Lo strumento dell’arbitrato, concesso dall’ordinamento in favore delle parti che intendano sottrarre all’Autorità giudiziaria la trattazione e la decisione di questioni che le riguardino in luogo di soggetti privati dalle stesse individuati, rappresenta un’indubbia opportunità. Da sempre considerato il mezzo “principe” di risoluzione alternativa delle controversie, il ricorso all’arbitrato consente, da un lato, di garantire ai soggetti in questione (in via preventiva, prima dell’insorgere di qualsivoglia lite ovvero a controversia già insorta) che le figure chiamate alla decisione siano dotate di particolari competenze nel settore specifico in cui si esplica il rapporto tra le parti e, in ogni caso, che le stesse godano di un’assoluta fiducia.

Generalmente individuati tra gli avvocati e, talvolta, tra commercialisti, ingegneri, notai, gli arbitri permettono di addivenire, senza dubbio, ad una risoluzione delle questioni poste con una maggior celerità rispetto ad un ordinario procedimento innanzi all’Autorità giudiziaria, garantendo, con ciò, le stesse parti dai rischi connessi ad un’eccessiva durata del processo e pervenendo ad una decisione (contenuta in un lodo) i cui effetti possono equipararsi quasi integralmente ad una sentenza vera e propria. Al netto degli svantaggi dello strumento che, principalmente, attengono alla particolare onerosità (in termini di costi) per le parti, non v’è, peraltro, ragione di dubitare che l’apertura dell’ordinamento giuridico all’arbitrato e la libertà concessa a soggetti privati di esplicare l’autonomia negoziale non soltanto con riferimento alla disciplina dei propri rapporti contrattuali, ma anche alla fase patologica degli stessi, sia in linea con lo spirito della Carta costituzionale.

Ciò premesso, con riferimento al rapporto di lavoro e al relativo contenzioso le riflessioni di cui sopra mutano considerevolmente. Infatti, lo squilibrio contrattuale delle parti in tale ambito, che sta alla base dell’assoluta specialità della disciplina giuslavoristica rispetto alla generalità delle norme di diritto civile, si presta a venire in rilievo anche rispetto allo strumento in oggetto, in ragione dei possibili abusi a danno del prestatore di lavoro. Negli anni, quindi, il legislatore ha ritenuto opportuno intervenire a più riprese, talvolta ampliandone e talvolta restringendone la portata, ma, in ogni caso, prestando una particolare attenzione a che la flessibilità che contraddistingue l’istituto arbitrale non si traducesse in un sacrificio dei diritti del lavoratore.

Arbitrato e controversie di lavoro: evoluzione storica

Occorre sinteticamente richiamare i principali eventi che hanno contraddistinto l’istituto (in ambito lavoristico) e l’evoluzione della relativa disciplina. Con l’entrata in vigore del Codice di procedura civile italiano (approvato con il Regio decreto 28 ottobre 1940, n. 1443) e, probabilmente, in considerazione del forte “statalismo” che contraddistingueva le politiche del regime, si è inizialmente negata qualsivoglia possibilità di applicare l’arbitrato alla fattispecie del rapporto di lavoro. Nella sua originaria formulazione, infatti, l’art. 806 c.p.c. prescriveva un espresso divieto di ricorso agli arbitri per tutte le questioni lavoristiche, nonché di previdenza e assistenza obbligatorie. Il richiamato divieto, peraltro, è sopravvissuto alla caduta del regime e all’entrata in vigore della Costituzione italiana, probabilmente con finalità diverse rispetto all’epoca precedente, ancorate alla tutela del lavoratore più che al riconoscimento assoluto del monopolio dello Stato in ambito giurisdizionale.

Le prime aperture in tal senso, registrate in ambito legislativo, risalgono al 1959/1960. Alla legge 14 luglio 1959, n. 741 e al D.P.R. 14 luglio 1960, n. 1011 si deve, in particolar modo, il recepimento di taluni accordi intersindacali precedentemente stipulati dalle organizzazioni che prevedevano forme di arbitrato riservate alle controversie in materia di licenziamenti.

Nel 1966, poi, con l’approvazione della legge 15 luglio 1966, n. 604 (“Norme sui licenziamenti individuali”) e del relativo articolo 7, il legislatore ha offerto la possibilità al dipendente licenziato di ottenere una tutela avvalendosi di un particolare meccanismo conciliativo innanzi all’ufficio del lavoro, all’esito del quale il lavoratore e il datore di lavoro potevano decidere di porre fine alla controversia in maniera consensuale “mediante arbitrato irrituale” e senza, tuttavia, abrogare quanto disposto dall’art. 806 c.p.c.

Ancora, per mezzo dell’art. 4, legge 11 agosto 1973, n. 533 (“Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie”), pur mantenendo il divieto ex art. 806 c.p.c., si è introdotta una deroga a tale preclusione nell’ambito dell’art. 808 c.p.c. e, nello specifico, è stata prescritta la possibilità di devoluzione ad arbitri delle cause in oggetto in caso di espressa previsione all’interno dei “contratti e accordi collettivi di lavoro” e ciò purché rimanesse salva la facoltà “delle parti di adire l’autorità giudiziaria”.

In epoca successiva, il legislatore è ulteriormente intervenuto, riferendosi esplicitamente alla fattispecie dell’arbitrato irrituale, con le seguenti misure:

• previsione dell’attitudine del lodo, in materia di licenziamenti delle piccole e medie imprese, a costituire titolo esecutivo (legge 11 maggio 1990, n. 108, art. 5);

• introduzione degli artt. 412-ter e 412-quater e disciplina del procedimento arbitrale (modalità di devoluzione, composizione del collegio, procedura di nomina, modalità di istruttoria, termini), instaurato in seguito al fallimento del tentativo obbligatorio di conciliazione e se previsto dalla legge o da accordi collettivi (D.Lgs. n. 80/1998 e D.Lgs. n. 387/1998).

Orbene, detta evoluzione ha raggiunto il proprio punto di arrivo con l’approvazione del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, con riferimento all’arbitrato rituale, e della legge 4 novembre 2010, n. 183, per l’arbitrato irrituale, che rappresentano allo stato il quadro normativo vigente e che meritano, in questa sede, di essere analizzati separatamente.

Lavoro e arbitrato rituale

Come anticipato, con il citato D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 (“Modifiche al Codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato…”), il legislatore ha modificato, tra le altre, molte delle disposizioni del Codice di procedura civile riservate all’arbitrato e, segnatamente, a quello rituale. Leggendo la nuova formulazione dell’art. 806 c.p.c. si nota come, in linea generale, siano sottratte alla decisione degli arbitri le eventuali controversie che abbiano ad oggetto diritti indisponibili e, con specifico riguardo al rapporto di lavoro, rappresenta tutt’ora condizione imprescindibile per il ricorso allo strumento la previsione di tale possibilità in una norma di “legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro”. Un mero accordo delle parti, cristallizzato all’interno del contratto di lavoro ovvero pattuito successivamente, risulta, con ciò, assolutamente insufficiente in assenza del presupposto di cui sopra.

Occorre, tuttavia, interrogarsi sui concreti effetti di una pattuizione individuale non sorretta dalla necessaria previsione nella legge o nel Ccnl. In tal senso, sussistono due differenti orientamenti interpretativi: taluno ritiene debba applicarsi il comma 2 dell’art. 817 c.p.c., con la conseguenza che le parti sarebbero chiamate a far valere l’incompetenza degli arbitri “nella prima difesa successiva all’accettazione” degli stessi, pena l’impossibilità di impugnare il lodo per tale motivo. Secondo altra – e maggiormente condivisibile tesi, invece, detta “sanatoria” non opererebbe, poiché la convenzione d’arbitrato (sottoscritta in assenza del presupposto ex art. 806 c.p.c.) sarebbe affetta da inesistenza. Ad ogni modo, ove legge o Ccnl prevedano espressamente l’arbitrabilità della controversia, nulla quaestio, e il procedimento seguirà pressoché integralmente l’iter prefigurato dal legislatore per la generalità degli arbitrati rituali. Va, altresì, aggiunto che, allo stato attuale, è invece del tutto assente qualsivoglia riferimento al permanere della facoltà del dipendente e del datore di lavoro di adire l’Autorità giudiziaria, prevista precedentemente dall’art. 808 c.p.c.; tuttavia, come autorevolmente rilevato in dottrina, la norma deve interpretarsi nel senso che la legge o i contratti/accordi debbano, eventualmente, prescrivere la devoluzione ad arbitri di una controversia avente ad oggetto diritti disponibili, ma che resti sempre salvaguardato il diritto delle parti di declinarla e optare, comunque, per una risoluzione in sede giurisdizionale.

Uno degli ulteriori dubbi interpretativi che, in seguito all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 40/2006, gli autori si sono posti, riguardo l’applicabilità o meno (con riferimento, ancora, alle controversie giuslavoristiche) dell’arbitrato di equità e, in generale, della nullità o meno delle clausole compromissorie che prevedano il ricorso a tale particolare ipotesi, posta l’abrogazione espressa della disposizione di cui al comma 2 dell’art. 808 c.p.c.. Come è noto, con l’arbitrato di equità gli arbitri sono chiamati a dirimere una lite non sulla base di disposizioni di diritto positivo, bensì di “valori oggettivi, già emersi nel contesto sociale, ma non ancora tradotti in termini di legge scritta” (vedasi, a tal proposito, Cassazione, sentenza 11 novembre 1991, n. 12014) o, in altri termini, sulla base “dei valori positivi formatisi nella società in generale o nella comunità a cui appartengono i litiganti” (Cassazione, op. cit.). Peraltro, non può dirsi escluso che, seppur nella scelta di un arbitrato di equità da parte dei soggetti in questione, gli arbitri si ritrovino ad ogni modo a decidere secondo diritto. Infatti, ciò è possibile “allorché essi ritengano che equità e diritto coincidano” (Cassazione, sentenza 13 marzo 1998, n. 2741).

Ebbene, appare alquanto evidente che, in considerazione del rischio di sacrifici sproporzionati dei diritti dei prestatori di lavoro, una deroga all’applicazione di norme giuridiche positive in questa materia sembrerebbe incompatibile con l’impianto garantista prefigurato dal legislatore. Si segnala, tuttavia, come tesi dottrinali minoritarie abbiano ritenuto che, stante il disposto ex art. 829, comma 4, n. 1, c.p.c. (che ammette l’impugnazione del lodo “per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia” nelle cause “previste dall’articolo 409”), la legge presupporrebbe, in qualche misura, la possibilità che il lodo stesso sia stato pronunciato secondo equità.

Lavoro e arbitrato irrituale

In materia di arbitrato irrituale e controversie lavoristiche, la specialità del regime riveste una maggiore pregnanza. Come anticipato, la legge 4 novembre 2010, n. 183 (c.d. Collegato lavoro) ha previsto importanti novità e, nello specifico, a tale intervento legislativo si deve la configurazione di quattro particolari tipologie di arbitrato. La prima forma introdotta – e definita dagli interpreti “arbitrato amministrato” – è ad oggi disciplinata dal novellato art. 412 c.p.c., ove è statuito che in qualunque fase del tentativo di conciliazione “o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti possono indicare la soluzione, anche parziale, sulla quale concordano… e possono accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla commissione di conciliazione il mandato di risolvere in via arbitrale la controversia”. Si tratta, quindi, di un’ipotesi nella quale le parti optano per il ricorso all’arbitrato a lite già emersa e non in via preventiva (per il futuro).

Una volta che le stesse abbiano deciso in tal senso, hanno altresì l’onere di indicare espressamente:

• il termine per emanare il lodo (mai oltre i sessanta giorni);

• le norme “invocate dalle parti a sostegno delle loro pretese”;

• l’eventuale richiesta di “decidere secondo equità”.

Se, dunque, con riferimento all’arbitrato rituale l’ammissibilità di un giudizio secondo equità è oggetto dei dubbi sopra esposti, in questo caso è la stessa legge a prescriverne esplicitamente l’eventualità, ancorché con la specificazione della necessità che la decisione sia rispettosa “dei principi generali dell’ordinamento e dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari” (cfr., ancora, art. 412).

Giova segnalare, poi, l’arbitrato intersindacale, di cui al nuovo art. 412-ter (“Altre modalità di conciliazione e arbitrato previste dalla contrattazione collettiva”). A ben vedere, più che introdurre un’inedita tipologia, la norma citata opera un rinvio agli accordi delle parti sociali, lasciando alle stesse ampi margini di manovra. Leggendo il testo della disposizione, infatti, si nota come il legislatore si limiti a prevedere che conciliazione e arbitrato possano “essere svolti altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative”. Si evince, con ciò, un tendenziale superamento dei timori che tale mezzo alternativo di risoluzione era idoneo ad ingenerare nel legislatore, posto che, con la previsione in oggetto, attribuisce un’assoluta e incondizionata – libertà alle organizzazioni, senza nemmeno preoccuparsi di prescrivere qualsivoglia condizione di validità.

Una terza – e ulteriore – fattispecie è rappresentata dall’arbitrato innanzi al collegio di conciliazione e arbitrato ex art. 412-quater c.p.c. In questo caso, si registra una compiuta regolamentazione dei presupposti per l’instaurazione del procedimento, il cui svolgimento ha luogo nell’ambito, appunto, di appositi collegi di conciliazione e arbitrato. Si tratta di organismi composti “da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro, in funzione di presidente, scelto di comune accordo dagli arbitri di parte ”. Non vi è, peraltro, assoluta libertà nell’individuazione di quest’ultimo soggetto, posto che lo stesso art. 412-quater impone di scegliere un professore universitario di materie giuridiche ovvero un avvocato ammesso al patrocinio innanzi alla Suprema Corte di Cassazione.

Orbene, a prescindere da tale aspetto, il procedimento si caratterizza per le seguenti fasi:

• la parte che intenda agire è chiamata a notificare all’altra un ricorso che contenga la nomina dell’arbitro di parte, l’oggetto della domanda, le relative ragioni di fatto e di diritto, i mezzi di prova, la dichiarazione di valore della controversia e, in via soltanto eventuale, la richiesta di decisione secondo equità;

• in caso di accettazione, l’altra parte nomina il proprio arbitro che, entro trenta giorni, individuerà insieme al primo la figura del presidente e la sede;

• entro ulteriori trenta giorni, parte convenuta è chiamata a depositare una memoria difensiva (contenente “le difese e le eccezioni i fatto e in diritto, le eventuali domande in via riconvenzionale e l’indicazione dei mezzi di prova”);

• nei giorni successivi le parti possono scambiarsi repliche e controrepliche;

• la controversia verrà decisa, in seguito al tentativo di conciliazione, all’assunzione dei mezzi di prova, e alla discussione orale tra le parti, entro venti giorni dall’udienza di discussione mediante un lodo (impugnabile ai sensi dell’art. 808-ter c.p.c.). Taluni interpreti non si sono astenuti dal manifestare perplessità con specifico riferimento alla terza tipologia, in considerazione dell’ampia libertà concessa alle parti, tra cui al lavoratore che, in assenza del supporto di un rappresentante sindacale o di un soggetto amministrativo, potrebbe risultare penalizzato dallo squilibrio contrattuale con il datore.

Da ultimo, si cita il c.d.“arbitrato certificato”. A norma dell’art. 31, comma 12, legge n. 183/2010, possono essere istituite camere arbitrali per la definizione “delle controversie nelle materie di cui all’articolo 409” da parte degli organi di certificazione ex art. 76, D.Lgs. n. 276/2003. Trattasi, nello specifico, degli organi abilitati a certificare i contratti di lavoro istituiti nell’ambito degli enti bilaterali, delle Direzioni provinciali del lavoro e delle università pubbliche e private (limitatamente ai casi previsti dalla legge). Ebbene, a tali organismi è attribuita libertà sia nella scelta di costituire camere arbitrali, che nella concreta disciplina di funzionamento, posto che in alcun modo l’articolo in questione individua regole procedurali, rimettendosi in toto alla loro autodeterminazione.

Procedimento arbitrale e azione giudiziaria: fino a quando è possibile adire il giudice del lavoro?

Occorre, in ultima analisi, interrogarsi sulla legittimità o meno di un eventuale ripensamento delle parti – che venga in rilievo solo in seguito all’avvio della procedura arbitrale – e, nel dettaglio, individuare la fase sino alla quale alle stesse sia concesso di optare per la proposizione di un’azione giudiziaria innanzi al giudice del lavoro.

A tal proposito, sussiste un risalente orientamento giurisprudenziale che può dirsi oramai consolidato e che ha visto la propria cristallizzazione nella sentenza 9 giugno 1993, n. 6411 della Suprema Corte di Cassazione (in senso pressoché analogo, si segnalano anche Cassazione, sentenza n. 1978/1992, Tribunale di Padova, sentenza 23 agosto 1990, Tribunale di Vicenza, sentenza 7 gennaio 1986). Orbene, nel caso oggetto di controversia, un lavoratore e un datore di lavoro promuovevano tramite l’ufficio provinciale del lavoro la costituzione di un collegio di conciliazione e arbitrato, ai fini dell’avvio di un arbitrato irrituale, così come al tempo disciplinato dall’art. 7, comma 6, legge n. 300/1970, per dirimere una questione relativa alla legittimità di una sanzione disciplinare irrogata al dipendente. Durante il primo incontro presso il collegio, dopo aver nominato il proprio arbitro, il datore comunicava la rinuncia al procedimento e decideva di instaurare un contenzioso innanzi al giudice. Sia in primo che in secondo grado, l’azione era stata ritenuta improponibile.

Investita della controversia, la Suprema Corte ha, in primo luogo, ribadito come “la facoltà di adire l’autorità giudiziaria” sia costituzionalmente garantita e, in tal senso, neppure la legge possa “imporre arbitrati obbligatori, profilandosi altrimenti una sua incostituzionalità”. Tuttavia, continua il giudice di legittimità, nella scelta delle parti di optare per uno strumento di composizione privatistica, qual è l’arbitrato irrituale, è insita “la rinuncia delle parti alla tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dal rapporto controverso”.

Quando si perfeziona detta rinuncia? Stando alle argomentazioni della Corte, l’effetto della preclusione dell’esperibilità dell’azione non opera fino a che non risulti completamente formatosi il collegio giudicante, posto che non rileva la sola “manifestazione della volontà di adire il giudice privato”, bensì la corretta instaurazione del procedimento. Sulla scorta di detto principio, il Supremo Collegio ha individuato, quale termine oltre il quale precludere ogni azione, il momento in cui “tutti gli arbitri abbiano accettato per iscritto l’incarico”; prima che ciò avvenga, infatti, non è possibile “parlare di pendenza del procedimento arbitrale, di un evento cioè della stessa rilevanza giuridica di quello indotto dalla notificazione della domanda giudiziaria, al quale soltanto può collegarsi l’effetto di privare le parti di tutelare le loro pretese davanti al magistrato”.

Si tratta di una tesi quanto mai condivisibile. Infatti, oltre a garantire un’assoluta certezza nell’individuazione dell’atto cui conseguono gli effetti richiamati, risulta del tutto ragionevole se letta alla luce di quanto disposto dall’art. 820 c.p.c. che, nel prevedere un termine entro il quale gli arbitri sono chiamati all’emanazione del lodo, specifica che lo stesso decorra “dall’accettazione della nomina”.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA