Un tema particolarmente dibattuto in ambito giuslavoristico è quello che riguarda l’ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e gli specifici presupposti prescritti dalla legge (e dalla giurisprudenza di merito e della Suprema Corte di Cassazione) ai fini della legittimità o meno della comminazione. In particolare, si avrà modo, da un lato, di richiamare il quadro normativo attualmente in vigore e, dall’altro, l’attenzione si concentrerà sullo specifico caso in cui il datore di lavoro opti per l’intimazione di un recesso per motivi economici, nonostante il bilancio dell’impresa risulti in attivo e, quindi, in assenza di una vera e propria situazione di crisi da parte della stessa azienda.

Occorrerà, a questo proposito, illustrare quanto stabilito, da ultimo, dalla Corte d’Appello di Milano che, per mezzo della rilevante – e assai recente – pronuncia n. 1313 del 21 giugno 2019 ha offerto spunti interessanti in materia ed ha avuto modo di aderire espressamente ad uno dei due principali orientamenti che, allo stato, si contrappongono sul tema in oggetto. Infatti, come si vedrà in seguito, l’interpretazione giurisprudenziale oscilla fra due differenti tesi, l’una maggiormente garantista nei confronti del prestatore di lavoro e l’altra particolarmente attenta alla salvaguardia delle prerogative datoriali e alla tutela delle scelte strategiche che possano operarsi in sede di esercizio dell’impresa.

Il quadro normativo

Come è noto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (anche definito da taluni “licenziamento per motivi economici”) rappresenta una fattispecie introdotta dal legislatore in favore del datore di lavoro che intenda allontanare il dipendente dall’azienda, per motivazioni che non attengano a condotte negligenti o illecite poste in essere da quest’ultimo sul luogo di lavoro e, quindi, di rilevanza disciplinare. L’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (rubricata “Norme sui licenziamenti individuali”) consente, tra le altre ipotesi, al titolare dell’impresa di recedere dal contratto di lavoro in tutti i casi in cui sussistano valide “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Occorre specificare, al riguardo, che, nonostante l’apparente identità di ratio giuridica, l’istituto che qui interessa rappresenta un’ipotesi del tutto autonoma (e differente) rispetto a quella del licenziamento collettivo che, come è evidente, coinvolge una pluralità di prestatori di lavoro ed è soggetto ad una propria – e apposita – disciplina giuridica e ad una propria (specifica) procedura, cristallizzata nella legge 23 luglio 1991, n. 223. Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo rappresenta, infatti, in ogni caso un provvedimento del tutto individuale.

Orbene, al netto di una simile – e doverosa – premessa, appare quanto mai evidente già dalla lettura testuale del richiamato articolo 3, come la disciplina di detta particolare forma di recesso, anche a prescindere dalle svariate riforme che si sono susseguite negli anni, in senso ampio, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (si pensi, dapprima, all’approvazione della c.d. “Riforma Fornero”, di cui alla legge 28 giugno 2012, n. 92 e, in seguito, dei decreti attuativi del c.d. Jobs Act e, segnatamente, del Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23), risulti quanto mai parca nell’individuare i precisi confini entro i quali le ragioni economico-produttive sopra citate possano effettivamente legittimare la scelta datoriale di addivenire ad un provvedimento espulsivo. Allo stesso tempo, il legislatore si è completamente astenuto, anche a titolo meramente esemplificativo, dal definire con precisione quali possano essere talune di dette ragioni, cosicché, nel corso degli anni, si è sopperito a tali lacune, come anticipato, per mezzo dell’interpretazione giurisprudenziale, in considerazione del copioso contenzioso giudiziario registratosi.

In via di esempio, le ragioni di cui sopra sono state individuate nei casi di:

• conclusione dei lavori nell’ambito di cantieri ovvero la cessazione del contratto d’appalto per l’esecuzione di opere che non renda più necessaria la presenza dei lavoratori impiegati nelle stesse;

• realizzazione di riassetti di tipo organizzativo all’interno dell’impresa finalizzati ad una più efficiente gestione economica, all’esito dei quali la presenza del lavoratore in azienda risulti non più indispensabile;

• introduzione di nuovi macchinari da lavoro o strumenti a vario titolo che sostituiscano, in toto o in parte, il lavoro umano;

• informatizzazione di taluni servizi che, anch’essi, rendano superflua la presenza del lavoratore;

• chiusura di filiali, sedi (si pensi al caso di un’impresa operante in ambito internazionale che decida di cessare la propria attività in Italia e, appunto, chiudere la relativa sede), reparti o, comunque, qualsivoglia struttura interna ove il dipendente era impiegato;

• esternalizzazione (o terziarizzazione) di talune attività in precedenza svolte direttamente nell’ambito dell’impresa e cui il lavoratore era addetto.

Come è ovvio, poi, a tali esemplificative ipotesi si aggiunge il caso più emblematico in questo senso, rappresentato dalla cessazione totale dell’attività di impresa da parte del datore di lavoro. Ciò detto, a prescindere dall’effettiva ragione individuata in concreto quale giustificato motivo di licenziamento, giova sottolineare come l’onere della prova relativo alla sussistenza di quest’ultima gravi interamente sulla parte datoriale (cfr., a titolo meramente esemplificativo, Cassazione, sentenza n. 160 del 5 gennaio 2017). Ci si limita a segnalare, peraltro, che tale assunto, come è evidente, vale anche con riferimento alle altre ipotesi di recesso (per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo). La giurisprudenza ha, al
riguardo, provveduto ad affermare come, per soddisfare compiutamente l’onere di cui sopra, il datore di lavoro, nel corso di un eventuale giudizio sul punto, possa servirsi anche di eventuali “elementi presuntivi e indiziari”, purché siano idonei a dimostrare l’effettività dei motivi (in questo senso, si veda Tribunale di Firenze, sentenza del 7 novembre 2014). Non solo. Laddove il prestatore di lavoro opti per la proposizione di un ricorso innanzi all’Autorità giudiziaria, l’imprenditore risulta, altresì, chiamato ad un’ulteriore dimostrazione, ossia provare di aver debitamente dato luogo ad un tentativo di repêchage del lavoratore soggetto a licenziamento e di averne constatato la totale impossibilità (rispetto a tale profilo si registra un’assai vasta casistica giurisprudenziale, soprattutto di legittimità; occorre, in questo senso, citare le piuttosto recenti Cassazione, sentenza n. 5592 del 22 marzo 2016, sentenza n. 13116 del 24 giugno 2015, sentenza n. 13112 del 11 giugno 2014, sentenza n. 18416 del 1 agosto 2013, sentenza n. 7381 del 26 marzo 2010, sentenza n. 11720 del 20 maggio 2009, sentenza n. 7620 del 3 agosto 1998, sentenza n. 8555 del 5 settembre 1997).

In particolare, risulta necessario preventivamente valutare se sia possibile ricollocare il dipendente o, comunque, servirsi della prestazione dello stesso in altro modo all’interno dell’azienda e ciò anche se tale scelta dovesse comportarne, di fatto, un demansionamento ovvero, altresì, un’eventuale riduzione dell’orario di lavoro. È stata, infatti, pienamente confermata dalla giurisprudenza di legittimità la possibilità di soddisfare l’onere in oggetto, provando di aver proposto al prestatore di lavoro di rendere la propria prestazione in regime di part-time, anziché di full time (si veda, a tale proposito, Cassazione, ordinanza n. 1499 del 21 gennaio 2019).

Le ragioni del recesso e il contrasto interpretativo

Premessa la doverosa ricostruzione dei tratti salienti della disciplina relativa al recesso per G.M.O., occorre concentrare l’attenzione sul richiamato contrasto interpretativo in materia di ragioni inerenti l’attività produttiva. Nell’esemplificazione suesposta può notarsi come, oltre alle circostanze che attengano ad una situazione di crisi o comunque difficoltà dell’azienda (basti pensare all’ipotesi della cessazione totale di attività), nella prassi ne sono state addotte, quali ragioni legittimanti, anche talune che non denotano una situazione economicamente sfavorevole per la parte datoriale, ma quanto più una mera strategia imprenditoriale atta ad una miglior gestione dei costi (si pensi all’esternalizzazione di attività). Orbene, l’interrogativo che, in dottrina e in giurisprudenza, ci si è posti è il seguente: può ritenersi legittimo un provvedimento espulsivo finalizzato esclusivamente ad incrementare, a vario titolo, il profitto dell’azienda, nel caso di una totale assenza di qualsivoglia situazione economica sfavorevole per l’imprenditore? Come anticipato, non si registrano in materia letture univoche. Giova, con ciò, analizzare con maggior grado di dettaglio le argomentazioni a sostegno dei due contrapposti orientamenti.

La tesi garantista

La necessità di situazioni economiche sfavorevoli

Una prima tesi che, come si è detto, risulta maggiormente attenta agli interessi del prestatore e a prevenire il rischio che, al fine di un mero aumento del profitto, al datore sia concesso di “liberarsi” in maniera agevole di parte del personale, è riscontrabile, tra le altre, nella sentenza della Suprema Corte di Cassazione, n. 13116 del 24 giugno 2015.

Stando all’orientamento citato, la soppressione della posizione lavorativa del dipendente dev’essere, appunto, diretta “a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti”, dacché lo stesso lavoratore avrebbe diritto a che il datore dimostri compiutamente “la concreta riferibilità del licenziamento individuale ad iniziative collegate ad effettive ragioni di carattere produttivo-organizzativo, e non ad un mero incremento dei profitti” (in senso analogo, si citano Cassazione, sentenza n. 2874 del 24 febbraio 2012, sentenza n. 19616 del 26 settembre 2011, nonché sentenza n. 12514 del 7 luglio 2004). Trattasi di una tesi che, in epoca piuttosto risalente, aveva visto anche il favore delle Sezioni Unite nel 1994. Infatti, chiamate a pronunciarsi in merito ad una controversia nella quale il datore di lavoro aveva provveduto ad allontanare una dipendente per sostituirla con altra disposta a rendere spontaneamente la prestazione a titolo gratuito (e, con ciò, comportando un rilevante decremento dei costi per l’impresa), le Sezioni Unite della Suprema Corte, con sentenza n. 3353 dell’11 aprile 1994 avevano perentoriamente affermato che se si fosse attribuito pregio all’economia “sulle retribuzioni dei dipendenti” ogni datore di lavoro avrebbe potuto, ad esempio, “licenziare i suoi lavoratori più anziani per sostituirli con quelli più giovani, che per ragioni di età e di carriera” avrebbero avuto diritto “a retribuzioni inferiori”, con palese nocumento alle prerogative dei lavoratori, talché, pur ammettendo che valide ragioni potessero risiedere in una “diversa organizzazione aziendale”, quest ’ultima avrebbe, in ogni caso, dovuto giustificarsi sulla base di vere e proprie “necessità finanziarie”.

Il secondo orientamento

Incremento dei profitti e sua configurabilità quale causa legittimante il recesso

Un secondo orientamento che, occorre sin d’ora sottolineare, gode, allo stato attuale, di un maggior favore da parte degli interpreti, nega la necessità di situazioni di difficoltà (a vario titolo) in cui versi parte datoriale. In particolare, per mezzo della sentenza n. 25201 del 7 dicembre 2016, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato, contrariamente ai precedenti suesposti, che la finalità di incremento del profitto, perseguita dall’impresa, ben si presti a costituire giustificato motivo oggettivo di licenziamento. Ciò che conta, a dire della Corte, è che la ragione addotta dall’imprenditore in concreto sussista, senza che al giudice possa essere riservato l’esame delle concrete finalità perseguite. Infatti, stando all’orientamento in oggetto, a nulla rileva se il fine dell’allontanamento risieda nell’“arricchimento” o, per converso, nel “non impoverimento”, posto che, secondo il giudice di legittimità, anche dalla mera volontà di incrementare gli utili dell’azienda, oltre ad un vantaggio per l’impresa, consegue anche un beneficio per l’“intera comunità dei lavoratori” (cfr., ancora Cass. n. 25201/2016).

Chiamato a pronunciarsi in merito alla bontà del recesso, quindi, il giudice sarebbe chiamato esclusivamente a valutare, da un lato, che la ragione individuata non sia fittizia e, dall’altro, che la stessa sia idonea a coinvolgere concretamente (ed effettivamente) la posizione lavorativa del dipendente allontanato (cfr., al riguardo, Cassazione, sentenza n. 20876 del 21 agosto 2018). Appare assolutamente evidente come tale tesi, in un’ottica di bilanciamento di interessi contrapposti, possa definirsi particolarmente ancorata al diritto ex art. 41 della Costituzione, per il quale “l’iniziativa economica privata è libera” e, quindi, ad una pregnante garanzia in favore del datore di lavoro e delle relative strategie imprenditoriali.

La pronuncia della Corte d’Appello di Milano: il caso

Alla luce del quadro richiamato, risulta utile esaminare quanto recentemente affermato dalla Corte d’Appello di Milano, con la pronuncia n. 1313 del 21 giugno 2019. Nella controversia in oggetto, una lavoratrice agiva in giudizio per l’ottenimento di una tutela avverso il licenziamento per giustificato motivo oggettivo alla stessa comminato da parte di una società che, unitamente ad altre, afferiva ad un gruppo societario.

In particolare, l’impresa aveva optato per l’esternalizzazione dell’attività cui era addetta la dipendente, segnatamente di Account key client manager e, in linea generale, della mansione di procacciamento della clientela e sviluppo di progetti pubblicitari. Tali attività erano state affidate, quindi, a procacciatori/consulenti/agenti esterni all’impresa. Parte datoriale, nello specifico, aveva giustificato la propria scelta espulsiva adducendo la volontà di ridurre drasticamente gli investimenti nel settore pubblicitario, nonché sostenendo la sussistenza di una crisi aziendale dovuta ad un decremento del fatturato, alla perdita di commesse di clienti importanti e, con ciò, di rilevanti perdite in bilancio. Peraltro, secondo lo stesso datore di lavoro, la soppressione della posizione lavorativa della ricorrente, anche a prescindere da quanto sopra, sarebbe risultata necessaria in considerazione della generale esigenza di ridurre complessivamente i costi in relazione alla crisi economica del Paese.

Orbene, in seguito alla pronuncia in primo grado del Tribunale di Milano che aveva riconosciuto la legittimità dell’allontanamento, la lavoratrice adiva la Corte d’Appello, asserendo, da un lato, l’inesistenza di una situazione di difficoltà economica (le perdite in bilancio, infatti, si sarebbero verificate soltanto con riferimento ad un’annualità e ciò poiché la società datrice aveva provveduto a ripianare le perdite di un’altra società da quest’ultima controllata) e, dall’altro, il fatto che la sussistenza della crisi aziendale avrebbe dovuto valutarsi non soltanto avendo riguardo di esaminare l’andamento della singola società, bensì considerando la complessità delle relazioni all’interno del gruppo societario e, quindi, l’andamento economico complessivo, dal quale, peraltro, si sarebbe evinta una situazione particolarmente florida e un trend del tutto positivo.

Ebbene, già da una prima lettura dei fatti di causa, può notarsi come l’adesione all’uno o all ’altro orientamento, di cui si è compiutamente detto nei paragrafi che precedono, comporta conclusioni assolutamente differenti. Se, infatti, l’esternalizzazione di parte delle attività esercitate nell’ambito dell’azienda rientra senza dubbio alcuno tra le possibili ragioni legittimanti un licenziamento per G.M.O., dalla scelta di attribuire rilevanza o meno ad eventuali situazioni di difficoltà economica dipende, come è evidente, la legittimità o illegittimità del provvedimento espulsivo.

La soluzione della Corte d’Appello 

Investita della questione, la Corte d’Appello di Milano parrebbe aver aderito al secondo degli orientamenti, per il quale, come anticipato, non sarebbe contrastante con la disciplina del giustificato motivo oggettivo (e, con ciò, con la necessaria individuazione di ragioni economico-produttive legittimanti) la finalità di aumento del profitto perseguita dal datore di lavoro. In particolar modo, chiamato a pronunciarsi in merito ai rilievi mossi dalla lavoratrice ricorrente e alla asserita non plausibilità di una situazione di difficoltà finanziaria in capo alla società in oggetto, il giudice di merito ha provveduto a negare la necessità di qualsivoglia valutazione in tal senso.

In altri termini, una volta presa in considerazione la scelta dell’impresa di dar luogo ad un’esternalizzazione delle attività cui era adibita la lavoratrice e risultando provata, a tale proposito, sia la sottoscrizione di contratti di collaborazione con consulenti esterni (circostanza che, occorre sottolineare, la dipendente non aveva nemmeno contestato) sia l’effettiva soppressione della posizione lavorativa della ricorrente, a nulla è valso, ai fini dell’indagine circa la legittimità o meno del recesso, che il bilancio dell’azienda risultasse in attivo.

Il giudice, sulla scorta del predetto assunto, ha ritenuto del tutto “irrilevante l’aumento dei ricavi” registrato (il quale, peraltro, stando a quanto si legge nella sentenza in commento, sarebbe dipeso proprio dalla riduzione “dei costi legata al ridimensionamento dell’organico” che aveva coinvolto anche la dipendente in oggetto). Infatti, la Corte d’Appello di Milano ha avuto modo di ribadire – in punto di diritto – che, appunto, “secondo la più recente giurisprudenza di legittimità”, la migliore “efficienza gestionale o anche l’esigenza d’incremento del profitto che si traducano in un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo da attuare mediante soppressione di una posizione lavorativa possono integrare il giustificato motivo oggettivo di licenziamento” e, quindi, come detto, a prescindere da qualsivoglia situazione economicamente sfavorevole.

A sostegno di tale tesi, il giudice non ha potuto che richiamare, in particolare, la citata (e assai rilevante) pronuncia n. 25201 del 7 dicembre 2016 della Suprema Corte, nonché due ulteriori precedenti, nell’ambito dei quali era stato precisato che:

• l’indagine dell’Autorità giudiziaria volta ad accertare elementi ulteriori rispetto alla mera sussistenza di una ragione economica-produttiva e del nesso causale tra quest’ultima e la soppressione del posto di lavoro costituisce un’“indebita interferenza sull’insindacabile autonomia imprenditoriale” (in questo senso, Cassazione, sentenza n. 19655 del 7 agosto 2017);

• è completamente sottratto al giudice l’esame in merito alla congruità o alla opportunità della scelta imprenditoriale compiuta dal datore e ciò purché la stessa sia connotata da “effettività e assenza di simulazione” (al riguardo, si veda Cassazione, sentenza n. 24882 del 20 ottobre 2017).

Per di più si segnala, per mero dovere di completezza, che, anche a prescindere dal fatto che la situazione di floridità dell’impresa non comporti (in linea generale) l’illegittimità del provvedimento espulsivo, la Corte d’Appello di Milano ha, altresì, giudicato infondati gli ulteriori rilievi della lavoratrice, secondo la quale analizzando l’andamento economico della totalità delle società collegate si sarebbe evinto un particolare stato di salute del gruppo nel suo complesso. Infatti, per costante orientamento giurisprudenziale, perché una simile censura possa, a vario titolo, godere dell’attenzione dell’Autorità giudiziaria risulta necessario che il lavoratore che agisca in giudizio dimostri la sussistenza di “un unico centro di imputazione del rapporto di lavoro” (in questi termini, si leggano anche Cassazione, sentenza n. 17775 del 8 settembre 2016, sentenza n. 25270 del 29 novembre 2011, sentenza n. 8809 del 10 aprile 2009, nonché sentenza n. 22927 del 14 novembre 2005).

Appare quasi superfluo osservare come, alle considerazioni sopra esposte, sia conseguito il rigetto delle domande della lavoratrice.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA