Come è noto, il rapporto di lavoro subordinato configura, in capo al dipendente, una serie di obblighi cui questi è tenuto nei confronti del proprio datore di lavoro. Tra questi, è appena il caso di annoverare il dovere di diligenza (ex art. 2014 c.c.) attinente alla modalità di espletamento della prestazione, quello di obbedienza con riferimento alle direttive in tal senso ricevute, ed il dovere di fedeltà, inerente al rapporto di fiducia intercorrente tra datore e lavoratore. È facendo riferimento a questi principi che è possibile dare una corretta lettura degli articoli 1175 e 1375, Codice civile, i quali ascrivono alla figura del lavoratore dipendente l’obbligo di eseguire la prestazione lavorativa secondo i principi di buona fede e correttezza.
Ovviamente, è opportuno tener conto, nel fornire un giudizio sul caso in argomento, della condizione soggettiva in cui si trovi il dipendente qualora il proprio superiore gli richiedesse di mettere in atto una condotta contra legem: se da un lato il lavoratore, in quanto cittadino, si sentirebbe in dovere di rispettare la legge, dall’altro il timore reverenziale scaturente dalla posizione di soggezione in cui si trova rispetto al proprio superiore lo porterebbe ad eseguire gli ordini di questi senza metterne in dubbio la provenienza, forse anche nella – come si vedrà in seguito – erronea convinzione che il rapporto di subordinazione possa proteggerlo da eventuali conseguenze della condotta illecita. Dallo scontro tra la fedeltà alla normativa e quella al proprio datore di lavoro, nasce una diatriba che ha interessato la recente giurisprudenza e la cui soluzione risulta di interessante epilogo per l’odierno approfondimento.
È bene chiarire che per “ordine illecito” debba intendersi ciascuna direttiva, richiesta nell’ambito del rapporto lavorativo, intesa a richiedere l’esecuzione di una condotta antigiuridica, instillando nel dipendente la erronea convinzione di eseguire una richiesta lavorativa legittimata dal rapporto gerarchico intercorrente tra i soggetti coinvolti. Nel senso giuridico del termine, dunque, l’ordine illecito è quello capace di ledere il diritto di altri individui singolarmente o collettivamente individuati.
Il dovere di rimostranza nel pubblico impiego
Con particolare riferimento all’ambito dell’impiego pubblico, esiste un istituto, il c.d. “diritto/dovere di rimostranza”, in forza del quale il dipendente pubblico ha la facoltà, laddove gli venga impartito un dovere sulla cui liceità egli sviluppi consistenti dubbi, di opporsi alla sua esecuzione, senza subire le conseguenze di quello che, formalmente, potrebbe essere letto come un inadempimento degli obblighi lavorativi. Sebbene la regola generale sia quella appena descritta, è opportuno sottolineare che alcune caratteristiche e modalità di fruizione di detto diritto – talvolta definito quale vero e proprio dovere in capo al dipendente – variano a seconda delle singole discipline approntate nei diversi Ccnl di riferimento.
Un interessante precedente in ambito di lavoro pubblico è quello offerto da una sentenza della Corte dei Conti, la n. 117/2014. Nel caso di specie, un dipendente statale cui era stata demandata l’esecuzione di un ordine illecito, ritenendo di essere al riparo da ogni responsabilità, proprio in forza della sua posizione di sottoposto rispetto al Dirigente che aveva emanato detto ordine, si accingeva ad eseguirlo. La Corte, tuttavia, ha ritenuto non giustificabile detto comportamento, condannando il dipendente al pagamento di una somma esorbitante a titolo di risarcimento nei confronti delle casse pubbliche. La Corte, in considerazione dell’ingente danno contro il patrimonio dello Stato, non ha operato alcuna differenza tra le cariche dei soggetti coinvolti, richiamandone la responsabilità di ciascuno senza distinzioni.
Peraltro, in merito a detto istituto si è altresì espresso il Consiglio di Stato (cfr. sent. n. 6208 del 15 dicembre 2008), chiarendone in qualche modo la natura. Nella sentenza appena citata, infatti, è stata asserita la non sussistenza di un vero e proprio obbligo posto in capo al dipendente di denunciare la comminazione di un ordine che questi ritenga illegittimo provenire da un proprio superiore (“Non sussiste, infatti, un obbligo incondizionato del pubblico dipendente di eseguire le disposizioni, ivi incluse quelle derivanti da atti di organizzazione, impartite dai superiori o dagli organi sovraordinati, posto che il dovere di obbedienza incontra un limite nella ragionevole obiezione circa l’illegittimità dell’ordine ricevuto”). Pertanto, grazie a detta sentenza, appare più indicato riferirsi alla rimostranza come una semplice facoltà riconosciuta in capo al dipendente, piuttosto che un rigido dovere. Una disciplina generica del c.d. “potere di rimostranza” – nella accezione, dunque, della sua “non-doverosità” – del pubblico impiegato è disciplinato dall’art. 17, D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3; esso riconosce la facoltà di questi di fare immediata e motivata contestazione a chi ha impartito l’ordine, e, solo nel caso in cui esso sia emesso per iscritto, il dipendente non può esimersi dall’eseguirlo, a meno che l’esecuzione non configuri un’ipotesi di reato (cfr. sent. Consiglio di Stato n. 6208 del 15 dicembre 2008).
Recenti indirizzi della Suprema Corte di Cassazione
Lo scorso gennaio la Suprema Corte si è espressa su un caso di interesse per la tematica in argomento. In particolare, una dipendente di Poste Italiane eseguiva una direttiva illegittima impostagli da un dirigente gerarchicamente superiore, ritenendo che, per questo, la sua responsabilità sarebbe venuta meno. In primo ed in secondo grado, le Corti territorialmente competenti avevano dato ragione alla Società datrice di lavoro, respingendo l’impugnazione del licenziamento comminato alla dipendente per aver eseguito ordini illeciti ricevuti dal proprio superiore. In base a queste pronunce, infatti, il licenziamento era stato ritenuto illegittimo in forza delle previsioni del Contratto collettivo nazionale di lavoro di riferimento, il quale disciplina la sanzione del licenziamento disciplinare per “qualsiasi fatto che dimostri piena incapacità ad adempiere adeguatamente agli obblighi di servizio ”.
Secondo la Corte di Catanzaro, invero, la dipendente non si era affatto resa inadempiente, avendo, semmai, portato a termine i compiti assegnati in maniera aderente alle direttive in tal senso imposte, senza considerarne l’elemento dell’illiceità. Nell’elaborare la motivazione di una sentenza in totale opposizione a quanto sinora descritto, invece, la Suprema Corte neppure si è soffermata sul contenuto degli ordini, senza chiarirne la loro natura. Anzi, la Cassazione ha fatto puntuale riferimento alla lettera della norma considerata, chiarendo che, sebbene nella normativa si parli di “obblighi”, nel caso di specie quelli imposti dal superiore al dipendente erano in effetti veri e propri “ordini” e, pertanto, l’articolo del Contratto collettivo nazionale di lavoro di riferimento non poteva essere considerato.
La sfumatura è sottile e merita una analisi brevemente dettagliata. La differenza fondamentale tra le due parole va ricercata nel campo semantico di appartenenza, laddove gli obblighi devono necessariamente essere ricompresi tra le normali funzioni ed i quotidiani compiti affidati ad un dipendente nell’ambito della prestazione della propria attività lavorativa. Al contrario, un “ordine” può essere imposto a chiunque sia gerarchicamente inferiore a chi lo emana, indipendentemente dal fatto che questi due soggetti siano legati da un rapporto lavorativo. Sulla base di questa sottile, ma consistente differenza, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza in appello, comparando così l’esecuzione di ordini illeciti all’inadempimento degli obblighi assunti in sede di accettazione dell’incarico lavorativo e riconoscendo come legittimo il licenziamento intimato al dipendente che aveva posto in essere le denunciate condotte. Infatti, la Suprema Corte ha argomentato che: “una volta accertato che il fatto contestato alla lavoratrice non poteva essere ricondotto sotto la fattispecie di cui all’art. 54, comma 5, lett. c), Ccnl, per non avere l’odierna ricorrente ‘neppure ipotizzato che un danno di qualunque tipo sia conseguito alle condotte addebitate’ (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata), nemmeno poteva ipotizzarsi la riconducibilità della condotta contestata alla fattispecie della successiva lett. g) (che prevede il licenziamento anche ‘per qualsiasi fatto che dimostri piena incapacità di adempiere adeguatamente agli obblighi di servizio’), dal momento che ‘nella vicenda oggetto di contestazione non si addebitava alla lavoratrice di non aver adempiuto ad ordini di servizio, ma l’esatto contrario: aver assecondato gli ordini e le sollecitazioni illegittime che le provenivano dalla direttrice […]”.
La pronuncia in questione consolida un orientamento già espresso dalla Suprema Corte nel 2013 con la sentenza n. 24334, nella quale l’Agenzia delle entrate intimava il licenziamento per giusta causa ad un proprio dipendente; questi, su ordine di un superiore, aveva proceduto a notificare dei verbali di accertamento senza prima provvedere ad altri adempimenti preventivi a ciò necessari ed altresì percependo, per l’attività così compiuta, una retribuzione assolutamente non dovuta. Un elemento interessante sottolineato nella sentenza in argomento riguarda il fatto che, in ossequio alle regole del Codice civile, sarà onere del datore di lavoro dimostrare che il dipendente fosse in grado di rappresentarsi il carattere illegittimo dell’ordine in quanto contrario a direttive generali già impartite o, comunque, agli interessi aziendali.
La Corte di Cassazione si è altresì pronunciata sul tema nel 2018 con la sentenza n. 23600: qui, una società datrice di lavoro licenziava un dipendente per aver contabilizzato dei lavori mai eseguiti. In entrambi i casi appena citati la Corte ha riconosciuto la legittimità del licenziamento impugnato, rafforzando il principio in base al quale il dipendente abbia il dovere di sindacare nel merito dell’ordine ricevuto che appaia manifestamente illegittimo, oltre, ovviamente, a quello di disattenderlo. All’ultimo anno citato risale, tuttavia, anche una ulteriore sentenza che però si pone in senso contrario a quanto appena esposto (nello specifico, cfr. sentenza Cass. n. 23878/2008). In essa la Suprema Corte confermava l’illegittimità del licenziamento comminato sulla base delle illiceità poste in essere dal dipendente; ciò veniva giustificato dal particolare ambiente lavorativo in cui questi si ritrovava ad operare, per sua natura costituito principalmente da numerose attività di natura illecita (si trattava, nello specifico, di luogo di lavoro in cui venivano adottate pratiche commerciali scorrette al fine di un guadagno ingiusto del titolare dell’attività).
Considerata tale peculiarità, la Corte non ha potuto estrapolare la singola esecuzione illecita, in quanto, la stessa si inseriva nella “normale” attività lavorativa che il dipendente prestava. Pertanto, nel caso in argomento, il licenziamento risultava illegittimo, offrendo così questa pronuncia, seppure basandosi su una fattispecie in fatto difforme alle precedenti esaminate, uno spunto per un ragionamento a contrario. Se, infatti, la Suprema Corte ritiene illegittimo il licenziamento che penalizzerebbe una singola condotta illecita a fronte di una intera attività non lecita, in una situazione opposta in cui una singola condotta contra legem si inserisce in un contesto di liceità – la valutazione sull’efficacia del licenziamento è stata giudicata in modo diametralmente opposto. Pertanto, sebbene, come detto, in contrasto con la tendenza generale della Corte, detta pronuncia non sembra, tuttavia, discostarsene.
L’articolo 51, Codice penale
Sotto il profilo penalistico, tra le cause di giustificazione che impediscono la punibilità di un reato eseguito sotto determinate condizioni, è ricompresa la previsione secondo la quale “l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della Pubblica Autorità esclude la punibilità. Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’Autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo. Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine” (art. 51, comma terzo, Codice penale). In generale, detta previsione si traduce nel diritto di qualunque soggetto cui venga impartito un ordine manifestamente illecito, di non darvi esecuzione, senza subirne conseguenze in merito alla responsabilità da inadempimento eventualmente rilevabile da chi l’ordine l’abbia impartito. Vi sono una serie di considerazioni da fare su quanto appena esposto. L’“errore di fatto” di cui al secondo comma dell’articolo citato deve essere interpretato in base alle prescrizioni ex art. 47, c.p. (“l’errore del fatto che costituisce il reato, esclude la punibilità dell’agente”) ogni qualvolta si riproponga una falsa rappresentazione della realtà materiale. Nelle fattispecie di cui in argomento, l’errore del dipendente che pone in essere, su ordine impartito dal proprio superiore, una condotta illecita, verte sul fatto che egli ritenesse, appunto per errore, che essa fosse in effetti lecita. Appare dunque chiaro che, in ambito penale, l’errore di fatto elimini la responsabilità dell’esecutore dell’ordine, cui non appariva manifestamente illecito.
Sebbene si tratti di due ambiti molto diversi, regolati da principi certamente differenti, è innegabile la connessione tra quanto appena esposto dal punto di vista penale e la chiara illiceità dell’ordine richiesto, in ambito civile e giuslavoristico, ai fini della possibilità – ad esempio – del dipendente pubblico di ricorrere al “diritto di rimostranza” (di cui supra); o, ancora, in merito alla valutazione dell’esistenza del requisito della conoscibilità della illiceità della condotta posta in essere dal dipendente, elemento tenuto in considerazione dai Giudici di legittimità nelle sentenze citate nei paragrafi precedenti. Le differenze appena esposte trovano la propria ratio nella differente natura (privata e pubblica) dei datori di lavoro, tale circostanza è la ragione e giustifica le differenti motivazioni analizzate, infatti, nell’ambito di un rapporto di lavoro in cui il datore di lavoro sia un’azienda privata nessuna delle due parti ha una funzione di Autorità, con tutte le inerenti conseguenze.
Profili penali
Con riferimento all’argomento di cui in trattazione, la Suprema Corte di Cassazione penale si è occupata di un caso certamente interessante con la sentenza n. 3394 del 2017. Nel caso di specie, ad un dipendente era stato impartito l’ordine, dal proprio datore di lavoro, di modificare la data di scadenza di alcuni prodotti alimentari presenti all’interno del punto vendita presso cui egli prestava attività lavorativa. L’articolo del Codice penale preso in esame dalla sentenza della Corte è il 515, rubricato: “frode nell’esercizio del commercio”. Già condannati in primo e secondo grado, tanto il dipendente coinvolto quanto il responsabile del punto vendita presentavano ricorso presso la Suprema Corte che, però, confermava la precedente condanna ed anzi, rinforzava detta decisione sottolineando la responsabilità, sebbene derivata, del lavoratore, specificando la impossibilità a ridefinirne la conseguente pena in considerazione della sua funzione di mero esecutore materiale dell’ordine illecito, portato a termine in forza del solo rapporto di superiorità gerarchica della persona che lo aveva impartito.
La Corte, infatti, giudicava che la paura della ritorsione, posta come a giustificazione della condotta del dipendente, non aiuta la sua condizione: la disobbedienza, di fronte alla lettera della legge, resta obbligatoria. Resta pertanto valida la condanna riservata al dipendente. A tutela della posizione del lavoratore era stato proposto dai legali di questi, all’esame dei giudici della Suprema Corte, la possibilità di far venir meno la responsabilità del dipendente imputando la condotta da questi tenuta allo stato di necessità ex art. 54 c.p., causato dal timore di ricevere ritorsioni a seguito del rifiuto di mettere in pratica ordini illeciti dal superiore o, ancora, alla scriminante ex art. 51 c.p., di cui si è meglio discusso supra. Nessuno dei due espedienti, tuttavia, è valso a scagionare il lavoratore, comunque ritenuto dalla Corte colpevole.
Conclusioni
A seguito di quanto sinora esposto, risulta naturale chiedersi quale atteggiamento debba tenere un datore di lavoro di fronte al dipendente che ponga in essere una condotta illecita su ordine di un proprio superiore. Secondo i criteri dettati dalle pronunce della Suprema Corte sulle quali ci si è soffermati supra, una situazione del genere sembrerebbe, tenute nel dovuto conto le singole circostanze del caso, dare la possibilità alla parte di comminare al lavoratore un licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c.c. (che, cioè, “non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”).
Come è noto, infatti, il concetto di giusta causa comprende al suo interno una lunga serie di situazioni dalle più diverse sfaccettature. Gran parte della dottrina, poi, ritiene che un comportamento che motivi un licenziamento per giusta causa non necessariamente debba riferirsi al rapporto lavorativo in essere o all’ambiente in cui esso si sviluppa, ma può anche afferire ad altri ambiti, purché le sue conseguenze si riverberino direttamente sul rapporto di lavoro stesso. In una definizione di tal sorta sembra effettivamente rientrare la condotta di un lavoratore nel senso sinora discusso: eseguire un ordine illecito, per quanto impartito da un superiore, giustifica certamente il venir meno della fiducia che un datore di lavoro onesto ponga nei confronti del proprio dipendente che agisca in tal modo. Non solo, la commissione di detto illecito ben potrebbe comportare delle conseguenze anche per il datore stesso. Si ricordi infatti che l’articolo 2049 c.c., rubricato “responsabilità dei padroni e dei committenti”, recita che “I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”.
Pertanto, in capo al datore di lavoro vige una responsabilità che si potrebbe dire oggettiva in merito alle azioni compiute dal proprio dipendente in ambito lavorativo. Alla luce di quanto supra, e al fine di rispondere al quesito posto nel titolo del presente articolo, occorre stabilire che, stando a quanto desumibile dalle recenti decisioni della Suprema Corte, il di
pendente non possa davvero dirsi liberato da ogni responsabilità laddove ponga in essere una condotta illecita su ordine di un superiore. Sebbene, dunque, possa ben comprendersi lo stato di difficoltà dettato dal potere detenuto dal superiore gerarchico che impartisce l’ordine, la volontà di metterlo in pratica deve necessariamente essere ricondotta in capo al lavoratore che si macchia dell’illiceità così compiuta, non potendosi giustificare la condotta in altro modo. Sulla scorta di quanto esposto, dunque, appare lecito chiarire che il lavoratore non debba mai porre in essere un ordine che egli abbia motivo di ritenere illecito, in considerazione dell’attività normalmente svolta sul luogo di lavoro e sulla natura della prestazione stessa. Pertanto, nei rapporti in cui sia vigente un vincolo di subordinazione, un ordine dovrà ritenersi illegittimo ogni qualvolta esso comporti la commissione di un reato o di un comportamento contrario a quelli normalmente richiesti all’interno di un sano rapporto lavorativo.