Al datore di lavoro sono riconosciuti diversi poteri nei confronti dei propri dipendenti. Se, in generale, egli deve poter esercitare liberamente l’attività economica riconosciutagli dalla Carta costituzionale, ciò deve essere fatto nel pieno rispetto dei diritti e della dignità dei propri sottoposti. Detti poteri, dunque, trovano una specifica elencazione all’interno dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970); tra essi sono ricompresi quello direttivo (il quale consente al datore di impartire ordini e direttive relativi alla realizzazione della prestazione oggetto del rapporto lavorativo), quello di controllo o vigilanza (in forza del quale il datore ha facoltà di assicurarsi che l’attività del dipendente venga correttamente posta in essere attraverso il controllo operabile sulla stessa, anche tramite l’utilizzo di impianti audiovisivi, purché lecitamente in tal senso autorizzato); infine, è riconosciuto in capo al datore il potere disciplinare (di cui all’art. 2106 c.c.), di rilevante interesse per l’argomento dell’odierna discussione. Quando il datore riscontra una non corretta esecuzione dell’attività lavorativa da parte del proprio dipendente, egli ha facoltà di “riprenderlo” attraverso diversi strumenti che la legge gli riconosce in tal senso.

Tipologie di sanzioni
A seconda della gravità della violazione in cui il lavoratore incorre, il datore può ricorrere a diverse forme di sanzioni. Prima fra tutte, il dipendente può ricevere un mero richiamo verbale, il quale – tendenzialmente – non comporta alcuna conseguenza: funge da semplice avvertimento e, proprio per questo, è l’unica sanzione che, al fine di essere comminata, non richiede alcuna specifica accortezza formale. È necessario, invece, che diversi requisiti siano soddisfatti laddove il datore ritenga che il dipendente abbia agito con maggiore gravità. In questi casi, è possibile ricorrere a:

  • ammonizione scritta – con la quale si mette a conoscenza del lavoratore il malcontento del datore per iscritto, conferendo alla comunicazione stessa una certa formalità;
  • multa – strumento attraverso il quale viene sancito il passaggio dai meri ammonimenti alla comminazione di una vera e propria “punizione”, avendo essa carattere di sanzione pecuniaria. La multa comporta una trattenuta direttamente sulla busta paga del lavoratore ed incontra, nella determinazione del suo quantum, la misura massima della somma corrispondente a quattro ore della retribuzione base di norma riservata al dipendente;
  • sospensione – la quale non può avere una durata superiore a dieci giorni. Durante questo periodo – mantenendosi così l’aspetto pecuniario della sanzione – il dipendente non percepisce la corrispondente retribuzione che gli sarebbe spettata se avesse continuato a prestare la propria attività lavorativa;
  • trasferimento – cioè il provvedimento con cui il datore – non per esigenze di carattere organizzativo relativo all’amministrazione dell’azienda sposta il luogo dell’esecuzione della prestazione lavorativa da una sede ad un’altra (ovviamente, a tale sanzione si fa ricorso laddove le circostanze lo rendano possibile);
  • licenziamento -èl ’extrema ratio, la punizione più severa cui il datore può fare ricorso – ciò si verifica ogni qualvolta l’inadempimento da parte del datore sia estremamente grave, e se nessuna delle forme sanzionatorie precedentemente esposte possono considerarsi efficaci in alcun modo. In tali casi, si tratterà di un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo a seconda della gravità della condotta posta in essere dal dipendente.

Il codice disciplinare
Come si è avuto modo di chiarire, perché la sanzione disciplinare (eccezion fatta per la mera ammonizione verbale) venga correttamente contestata al lavoratore, è necessario che essa soddisfi determinati requisiti. Primo fra tutti, il datore deve inizialmente predisporre un regolamento aziendale, conforme alla normativa vigente, nonché al Contratto collettivo nazionale del lavoro di riferimento, all’interno del quale verranno con precisione indicati i comportamenti sanzionati e le corrispondenti sanzioni; esso, per essere considerato efficace e produttivo di effetti, va reso perfettamente accessibile alla totalità dei dipendenti che siano destinatari delle suddette norme e, pertanto, affisso in luogo visibile a tutti. Con particolare riferimento al codice disciplinare, si sottolinea che ad esso si fa riferimento al comma 1 dell’art. 7, Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970). In tal senso, appare estremamente rilevante quanto statuito dalla Suprema Corte, riunita a Sezioni Unite, nella sentenza n. 1208 del 5 febbraio 1988, di particolare rilievo in quanto risolutiva di un contrasto che sino a quel momento aveva animato le aule dei Tribunali del Lavoro. In particolare, come riportato nella prefata sentenza stessa, taluni sostenevano che la norma in questione prevedesse come chiara “la conoscenza che ciascun lavoratore deve avere del c.d. codice disciplinare perché sia legittima la irrogazione delle sanzioni stabilite per i comportamenti previsti come illeciti. Per raggiungere tale risultato, il legislatore ha indicato il mezzo più idoneo, ma non esclusivo, perché il datore possa adempiere l’onere di mettere a conoscenza i dipendenti delle norme disciplinari, adempiuto il quale, la conoscenza è presunta. Secondo tale opinione, la norma ha efficacia obbligante per quanto concerne il risultato (conoscenza ovvero conoscibilità delle norme), efficacia puramente indicativa o permissiva per quanto riguarda il mezzo (affissione)”; altri, invece, ritenevano che “la norma non si limita ad esigere il risultato, ma prevede ed impone in via esclusiva anche il mezzo per conseguirlo. Ne consegue che ogni qualvolta il datore abbia omesso l’affissione, adottando altri mezzi di comunicazione (consegna del contratto collettivo contenente le disposizioni in materia disciplinare o di un estratto riferentesi soltanto a queste ultime sono le ipotesi più frequenti), il potere non può essere esercitato, anche se può presumersi la conoscenza del codice da parte del singolo lavoratore, al quale si vuole irrogare la sanzione, o, addirittura, risulti che egli, di fatto, ne era a conoscenza”. A fronte di un tale contrasto, la Suprema Corte si è fatta risolutrice dell’annosa questione, risolvendola in positivo – nel senso, dunque, di ritenere il codice disciplinare quale atto unilaterale ricettizio con funzione normativa. E ciò, in forza di quanto segue, reso nelle parole stesse della sentenza citata: “Una volta stabilita la natura del codice disciplinare, occorre ad esso applicare la norma dello art. 1334 c.c., la quale prescrive che ‘gli atti unilaterali producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona cui sono destinati’. E, in tale applicazione, è necessario tener conto delle peculiarità del codice disciplinare per quanto concerne la sua funzione e la sua destinazione. Se, come si è visto, il codice disciplinare è, e deve essere unico, e se sua destinataria è la collettività indeterminata, anche perché continuamente variabile, dei lavoratori, ne consegue che in tanto esso avrà effetti in quanto sia stato reso noto, o – (per la necessità di servirsi di presunzioni per la prova di stati interni dei soggetti) – conoscibile alla collettività cui è destinato. Senza tale conoscibilità il codice disciplinare è improduttivo di effetti e come se non esistesse in quanto atto giuridico. Dalle considerazioni esposte, consegue che la opzione del legislatore a favore dell’affissione, rispetto ad altri ipotizzabili mezzi di esteriorizzazione, già risultante dalla letterale formulazione della norma, non è arbitraria, né meramente indicativa, ma prescrittiva ed esecutiva, in quanto trova la sua ‘ratio’ nella natura e funzione dello atto cui si riferisce. Tale convinzione esce rafforzata dal ribadito rilievo che, per la connessione esistente nell’azienda tra il comportamento di ciascuno e quello degli altri e, quindi, anche tra quelli di chi abbia poteri di indirizzo e di controllo sui subordinati e la condotta di questi ultimi (art. 2104, 2 comma c.c.), non è concepibile che, in sede di concreta applicazione delle norme disciplinari, se ne possa revocare in dubbio l’esistenza e l’efficacia nei confronti di taluno. L’affermazione che l’affissione è il mezzo esclusivo diposizione del codice disciplinare non può essere inficiata dal richiamo al generale principio di libertà delle forme. Gli esposti argomenti di carattere letterale e sistematico inducono, infatti, a ritenere che proprio al detto principio si è voluto derogare. Né possono venire in questione, al fine dell’efficacia delle norme disciplinari, mezzi diversi di comunicazione in concreto da ritenere equipollenti, o, in via generale previsti dalla contrattazione collettiva (art. 40, legge n. 300/1970), ogni qualvolta, come nel caso in esame, essi riguardino i lavoratori uti singuli e non la collettività di dipendenti”.
Condotte sanzionabili, peraltro, sono non soltanto quelle che scaturiscono, come appena detto, dalla descrizione di cui al regolamento disciplinare dell’azienda, ma anche quelle che siano facilmente riconoscibili dal dipendente quali illecite, o comunque che chiaramente comportino conseguenze negative all’interno dell’ambiente lavorativo – quelle, cioè, che violano gli obblighi di diligenza, fedeltà ed obbedienza, cui il lavoratore deve adeguarsi nella prestazione della propria attività.

Contestazione disciplinare: i requisiti
Come già detto, se il datore intende sanzionare un proprio dipendente, a meno che la violazione non sia di tenue entità e perciò richieda un mero richiamo verbale, è necessario che la sua comminazione venga preceduta da un elemento formale, quale quello della contestazione. Si tratta, nello specifico, della comunicazione, proveniente dal datore al lavoratore, dell’inizio di una indagine che abbia ad oggetto il valore – eventualmente lesivo – di una condotta di quest’ultimo, ovviamente posta in essere sul luogo di lavoro e che abbia ad oggetto o sia inerente l’attività lavorativa. La ratio dell’importanza affidata alla contestazione disciplinare è quella di consentire al dipendente che ne sia suo destinatario di difendersi, laddove ritenga che le motivazioni che hanno portato il datore ad una tale decisione siano prive di fondamento. A norma di legge, la contestazione disciplinare deve essere contestuale alla violazione che si intende rendere oggetto di indagine, senza null’altro prevedere con riferimento alle tempistiche entro cui deve esserne data comunicazione al lavoratore. L’elemento fondamentale, tuttavia, va ri
cercato nella forma richiesta della contestazione: a pena di nullità, essa deve essere scritta; andrà pertanto consegnata al lavoratore a mani, o anche tramite servizi postali (ad esempio, le raccomandate a/r) che ne attestino l’avvenuta ricezione. La Suprema Corte si è spesso esposta su quali debbano essere i requisiti di una contestazione che adempia al proprio compito di informazione del dipendente. Sulla base dei principi estrapolabili dalle numerose sentenze relative a detto argomento, è possibile elencare tre requisiti fondamentali:

  • tempestività: come già detto, la contestazione disciplinare deve giungere al dipendente senza ritardo rispetto alla condotta che il datore intende, eventualmente, contestare. Si tratta di un concetto abbastanza flessibile, modificandosi esso in base, ad esempio, al luogo di lavoro – può succedere, ad esempio, che una grande azienda abbai bisogno di un certo periodo di tempo per eseguire un controllo valido su quegli elementi che il datore possa ritenere prova di inadempimento da imputare al proprio dipendente. Pertanto, il concetto di tempestività andrà adattato, di volta in volta, al singolo caso di specie (cfr. sent. Cass. 15 giugno 2016, n. 12337);
  • specificità: con la sentenza n. 10662 del 15 maggio 2014, la Suprema Corte statuisce che, affinché la contestazione disciplinare non presenti alcuna fallacia, essa deve indicare in maniera precisa i fatti che il datore riconosce quali inadempimenti del datore; riportando le parole della Corte nella citata sentenza, infatti, “la previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione di tutte le sanzioni disciplinari, non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, come accade nella formulazione dell’accusa nel processo penale, assolvendo esclusivamente alla funzione di consentire al lavoratore incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa”;
  • immutabilità: i fatti che vengono contestati nella relativa lettera inviata al dipendente devono restare i medesimi per cui, eventualmente, questi verrà sanzionato. Ciò implica che, a seguito – ad esempio – di lettera di giustificazione del lavoratore, il datore non potrà rispondervi con ulteriori condotte o diversi inadempimenti da quelli sollevati in sede di contestazione. È quanto la stessa Corte di Cassazione ha chiarito nella sentenza n. 11868 del 9 giugno 2016: “il principio della immutabilità dei fatti posti a fondamento della sanzione disciplinare è finalizzato, al pari di quello relativo alla necessaria specificità della contestazione, a garantire il diritto di difesa del lavoratore incolpato, diritto che sarebbe compromesso qualora si consentisse al datore di lavoro di intimare il licenziamento in relazione a condotte rispetto alle quali il dipendente non è stato messo in condizione di discolparsi”. Peraltro, nella stessa sentenza, viene chiarito cosa la Corte effettivamente intenda per “modifica” della contestazione: “non si verifica una modifica della contestazione nel caso in cui la condotta contestata resti invariata e mutino solo l’apprezzamento e la valutazione della stessa poiché in tal caso, ove non vengano in rilievo nuove circostanze di fatto, il diritto di difesa non risulta in alcun modo compromesso.” Sembrerebbe, dunque, che la Suprema Corte indichi quale limite per eventuali modifiche della condotta contestata quello del diritto di difesa del dipendente, il quale si erge a valore intoccabile e ratio dell’esistenza stessa di requisiti della contestazione.

La sentenza della Cassazione n. 431/2019
Con la sentenza n. 431/2019 la Suprema Corte si è espressa sul punto confermando quanto sinora stabilito. Nel caso di specie, un lavoratore alle dipendenze prima dell’Asp di Ragusa e poi dell’Inps (in forza delle previsioni legislative di cui al D.Lgs. n. 165/2001) impugnava il licenziamento disciplinare intimatogli in forza della sentenza penale che lo aveva condannato per fatti integranti il reato di truffa aggravata. In primo grado, il Tribunale di Ragusa si era espresso in favore delle datrici di lavoro, decisione poi impugnata in sede di appello dall’ex dipendente (che peraltro proponeva domanda riconvenzionale circa la restituzione di somme da lui trattenute nel corso del rapporto lavorativo). Il Tribunale, in particolare, sottolineava che la sanzione disciplinare comminatagli non giungeva con ritardo al dipendente “ragione della genericità delle affermazioni del ricorrente circa il fatto che l’Inps fosse informato dei fatti prima della comunicazione della pendenza del processo penale, a seguito del quale l’Istituto si impegnava tempestivamente”.
Sebbene siano numerose le questioni di diritto affrontate nella sentenza in argomento, di seguito si riporta una breve analisi di quelli che risultano più rilevanti con riferimento alla presente trattazione. Elemento di rilevante interesse ricopre, ai fini della presente trattazione, le motivazioni sollevate dalla difesa del ricorrente, la quale si appellava ad un principio proposto dalla stessa Suprema Corte, in forza del quale debba tenersi separato ed indipendente il procedimento disciplinare rispetto a quello in sede penale, nel caso esso riguardi lo stesso soggetto. Secondo la Cassazione, infatti (sentenza Cass., sez. Unite, n. 5448/2012) “il giudicato penale non preclude in sede disciplinare una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale, posto che sono diversi i presupposti delle rispettive responsabilità: deve invero restare fermo il solo limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità, operato dal giudice penale cosicché, se è inibito al giudice disciplinare di ricostruire l’episodio posto a fondamento dell’incolpazione in modo diverso da quello risultante dalla sentenza penale dibattimentale passata in giudicato, sussiste tuttavia piena libertà di valutare i medesimi accadimenti nell’ottica dell’illecito disciplinare, con la conseguenza per la quale il giudice disciplinare non è vincolato dalle valutazioni contenute nella sentenza penale là dove esse esprimano determinazioni riconducibili a finalità del tutto distinte rispetto a quelle del giudizio disciplinare”. Nel rigettare i motivi di impugnazione dell’ex dipendente, la Corte ribadisce (come già aveva avuto modo di fare nella richiamata sentenza n. 5284/2017) che, specialmente in sede di impiego pubblico, una volta che vi sia stato un giudicato penale, è riconosciuta al datore di lavoro statale una certa discrezionalità nel decidere se i motivi di condanna del proprio dipendente rivestano una certa importanza, tale da portare ad una sanzione disciplinare che, eventualmente, finisca per diventare un vero e proprio licenziamento. È dunque vero che i due procedimenti viaggiano su binari paralleli, ma senza dubbio una Pubblica Amministrazione deve avere la libertà di tener conto delle condanne penali che gravano sui propri dipendenti. Così, infatti, spiega la Suprema Corte nella sentenza in argomento: “Il giudicato penale non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità – e dunque, della ricostruzione dell’episodio posto a fondamento dell’incolpazione – operato nel giudizio penale (Cass., S.U., n. 14344/2015)”.
Tema centrale, tuttavia, riguarda il requisito della tempestività della contestazione. Trattandosi, infatti, di questioni legate al proprio trascorso penale, il ricorrente sosteneva che detto elemento gli fosse stato contestato in ritardo rispetto ai fatti oggetto delle indagini penali che lo aveva visto protagonista. A fronte di detta motivazione, la Suprema Corte, facendo particolare riferimento alla particolare condizione del dipendente pubblico, chiariva che: “i termini previsti dalla contrattazione collettiva per la contestazione dell’addebito, destinati ad entrare in vigore con la costituzione dell’ufficio competente per la contestazione disciplinare da essa previsto, sono alternativi a quelli previsti dall’art. 5, quarto comma [legge n. 165/2001 … ] prevedendo che il procedimento disciplinare debba avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, debba proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare e che il procedimento debba concludersi, salvi termini diversi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro, entro centottanta giorni dal termine di inizio o di proseguimento, fermo quanto disposto dall’art. 653 c.p.p.”.

Le azioni in favore del dipendente
A chiusura di quanto sinora detto, si ricordi che, una volta che il lavoratore abbia ricevuto una contestazione disciplinare che risulti rispettosa dei requisiti e degli elementi appena elencati, egli ha a disposizione 5 giorni di tempo (a meno che non sia diversamente indicato dal datore stesso) dalla sua ricezione per presentare una lettera di giustificazioni finalizzata, appunto, a spiegare i motivi della condotta sanzionata; se lo desidera, egli ha altresì facoltà di chiedere di fare lo stesso oralmente, comparendo personalmente di fronte a chi ha inviato la contestazione. Si sottolinea che, in questo secondo caso, il dipendente potrà essere assistito da un sindacalista che lo coadiuvi nel presentare correttamente le proprie giustificazioni. Se lo ritiene necessario, al posto di questa figura può accompagnare il dipendente anche l’avvocato di questi, purché tale eventualità sia stata preliminarmente sottoposta al vaglio del datore di lavoro, che potrebbe liberamente respingere tale richiesta, senza che questa decisione possa in alcun modo essere appellata. A questo punto, il datore potrà decidere se comminare o meno la sanzione indicata nella contestazione. Laddove decidesse nel primo senso, il lavoratore avrà un ulteriore strumento di tutela: potrà impugnare il documento che lo abbia sanzionato di fronte al giudice del lavoro competente, e dare inizio ad un procedimento vero e proprio, o presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro, o fare ricorso alle alternative procedure eventualmente proposte dal proprio Ccnl di riferimento.

Cass. sentenza n. 431/2019
Fatti di causa

  1. La Corte d’Appello di Catania, con la sentenza n. 65/2017, ha rigettato l’impugnazione proposta da G.G. nei confronti dell’Inps e dell’Azienda sanitaria provinciale di Ragusa avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Ragusa tra le parti.
  2. Il G., dipendente prima dell’Asp di Ragusa e poi, a seguito di mobilità D.Lgs. n. 165/2001, ex art. 30 dell’Inps, impugnava il licenziamento disciplinare comminatogli con notifica del 23 agosto 2010, in relazione a fatti integranti il reato di truffa aggravata, per il quale era stata pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna. L’Inps, costituitosi, proponeva domanda riconvenzionale per la restituzione del residuo di un credito concesso al ricorrente e solo in parte restituito. Il Tribunale rigettava la domanda principale e accoglieva quella riconvenzionale e condannava il G. al pagamento della somma di euro 15.198,38 (detratto l’importo eventualmente già a tale titolo trattenuto dal datore di lavoro) e delle spese processuali in favore di entrambi i resistenti.
  3. Il giudice di secondo grado ricorda che il Tribunale aveva affermato che, quanto ai fatti ascritti al ricorrente, trovava applicazione l’art. 653 c.p.p., e che le condotte accertate in sede penale costituivano giusta causa di licenziamento.Non sussisteva ritardo nella contestazione disciplinare in ragione della genericità delle affermazioni del ricorrente circa il fatto che l’Inps fosse informato dei fatti prima della comunicazione della pendenza del processo penale, a seguito del quale l’Istituto si attivava tempestivamente. Inoltre, la domanda riconvenzionale non era stata contestata da parte del ricorrente. Quindi la Corte d’Appello riteneva corretta l’affermazione del Tribunale circa la portata dell’art. 653 c.p.p., comma 1-bis, e che vi era l ’accertamento della sussistenza e della commissione del fatto contestato penalmente al G., consistente nell’assenza dal lavoro per malattia mentre in realtà negli stessi giorni presiedeva la Commissione medica di Catania, inducendo in errore l’Ausl n. (Omissis) di Ragusa col presentare false certificazioni mediche. In relazione al rilievo disciplinare dello stesso, riteneva esente da censure la valutazione del primo giudice. Inoltre, concordava sulla tempestività della contestazione disciplinare, atteso che il semplice fatto che il superiore gerarchico avesse segnalato alla Procura le frequenti assenze del ricorrente, riferendo, altresì, quanto riferitogli da altri colleghi circa la coincidenza con le sedute della Commissione di verifica di Catania, di cui il G. era presidente, non consentiva di affermare che il datore di lavoro fosse a conoscenza dei fatti successivamente posti a base del licenziamento disciplinare e, quindi, in grado di effettuare la contestazione disciplinare, atteso che, solo l’acquisizione dei verbali delle sedute della Commissione, consentiva di acquisire quel minimo di certezza necessaria per procedere ad una qualche incolpazione nei confronti di un dipendente. Nel momento in cui l’Asl aveva avuto conoscenza del rinvio a giudizio non era più datore di lavoro e occorreva fare riferimento al nuovo datore di lavoro Inps, per verificare se il decorso del tempo dalla conoscenza dei fatti potesse essere inteso come espressione della volontà di non esercitare il potere disciplinare. Inoltre, andava escluso che un eventuale ritardo potesse compromettere il diritto di difesa dell’interessato, attesa la partecipazione al processo penale.
  4. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre il G. prospettando quattro motivi di ricorso.
  5. Resistono con controricorso sia all’Inps, che l’Azienda sanitaria provinciale di Ragusa.
  6. In prossimità dell’udienza pubblica, il ricorrente ha depositato memoria

Ragioni della decisione

  1. È preliminare riepilogare i termini della vicenda. Il G., dirigente medico della Ausl (Omissis) di Ragusa, transitava all’Inps a far data dal 1° settembre 2006, D.Lgs. n. 165/2001, ex art. 30. Lo stesso ricopriva anche la carica di Presidente della Commissione medica di verifica di Catania. In data 23 agosto 2010 gli veniva comminata la sanzione disciplinare del licenziamento, a seguito della contestazione disciplinare effettuata dall’Inps il 13 giugno 2008, sollevata, come si legge nel ricorso (pag. 3) in relazione alla omessa comunicazione della pendenza di un giudizio penale a proprio carico, nonché per i fatti oggetto del procedimento penale, definito con sentenza di condanna del Tribunale di Ragusa 95/2008 per il reato di truffa ex art. 640 c.p.p., perché nella qualità di medico legale presso la Ausl n. (Omissis) di Ragusa, inducendo in errore la Ausl col presentare false certificazioni mediche, si procurava l’ingiusto profitto dell’assenza dal lavoro per malattia, mentre in realtà negli stessi giorni presiedeva la Commissione medica di Catania. In data 5 agosto 2005 il dott. P., direttore della struttura complessa di medicina legale della azienda Asl di Ragusa, aveva reso dichiarazioni spontanee alla Procura della Repubblica di Ragusa, quando il ricorrente era dipendente della suddetta Ausl, lamentando le assenze dal lavoro da parte dello stesso. Il 18 settembre 2006 era stata comunicata all’Azienda sanitaria provinciale di Ragusa il decreto di rinvio a giudizio. La sentenza penale di condanna veniva emessa dal Tribunale di Ragusa il 20 febbraio 2008-18 aprile 2008, n. 95/2008, e il 5 giugno 2008 il direttore dell’Ausl (Omissis) la comunicava all’Inps (tali dati presenti a pag. 3 del controricorso dell’Inps non sono contestati).
  2. Tanto premesso, si osserva che in tema di procedimento disciplinare nei confronti di dipendente in regime di pubblico impiego contrattualizzato, la nuova disciplina procedurale, di cui al D.Lgs. n. 150/2009, si applica ai fatti disciplinarmente rilevanti per i quali la notizia dell’infrazione risulti acquisita dagli organi dell’azione disciplinare dopo l’entrata in vigore della riforma, ossia dal 16 novembre 2009 (Cass., n. 11985/2016).
    2.1. Pertanto, alla luce della successione cronologica degli eventi, non trova applicazione la novella del D.Lgs. n. 150/2009. 3. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 653 c.p.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n.
  3. Errata interpretazione della fattispecie astratta delineata dall’art. 653 c.p.p., comma 1, in relazione all’esatta configurazione dei limiti posti al sindacato del giudice disciplinare.
    3.1. Il ricorrente, dopo aver ricordato il contenuto della disposizione invocata, richiama la giurisprudenza di legittimità di cui alla sentenza Cass. n. 5448/2012 sull’autonomia del giudizio disciplinare rispetto a quello penale.Precisa che, nella specie, non era stata accertata la fisica presenza del ricorrente presso le Cmv in giornate in cui lo stesso era assente dal servizio presso la Ausl per malattia, ad es. a mezzo intercettazioni e/o pedinamenti, ma la stessa era stata desunta dai c.d. fogli presenza acquisiti in sede di indagini preliminari, ritenuti dal giudice penale idonei a provare “al di là di ogni ragionevole dubbio la presenza dell’imputato nei locali della commissione medica di verifica di Catania nei medesimi giorni in cui risultava assente dal lavoro per motivi di malattia,” e ciò in ragione della natura di atti pubblici e fidefacenti dei predetti verbali di seduta. Tuttavia, rileva il ricorrente, tali verbali sono destinati a provare la verità solo in relazione al compimento degli accertamenti sanitari non già in relazione alla presenza fisica dei componenti della Commissione, finalità estranea alla disciplina legale sul funzionamento delle commissioni mediche di verifica. Pertanto, il fatto materiale accertato nel giudizio penale avrebbe riguardato solo l’esistenza dei cd. fogli presenza non certo la presenza fisica del ricorrente alle sedute della Commissione medica di verifica in giornate coincidente con quelle di assenza dal posto di lavoro per malattia. Il Giudice di appello avrebbe quindi errato nell’individuare in modo corretto il fatto materiale la cui sussistenza è stata accertata penalmente incorrendo nella errata applicazione delle norme di legge. La Corte d’Appello avrebbe dovuto procedere a valutare autonomamente l’idoneità dei soli fatti accertati in sede penale, unitamente alle allegazioni delle parti.
    3.2. Il motivo non è fondato. L’efficacia delle sentenze penali nel giudizio disciplinare è regolata dall’art. 653 c.p.p., che attribuisce efficacia di giudicato alla sentenza penale irrevocabile di assoluzione e a quella di condanna, rispettivamente quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l’imputato non lo ha commesso e quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Va rilevato, inoltre, che l’equiparazione della sentenza applicativa della pena patteggiata alla sentenza di condanna, espressamente prevista a determinati fini già dalla legge 19 marzo 1990, n. 55, opera ora anche ai fini del procedimento disciplinare. Questa Corte ha già avuto modo di rilevare (Cass., n. 5284/2017) che in tema licenziamento disciplinare del pubblico dipendente, venuta meno la cd. pregiudiziale penale, l’amministrazione è libera di valutare autonomamente gli atti del procedimento penale, ai fini della contestazione, senza necessità di una ulteriore ed autonoma istruttoria, e di avvalersi dei medesimi atti, in sede d’impugnativa giudiziale, per dimostrare la fondatezza degli addebiti. Il giudicato penale non preclude, in sede disciplinare, una rinnovata valutazione dei fatti accertati dal giudice penale attesa la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità, fermo solo il limite dell’immutabilità dell’accertamento dei fatti nella loro materialità – e dunque, della ricostruzione dell’episodio posto a fondamento dell’incolpazione – operato nel giudizio penale (Cass., S.U., n. 14344/2015). Nella specie la Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, atteso che ha affermato che l’accertamento della sussistenza del fatto e della illiceità penale dello stesso non poteva che riguardare il fatto contestato penalmente al G., ossia l’essersi procurato un ingiusto profitto, consistente nell’assenza dal lavoro per malattia mentre in realtà negli stessi giorni presiedeva la Commissione medica di Catania, inducendo in errore l’Ausl n. (Omissis) di Ragusa col presentare false certificazioni mediche, la sua rilevanza penale in quanto integrante il reato di truffa e l’affermazione che il G. lo abbia commesso, così come contestato in sede penale. Dunque, il profilo di censure con cui si afferma che i verbali della Commissione medica non erano riferibili alla presenza fisica del ricorrente contestano l’accertamento di fatto compiuto dalla sentenza penale (né è riportato un contenuto della sentenza penale del Tribunale di Ragusa diverso da quello riportato dalla sentenza di appello) e non la valutazione degli stessi operata dalla Corte d’Appello che vi ravvisava, come il giudice di primo grado, grave inadempimento agli obblighi contrattuali anche di tipo comportamentale, idoneo ad interrompere il rapporto di fiducia ed affidamento che deve connotare il rapporto di lavoro.
  4. Con il secondo motivo di ricorso è dedotto l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Omesso esame delle timbrature presenza e della deposizione del dott. I. (all. g ed e, fascicoletto ex art. 369, comma 2, n. 4). Nei precedenti gradi di giudizio il dott. G. aveva provato mediante le timbrature delle presenze relative al periodo gennaio/agosto 2005 (coincidente con quello contestato in sede penale) di essere stato regolarmente in servizio presso la Ausl (Omissis) di Ragusa in giornate coincidenti con sedute di visita medica della Cmv sebbene, sebbene dai cd. fogli presenza acquisiti dalla Procura, nelle predette giornate il ricorrente risulterebbe presente alle sedute della Cmv (allegati 30 e 31 del fascicolo di primo grado, all. h. e g, fascicoletto ex art. 369, comma 2, n. 4). In ragione di ciò, assume il ricorrente, era evidente che lo stesso in dette giornate non poteva trovarsi alle cd. riunioni della Cmv (150 Km di distanza). Il dott. I. aveva testimoniato che i verbali della Cmv provavano solo la partecipazione del medico alla valutazione, ma non la presenza dello stesso nelle giornate delle sedute, in coerenza con la disciplina di settore.La Corte d’Appello non aveva argomentato in ordine all’emergente contrasto tra quanto risultante dalle timbrature presenze presso la Ausl, la testimonianza del dott. I. e quanto invece emergente dal processo penale in relazione alla Cmv.
    4.1. Il motivo è inammissibile. È applicabile alla fattispecie l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo modificato dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11 agosto 2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti. Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., S.U., n. 19881/2014 e Cass., S.U., n. 8053/2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, sicché quest ’ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perché non si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi. Tale evenienza non si riscontra nella fattispecie in esame in cui la sentenza di appello dà conto del ragionato percorso motivazione logico-giuridico.
  5. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165/2001, art. 55 dell’art. 20 del Ccnl Comparto sanità medici e veterinari dirigenti dell’8 giugno 2000, della legge n. 300/1970, art. 7 e dell ’art. 36 del Ccnl Comparto sanità medici e veterinari dirigenti del 5 dicembre 1996, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3. Errata interpretazione della fattispecie legale della c.d. mobilità interna, in relazione alla censura di tardività della contestazione disciplinare. Erroneamente, la Corte d’Appello aveva interpretato e applicato le fonti sulla mobilità interna del dipendente pubblico, intendendo l’Inps quale datore di lavoro cui ricondurre l’obbligo di immediatezza della contestazione disciplinare, mentre avrebbe dovuto valutare l’adempimento di tale obbligo in capo all’Ausl n. (Omissis) di Ragusa. Ciò, tenuto conto che l’art. 20 del Ccnl di comparto del 2000 dispone che la mobilità non comporta novazione del rapporto di lavoro. Il ricorrente richiama, oltre alla pronuncia di primo grado, la sentenza di questa Corte a S.U. n. 26420/2006. Quanto alla tempestività della contestazione, occorreva avere riguardo al D.Lgs. n. 165/2001, art. 55 nonché all’art. 36 del Ccnl del 5 dicembre 1996. Il ricorrente quindi contesta che l’Ausl fosse venuta a conoscenza dei fatti solo a seguito del rinvio a giudizio, intervenuto successivamente al passaggio nei ruoli dell’Inps avvenuto il 1 settembre 2006, e cioè oltre un anno dopo i fatti oggetto delle indagini penali, atteso che le indagini in questione prendevano avvio a seguito delle dichiarazioni spontanee rese alla Procura della Repubblica di Ragusa il 5 agosto 2005 dal dott. P., direttore della struttura complessa di medicina legale della azienda Asl di Ragusa, quando il ricorrente era dipendente della suddetta Ausl. Da tale data, quindi, la Ausl aveva contezza dei fatti per avviare il procedimento disciplinare, con conseguente decadenza dall’esercizio del potere disciplinare ed illegittimità dell’intero procedimento disciplinare. Il decreto di citazione a giudizio del ricorrente veniva comunicato all’Ausl il 18 settembre 2006 e a tale data al più tardi andava verificata la tempestività della contestazione. Inoltre l’Azienda non aveva mai chiesto la visita medica domiciliare.
    5.1. Il motivo non è fondato. Va osservato, come ricordato sopra, che nella specie trova applicazione la disciplina anteriore al D.Lgs. n. 150/2009, atteso che la contestazione disciplinare interveniva nel 2008, e pertanto deve farsi riferimento alla legge n. 97/2001. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., n. 5806/2010) in materia di procedimento disciplinare per i pubblici dipendenti, a seguito dell’entrata in vigore della legge 27 marzo 2001, n. 97, recante norme sul rapporto fra procedimento penale e procedimento disciplinare, i termini previsti dalla contrattazione collettiva per la contestazione dell’addebito, destinati ad entrare in vigore con la costituzione dell’ufficio competente per la contestazione disciplinare da essa previsto, sono alternativi a quelli previsti dall’art. 5, comma 4, della legge citata per lo stesso ufficio a seguito della avvenuta comunicazione del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna del lavoratore incolpato. Tale ultima disposizione ha riformulato la disciplina della legge. n. 19/1990, art. 9, comma 2, prevedendo che il procedimento disciplinare debba avere inizio o, in casodi intervenuta sospensione, debba proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare e che il procedimento debba concludersi, salvi termini diversi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro, entro centottanta giorni dal termine di inizio o di proseguimento, fermo quanto disposto dall’art. 653 c.p.p. La legge n. 97/2001, art. 5, comma 4, stabilisce che: “Salvo quanto disposto dall’art. 32-quinquies c.p., nel caso sia pronunciata sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti dei dipendenti indicati nell ’art. 3, comma 1 ancorché a pena condizionalmente sospesa, l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego può essere pronunciata a seguito di procedimento disciplinare. Il procedimento disciplinare deve avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare (…)”. Il Ccnl di categoria non prevedeva particolari termini diversi, atteso che l’art. 35, commi 1-3, del Ccnl sanità dirigenti del 1996 sancisce: “1. Nel caso di recesso dell’azienda o ente, ai sensi dell’art. 2118 c.c., quest’ultima deve comunicarlo per iscritto all’interessato, indicandone contestualmente i motivi e rispettando, salvo che nel caso del comma 2, i termini di preavviso. 2. In caso di recesso per giusta causa si applica l’art. 2119 c.c. La giusta causa consiste in fatti e comportamenti, anche estranei alla prestazione lavorativa, di gravità tale da non consentire la prosecuzione, sia pure provvisoria, del rapporto di lavoro. 3. Nei casi previsti dai commi 1 e 2, l ’azienda o ente, prima di recedere dal rapporto di lavoro, contesta per iscritto l’eventuale addebito all’interessato convocandolo, non prima che siano trascorsi cinque giorni dal ricevimento della contestazione, per sentirlo a sua difesa (…)”. Nella specie il ricorrente invoca una disciplina non applicabile ratione temporis, mentre la disciplina che viene in rilievo faceva riferimento alla comunicazione della sentenza penale all’Amministrazione, che come assume il controricorrente interveniva il 5/11 giugno 2008, e la contestazione interveniva il 13 giugno 2008, né il ricorrente deduce alcunché in ordine alla definitività della sentenza di primo grado che non è contestata. Va altresì considerato che (Cass., n. 18299/2017, che richiama Cass., S.U., n. 26420/2006): “la regola per cui il passaggio da un datore di lavoro all’altro comporta l’inserimento del dipendente in una diversa realtà organizzativa e in un mutato contesto di regole normative e retributive, con applicazione del trattamento in atto presso il nuovo datore di lavoro (art. 2112 c.c.) è confermata, per i dipendenti pubblici, dal D.Lgs. n. 165/2001, art. 30, che, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dalla legge n. 246/2005, art. 16, comma 1, applicabile ratione temporis (punti 8, 9, 10 di questa sentenza) riconduce ormai in maniera espressa il passaggio diretto di personale da amministrazioni diverse alla fattispecie della “cessione del contratto” (art. 1406 c.c.), al cui schema dogmatico anche prima della modifica apportata nel 2005 questa Corte aveva riferito l’istituto della mobilità volontaria (Cass., S.U., n. 26420/2006 e n. 19250/2010; Cass. n. 2/2017, n. 24724/2014, n. 5949/2012)”. Dunque, i mutamenti nella titolarità dell’azienda non interferiscono con rapporti di lavoro già intercorsi con il cedente, che continuano a tutti gli effetti con il cessionario, con la conseguenza che questi subentra in tutte le posizioni attive e passive facenti capo al cedente. Ne consegue che il cessionario può esercitare i poteri disciplinari inerenti il rapporto di lavoro per fatti precedenti la cessione dell’azienda (cfr. Cass., n. 20221/2007).
  6. Con il quarto motivo di ricorso è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 342,346 e 434 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Il ricorrente critica la ritenuta inammissibilità, sulle questioni non trattate dal giudice di primo grado perché ritenute assorbite e riproposte in grado di appello, in quanto avulse da una critica alla pronuncia impugnata. Esso ricorrente aveva riproposto in appello le questioni non esaminate dal giudice di primo grado. Il giudice di primo grado non aveva motivato né sul danno non patrimoniale né in relazione agli ulteriori profili di illegittimità del licenziamento, quali la lesione del diritto di difesa e la genericità della contestazione disciplinare. Esso ricorrente aveva quindi riproposto in appello tali doglianze.
    6.1. Il motivo è in parte assorbito e non fondato, quanto ai profili relativi al risarcimento del danno e della violazione del diritto di difesa, in ragione della non fondatezza e inammissibilità dei motivi di ricorso che precedono e tenuto conto che, come si è sopra esposto, la contestazione disciplinare interveniva per i fatti e dopo la sentenza penale di condanna al cui processo il lavoratore poteva partecipare, e nel resto inammissibile, atteso che il ricorrente non riproduce, venendo meno all’obbligo di specificità delle censure anche ai fini della valutazione della rilevanza delle stesse, i motivi di impugnazione, quali quello sulla genericità della contestazione, che sottoposti alla Corte d’Appello non sarebbero stati vagliati.
    6.2. Il ricorso deve essere rigettato.
  7. Le spese eseguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
  8. Ai sensi del D.P.R. n. 115/2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principali dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida per ciascun controricorrente in euro 200,00 per esborsi, euro 4.500,00, per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115/2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

CONTENUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO