedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c – che “non integra il reato previsto dall’art. 388, comma secondo, cod. pen. la mancata ottemperanza all’ordine del giudice civile impartito ex art. 700 cod. proc. civ. ed avente ad oggetto la reintegrazione di un dipendente nel posto di lavoro (Cass. pen. n. 33907/2012); è stato difatti osservato come, stante la tecnicità del lessico utilizzato dal legislatore nel parlare di “proprietà, di possesso e di credito”,l ’art. 388 cod. pen. abbia mutuato dal diritto civile il proprio apparato concettuale, da cui la conseguenza che resta esclusa la configurabilità di tale reato in relazione alle situazioni in cui il provvedimento cautelare non sia stato emesso a tutela di un diritto di credito in senso stretto, pur potendo verificarsi che dal vulnus operato in danno del titolare della situazione soggettiva derivino conseguenze economiche negative. A tale riguardo, ossia in relazione alle conseguenze patrimoniali che il lavoratore subisce per il ritardo nell’esecuzione dell’ordine di reintegra nel regime di tutela reale ex art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (nella formulazione ratione temporis applicabile), il danno è predeterminato dal legislatore, con riferimento alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione, ferma la possibilità di allegazione di un danno patrimoniale ulteriore”.
Un caso particolare: la reintegrazione in altra unità produttiva Una particolare declinazione della condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro è rappresentata dalla decisione del datore di assegnare il dipendente ad una diversa unità produttiva. Ciò, naturalmente, si qualifica come un arguto aggiramento della decisione del giudice, comportando, tale condotta, una situazione comunque simile a quella del licenziamento: se è vero che il lavoratore continuerà formalmente ad essere un effettivo dipendente, è anche vero che difficilmente vi saranno contatti con la realtà lavorativa dalla quale egli era stato illegittimamente allontanato. Ovviamente, operare in questo modo comporta una totale violazione del concetto di reintegrazione così come inteso dalla giurisprudenza di legittimità, nel senso già chiarito supra. Peraltro accade talvolta che, invece di ricorrere ad una differente unità produttiva, il datore tenda a rivalersi sul lavoratore a seguito della decisione del giudice, riammettendolo sul luogo di lavoro ma assegnandogli una posizione diversa: una tale condotta è suscettibile di integrare un demansionamento a scapito del lavoratore, perpetrando ancora una volta quegli effetti lesivi a danno di quest’ultimo che l’annullamento del licenziamento illegittimo da parte del Giudice aveva – teoricamente – ristorato. Quello discusso è un caso particolare di aggiramento della sentenza (e, in generale, delle previsioni normative che comportano l’istituto della reintegrazione). La Suprema Corte è stata investita della questione nel lontano 1999 (sentenza n. 3248), con riferimento al caso specifico in cui il datore di lavoro, condannato alla reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, vi aveva dato seguito inserendolo non solo in una diversa unità produttiva, ma anche assegnandogli un diverso tipo di mansioni. L’orientamento della Cassazione, naturalmente, condanna un tale aggiramento della condanna del datore, specificando che l’esecuzione debba avvenire in modalità aderenti a quelle indicate nella sentenza in oggetto allo specifico procedimento. Una previsione di tal sorta – chiarisce la Corte non annulla in alcun modo i poteri di cui all’art. 2103 c.c. riconosciuti in capo al datore: egli ha la facoltà, una volta reintegrato in maniera corretta il dipendente, di trasferirlo laddove ricorrano comprovate esigenze tecniche, organizzative o produttive, così come normativamente stabilito.

Orientamento della Suprema Corte: la sentenza n. 24772/2019
Il caso di cui alla sentenza in titolo al presente paragrafo risulta di particolare interesse ai fini dell’odierna trattazione. Nella fattispecie, sollevava eccezioni di fronte alla Suprema Corte una lavoratrice, precedentemente illegittimamente licenziata (a seguito di licenziamento collettivo) e poi reintegrata nella propria posizione lavorativa in forza di relativa sentenza del giudice adito. Successivamente al ritorno della dipendente in azienda, alla stessa veniva intimato nuovo licenziamento – stavolta individuale – sulla base delle stesse motivazioni di quello precedente. Il ragionamento della Corte ha tenuto in considerazione il fatto che il licenziamento collettivo (il primo subito dalla lavoratrice) fosse stato dichiarato illegittimo a causa della violazione dei criteri di scelta necessari in casi di licenziamento collettivo. In generale, ha sostenuto la Corte che “per costante giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. n. 106/2013, nn. 23042 e 19089/2018 nonché Cass. n. 22357/2015 e n. 19104/2013), in ipotesi di licenziamento in regime di tutela reale, il lavoratore che sia stato reintegrato nel posto di lavoro può essere nuovamente licenziato da parte del datore di lavoro solo sulla base di una diversa ragione giustificatrice. È ammissibile una successiva comunicazione di recesso dal rapporto da parte del datore medesimo, purché il nuovo licenziamento si fondi su una ragione o motivo diverso e sopravvenuto”. Tenendo conto del fatto che le motivazioni addotte al riconoscimento dell’illegittimità del primo licenziamento (collettivo) facessero riferimento a motivazioni sostanziali, e non meramente formali o procedurali, la Suprema Corte ha proseguito asserendo che “di recente, si è affermato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto per gli stessi motivi già addotti a fondamento di un precedente licenziamento collettivo dichiarato illegittimo (nella specie, soppressione della posizione lavorativa) realizza uno schema fraudolento ex art. 1344 cod. civ., il cui accertamento deve essere condotto dal giudice di merito in base ad una valutazione unitaria e non atomistica di ulteriori indici sintomatici dell’intento elusivo, quali la mancata ottemperanza del datore all’ordine giudiziale di reintegra e la contiguità temporale del secondo recesso (Cass. n. 23042 del 2018)”. All’esito delle considerazioni della Suprema Corte testé riportate, dunque, essa decideva nel senso di accogliere la parte del ricorso in cui la lavoratrice lamentava l’illegittimità del licenziamento individuale sulla base di motivazioni già in precedenza ritenute illegittime: il lavoratore reintegrato può essere licenziato per ragioni essenzialmente diverse da quelle già oggetto di discussione.

Successivi mutamenti della condizione del datore Ordinanza della Suprema Corte n. 1888/2020
La Corte di cassazione si è espressa sul punto il 20 gennaio scorso, offrendo alcuni chiarimenti più che necessari e utili a comprendere con maggiore chiarezza l’istituto e le tutele offerte, specie quando le vicende successive alla declaratoria da parte del giudice modificano la possibilità del datore di adempiervi. Nel caso di specie, un dipendente promuoveva un giudizio perché venisse dichiarata la illegittimità del licenziamento intimatogli, e ciò effettivamente accadeva. Tuttavia, nel corso del tempo necessario al raggiungimento della sentenza, l’azienda datrice di lavoro affrontava una grave crisi economica, diventando essa causa di un ingente mutamento della sua situazione organizzativa e patrimoniale, tale da non consentire la prosecuzione del rapporto lavorativo – ovviamente, a questo punto, per cause diverse da quelle poste a motivazione del licenziamento illegittimo. Nel caso di specie, la prosecuzione del rapporto era decisamente impossibile, trovandosi l’azienda in cessazione totale della propria attività. La Corte ribadisce, nella sentenza in esame, di essersi già espressa sul caso (cfr. sentt. nn. 12245/1991; n. 12249/1991; n. 1815/1993; n. 7189/1996) chiarendo che una tale condizione sia manifestamente una causa impeditiva della prosecuzione del rapporto di lavoro. L’ulteriore chiarimento che l’Ordinanza tuttavia offre riguarda il rigore con cui le condizioni di difficoltà economica del datore debbano essere analizzate, poiché è assolutamente necessario, al fine di tutelare al meglio il lavoratore già penalizzato dalle condotte del datore, l’effettiva impossibilità della prestazione lavorativa. Chiarisce infatti la Suprema Corte che“la reintegra è un effetto della pronuncia emessa ex art. 18 Stat. estranea all’esercizio di diritti potestativi del datore di lavoro, che quindi in ogni momento può dedurne la totale o parziale inapplicabilità al caso oggetto di lite […]. La tutela reale del posto di lavoro non può spingersi fino ad escludere la possibile incidenza di successive vicende determinanti l’estinzione del vincolo obbligatorio”. In tali casi, il giudice potrà solamente condannare il datore al risarcimento del danno in favore del dipendente.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO