Come è noto, la Costituzione italiana, all’art. 40, riconosce espressamente il diritto di sciopero in favore dei cittadini, prescrivendo che lo stesso “si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Ebbene, l’assai laconica disposizione costituzionale e, con essa, l’inevitabile incertezza interpretativa che ne è dipesa, è stata colmata dai numerosi interventi della giurisprudenza che, nelle more di un’apposita legiferazione del fenomeno, è giunta ad una compiuta definizione del diritto di sciopero.
Questo, in particolare, si configura come “astensione dal lavoro di una pluralità di lavoratori”, finalizzata a difendere interessi che “siano ad essi comuni” ovvero di salvaguardare, in linea generale, interessi che “trovino protezione in fondamentali principi costituzionali” (in questo senso, si veda, ex multis la risalente Corte costituzionale, sentenza n. 1/1974). Tuttavia, come già lo stesso articolo 40 parrebbe presupporre, il diritto non può ritenersi privo di limiti, individuati di volta in volta dalla giurisprudenza. Nello specifico, aderendo all’interpretazione della Suprema Corte di cassazione, va detto che il relativo esercizio può essere limitato ogniqualvolta contrasti con “norme che tutelino posizioni soggettive concorrenti, su un piano prioritario o quantomeno paritario” con lo stesso diritto di sciopero (leggasi Cassazione, sentenza n. 711/1980). In altri termini, al lavoratore è sempre concesso (da parte dell’ordinamento) di scioperare liberamente, purché da tale comportamento non derivi il sacrificio di un altro diritto di pari rango ovvero di rango superiore.
Sulla scorta di tale assunto, si è, negli anni, avuto modo di prestare particolare attenzione a che, dal relativo esercizio (e con specifico riferimento alle modalità), non scaturissero pregiudizi irreparabili alla produttività o “capacità produttiva dell’azienda, cioè la possibilità per l’imprenditore di
(continuare a) svolgere la sua iniziativa economica” (cfr., ancora, Cass. n. 711/1980). Ciò premesso, una maggiormente pregnante esigenza di individuare limiti e confini particolarmente precisi alla facoltà ex art. 40 Cost. ha riguardato l’ipotesi in cui ad essere potenzialmente pregiudicati fossero i diritti della generalità degli utenti nell’ambito dei c.d. “servizi pubblici essenziali”, anch’essi dotati di rilevanza costituzionale.
In virtù di tale necessità, il legislatore ha ritenuto opportuno intervenire con un’apposita disciplina e, segnatamente, per mezzo dell’approvazione della legge 12 giugno 1990, n. 146 (recante “Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati”), si è tentato di garantire, da un lato, anche al lavoratore pubblico l’esercizio dello sciopero e, dall’altro, di ridurre al minimo i disagi per l’utenza. Giova, sin d’ora, premettere come, con l’espressione “servizi pubblici essenziali”, debbano intendersi, per espressa previsione legislativa, tutti quelli volti “a garantire il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà ed alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione” (legge n. 146/1990, art. 1, comma 1). Rientrano, quindi, nel campo di applicazione della disciplina, a titolo meramente esemplificativo, i servizi di trasporto pubblico (sia esso aereo, ferroviario ovvero marittimo), il servizio scolastico, il servizio postale, nonché i servizi sanitari. Orbene, in questa sede si avrà modo di evidenziare i tratti salienti della disciplina, con particolare attenzione alle tematiche oggetto di dubbi interpretativi, nonché di richiamare gli spunti recentemente offerti dalla Suprema Corte di cassazione con sentenza n. 2298 del 28 gennaio 2019.
Definizione di “servizi pubblici essenziali”
Come già rilevato, con la definizione di “servizi pubblici essenziali” ex art. 1, comma 1, legge n. 146/1990 il legislatore ha individuato l’ambito di applicazione della disciplina. Peraltro, per mezzo del comma 2, è la stessa legge a prevederne un’elencazione, prescrivendo, nello specifico, che le varie cautele debbano applicarsi alle seguenti tipologie di servizi:
• la sanità;
• l’igiene pubblica;
• la protezione civile;
• la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti;
• le dogane, seppur limitatamente “al controllo su animali e su merci deperibili”;
• l’approvvigionamento di energie, “prodotti energetici, risorse naturali e beni di prima necessità”;
• l’amministrazione della giustizia;
• i servizi di protezione ambientale e di vigilanza sui beni culturali;
• l’apertura al pubblico regolamentata di musei e luoghi di cultura;
• i trasporti pubblici;
• i servizi di erogazione di prestazioni assistenziali e di previdenza sociale;
• l’istruzione pubblica;
• le poste, “le telecomunicazioni e l’informazione radiotelevisiva pubblica” (cfr., ancora, art. 1, comma 2, legge n. 146/1990).
Si pone, con ciò, un primo dubbio interpretativo: detta elencazione deve intendersi tassativa? Stando alle interpretazioni dottrinali e alla lettera della stessa legge parrebbe potersi asserire, con un buon grado di certezza, la non tassatività delle ipotesi ex comma 2. È stato, in particolare, ampiamente argomentato dagli interpreti come, a differenza dei beni costituzionalmente tutelati indicati dalla norma (non suscettibili di letture estensive), il catalogo dei servizi di cui sopra possa essere ampliato. Ciò sarebbe, per di più, dimostrato dall’utilizzo del legislatore dell’espressione “in particolare”, che precede l’elencazione. Peraltro, a ben vedere, la stessa Commissione di garanzia, di cui si avrà modo di esaminare le competenze, ha negli anni provveduto ad un ampliamento delle fattispecie, apprestando, a titolo esemplificativo, le tutele di legge al servizio degli ausiliari giudiziari, ai servizi dei centri riabilitativi per l’handicap, nonché ai servizi di rimorchio nautico.
Il ruolo della Commissione di garanzia e il procedimento
Al netto dei consistenti limiti in materia, i lavoratori addetti ai servizi pubblici essenziali hanno, in ogni caso, modo di esercitare il diritto di sciopero, nel rispetto dell’iter previsto dall’articolo 2, legge n. 146/1990 che occorre sinteticamente richiamare. In primo luogo, le associazioni di categoria sono chiamate ad indire la mobilitazione “con un preavviso minimo non inferiore a quello previsto nel comma 5”, ossia di dieci giorni. Nel rispetto di tale termine, poi, le organizzazioni devono comunicare (per iscritto) alle amministrazioni o imprese erogatrici del servizio, con un discreto grado di dettaglio, “la durata e le modalità di attuazione, nonché le motivazioni, dell’astensione collettiva dal lavoro”, dopodiché le stesse informazioni saranno oggetto di trasmissione alla c.d. Commissione di garanzia.
È, poi, disciplinato un ulteriore termine di preavviso, posto in capo alle stesse amministrazioni o imprese erogatrici del servizio pubblico essenziale, di comunicare direttamente “agli utenti”, almeno cinque giorni prima dell’astensione dal lavoro, varie informazioni sulle modalità dello sciopero, sulla durata e sulle misure di riattivazione del servizio. Con specifico riferimento alla richiamata Commissione di garanzia, giova sottolineare che si tratta di un organo finalizzato, appunto, a garantire la corretta applicazione della legge in oggetto, con il compito di “valutare l’idoneità delle misure volte ad assicurare il contemperamento dell’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati” (vedasi art. 12). In altri termini, può dirsi come la Commissione sia, in linea generale, competente a regolare l’esercizio del diritto di sciopero nei casi in questione.
Particolare pregnanza assume, in questo senso, la relativa opera di regolamentazione provvisoria. Infatti, una volta presi in considerazione gli accordi collettivi e i codici di autoregolamentazione e valutata negativamente l’idoneità delle prestazioni essenziali, la Commissione di Garanzia può emanare una regolamentazione provvisoria (e ciò soltanto dopo aver formulato una proposta di regolazione, non accettata dalle parti contrapposte) che fissi le prescrizioni basilari affinché lo sciopero avvenga con un adeguato contemperamento dei diritti in gioco. La disciplina è, appunto, “provvisoria”, in quanto alle organizzazioni è sempre concesso di intervenire successivamente con un accordo idoneo (tale idoneità viene valutata, ancora una volta, dalla stessa Commissione) ovvero con un nuovo codice di autodisciplina.
Alla stessa è, peraltro, attribuita una generale ed ampia funzione di controllo delle modalità di protesta adottate, con possibilità di intervenire per mezzo di appositi ordini o inviti formali e di intimare, eventualmente, alle associazioni di categoria un rinvio ovvero una revoca della sospensione dal lavoro. Va, altresì, rilevato che, a partire dal successivo intervento legislativo (legge 11 aprile 2000, n. 83), la Commissione rappresenta anche l’organo competente all’irrogazione delle sanzioni in caso di effettive violazioni.
A livello residuale, inoltre, le ulteriori – ed eterogenee – competenze dell’organo possono così riassumersi:
• emanazione di un lodo, in caso di dissenso tra le organizzazioni e su richiesta;
• assunzione di informazioni e convocazione di audizioni per comporre eventuali controversie;
• risoluzione di questioni interpretative o applicative degli accordi;
• riscontro alle richieste dei Presidenti delle Camere parlamentari sugli aspetti di propria competenza.
Violazioni e apparato sanzionatorio
Cosa accade quando le organizzazioni o i singoli lavoratori pongono in essere violazioni delle disposizioni in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali? La stessa legge n. 146/1990, come modificata dalla legge n. 83/2000, prevede specifiche sanzioni, da un lato da comminarsi direttamente nei confronti dei singoli dipendenti aderenti allo sciopero e, dall’altro, anche nei riguardi delle organizzazioni sindacali. I lavoratori, in particolare, rischiano l’intimazione di sanzioni a carattere disciplinare, “proporzionate alla gravità dell’infrazione” (art. 4, comma 1, legge n. 146/1990), ma possono ritenersi immuni da possibili provvedimenti espulsivi (se comminati proprio in ragione dello sciopero) ovvero che “comportino mutamenti definitivi” del rapporto di lavoro.
Allorquando le sanzioni disciplinari abbiano carattere pecuniario, il datore di lavoro è chiamato al versamento degli importi “all’Istituto nazionale della previdenza sociale, gestione dell’assicurazione obbligatoria per la disoccupazione involontaria”. Quanto, invece, alle organizzazioni dei lavoratori – e alle relative operazioni di proclamazione ovvero adesione allo sciopero che siano in contrasto con il dettato legislativo – può trovare applicazione la sospensione dei permessi sindacali retribuiti “ovvero i contributi sindacali comunque trattenuti dalla retribuzione” (art. 4, comma 2) per tutta la durata dell’astensione dal lavoro e per un ammontare economico complessivo “non inferiore a euro 2.500 e non superiore a euro 50.000” (anche in questo caso gli importi sono devoluti all’Inps), tenendo adeguatamente conto della “consistenza associativa, della gravità della violazione e della eventuale recidiva”, nonché del livello di gravità degli effetti prodotti dallo sciopero sul servizio pubblico di riferimento. Peraltro, la sospensione dei permessi e la sospensione dei contributi possono anche essere comminate congiuntamente.
Nelle ipotesi più gravi, poi, le organizzazioni rischiano, altresì, l’esclusione dalle trattative alle quali partecipino, per un periodo totale di due mesi (a partire dalla cessazione del comportamento). Ulteriori sanzioni riguardano, inoltre, le figure apicali dei soggetti erogatori dei servizi pubblici essenziali e, segnatamente, “i dirigenti responsabili delle amministrazioni pubbliche” e i legali rappresentanti delle imprese “e degli enti che erogano i servizi pubblici di cui all’articolo 1, comma 1” (vedasi art. 4, comma 4), i quali sono chiamati, per mezzo di un’ordinanza-ingiunzione della Direzione provinciale del lavoro – Sezione ispettorato del lavoro, al pagamento di un importo da euro 2.500 a euro 50.000. La stessa sanzione amministrativa pecuniaria, per di più, trova applicazione anche con riferimento alle associazioni di categoria e agli organismi rappresentativi “dei lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori”, chiamati a rispondere in solido con i singoli lavoratori autonomi.
L’astensione collettiva dei lavoratori autonomi e i servizi pubblici essenziali
Una delle principali questioni interpretative che, nel corso degli anni, si è posta con una particolare rilevanza, è rappresentata dall’applicabilità o meno dei limiti ex legge n. 146/1990 allorquando ad offrire servizi pubblici essenziali (e ad astenersi dalla prestazione lavorativa) siano lavoratori autonomi ovvero parasubordinati.
All’atto dell’entrata in vigore della legge in oggetto (1990), le varie cautele e procedure ivi configurate risultavano limitate all’esercizio del vero e proprio diritto di sciopero e con esclusivo riferimento ai lavoratori subordinati preposti all’erogazione di servizi essenziali. Come è noto, tuttavia, gli stessi servizi si prestano a costituire l’oggetto della prestazione di altre figure professionali e, con ciò, l’ordinamento giuridico ha sentito la necessità di regolare specificatamente anche l’astensione dal lavoro di tali soggetti, provvedendo ad un ampliamento del campo di applicazione delle misure. Non può, in questo senso, non porsi l’accento su quanto opportunamente affermato dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 171 del 27 maggio 1996. Il giudice delle leggi, in particolare, era chiamato a dirimere la questione circa l’astensione degli avvocati. Se, invero, l’opera prestata da tali professionisti poteva certamente inquadrarsi tra i servizi pubblici essenziali e, segnatamente, nell’ambito dell’“amministrazione della giustizia” di cui all’art. 1, comma 2, lett. a), legge n. 146/1990, gli esclusivi riferimenti al “diritto di sciopero” e ai relativi abusi, presenti nella restante parte della legge, impedivano di considerare gli avvocati assoggettati alla disciplina e di tutelare, quindi, adeguatamente i diritti dei destinatari di detti servizi. Ebbene, a dire della Corte, in ragione di una simile esclusione e, dunque, del fatto che l’intervento legislativo non apprestava “una razionale e coerente disciplina” che includesse “tutte le altre manifestazioni collettive capaci di comprimere” valori primari, quali “quello di azione e quello di difesa di cui all’art. 24, Costituzione”, si imponeva l’esigenza di regolare, quanto meno, “un congruo preavviso e un ragionevole limite temporale di durata” anche per le astensioni degli avvocati.
In forza della stessa sentenza è stata, con ciò, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 1 e 5, legge 12 giugno 1990, n. 146 nella parte in cui non prevedeva, “nel caso dell’astensione collettiva dall’attività giudiziaria degli avvocati e dei procuratori legali, l’obbligo d’un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell’astensione e non” prevedeva “altresì gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali, nonché le procedure e le misure conseguenziali nell’ipotesi di inosservanza”. Orbene, seppur con un discreto ritardo, il legislatore ha provveduto a recepire i moniti del Giudice delle Leggi e ad ampliare l ’ambito di applicazione soggettivo della fonte richiamata (non soltanto agli avvocati, ma alla generalità dei lavoratori autonomi), per mezzo dell’approvazione della legge 11 aprile 2000, n. 83 e, nello specifico, con l’aggiunta dell’art. 2-bis.
A norma di tale articolo è ora previsto che l’astensione collettiva dalle prestazioni “a fini di protesta o di rivendicazione di categoria”, da parte di “lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori”, può esercitarsi, ma nel rispetto di misure dirette “a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili” di cui all’articolo 1. Anche con riferimento a tali soggetti, un ruolo decisivo è attribuito – ancora una volta – alla Commissione di garanzia, la quale è chiamata, da un lato, a “promuovere l’adozione, da parte delle associazioni o degli organismi di rappresentanza delle categorie interessate” di codici di autoregolamentazione che contemperino il diritto di astenersi collettivamente dal lavoro con i diritti della persona costituzionalmente tutelati e, dall’altro, a deliberare, nelle more di tale adozione o in caso di inidoneità, la provvisoria regolamentazione.
Cassazione n. 2298/2019 e astensione dei lavoratori autonomi: chi risponde delle violazioni?
È proprio con riferimento all’astensione collettiva dei lavoratori autonomi che si segnala la pronuncia della Suprema Corte di cassazione, n. 2298 del 28 gennaio 2019, con la quale il giudice di legittimità ha avuto modo di fornire spunti interessanti circa l’imputabilità soggettiva delle eventuali violazioni della normativa. Occorre, in proposito, interrogarsi su quale sia il soggetto chiamato a rispondere delle condotte irrispettose delle regole, poste in essere da un singolo lavoratore autonomo all’atto della protesta.
A dover essere sanzionato è il lavoratore stesso oppure l’organismo di categoria che ha promosso l’azione collettiva? Nel caso di specie, in seguito alla proclamazione di uno stato di mobilitazione nazionale da parte dell’organizzazione di categoria dei tassisti (il Coordinamento taxi italiano), taluni lavoratori avevano, in sede locale, arrecato pregiudizi ai diritti degli utenti, violando le misure ex art. 2-bis, legge n. 146/1990.
La Commissione di garanzia, rilevando l’illiceità delle condotte, aveva disposto la condanna al pagamento di una sanzione amministrativa, sulla scorta di quanto disposto dall’art. 4 della stessa legge, direttamente nei confronti del Coordinamento. Una volta adita l’Autorità giudiziaria, dapprima il Tribunale di Roma aveva accolto il ricorso promosso dall’organizzazione, ritenendo che le astensioni collettive concretamente attuate a livello locale non potessero ricondursi allo stato di mobilitazione nazionale e, successivamente, tale decisione era stata riformata dalla Corte d’Appello, poiché, secondo il giudice di merito, “la responsabilità delle associazioni e degli organismi rappresentativi configurata dall’art. 4, comma 4, legge n. 146/1990, come sostituito dall’art. 3, comma 4, legge n. 83/2000, in solido con i lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori che aderendo alla protesta si siano astenuti dalle prestazioni” sarebbe risultata configurabile anche nei casi di comportamenti omissivi e qualificabile come “inadempimento di un obbligo giuridico di agire, rectius di impedire quei fatti illeciti così configurati dalla legge n. 146/1990” (vedasi Corte d’Appello di Roma, sentenza del 29 maggio 2012).
Investita della questione, la Cassazione è giunta ad affermare che, laddove nell’ambito di uno stato di mobilitazione correttamente proclamato ed
attuato si inseriscano forme anomale di protesta collettiva “finalisticamente indirizzate” alla stessa rivendicazione di categoria, permane in capo all’organizzazione promotrice un generale e ampio dovere di protezione dei beni-interessi di rilievo costituzionale suscettibili di essere lesi. Quindi, a dire della Corte, costituisce dovere dell’associazione che ha indetto o proposto la protesta “dissociarsi pubblicamente ed in modo inequivoco da tali episodi, nel momento in cui ne viene a conoscenza”; e, in effetti, la promozione di uno stato di agitazione prodromico ad un’astensione collettiva comporta una rilevante assunzione di responsabilità e genera, tra gli altri, “obblighi di protezione dovuti anche all’affidamento nel quale la generalità dei consociati che fruisce di un tale servizio deve poter confidare circa l’osservanza delle regole imposte dalla legge”.
Trattasi, dunque, di un vero e proprio obbligo di dissociazione che grava sui soggetti collettivi. Il ragionamento della Cassazione considera, altresì, che l’eventuale comportamento illecito del singolo lavoratore autonomo (all’atto della protesta) risulterebbe “rafforzato” in assenza di un dissenso manifesto dell’organismo che ha promosso la protesta. Ciò premesso, nella controversia in esame, la Corte ha accolto il ricorso del Coordinamento Taxi, cassando la sentenza impugnata, in virtù del fatto che la Corte d’Appello, nel rilevare la condotta omissiva del soggetto, si era spinta sino ad affermare la necessità che lo stesso agisse concretamente per evitare la condotta illecita. Invero, nonostante la sussistenza del richiamato dovere di dissociazione, secondo il giudice di legittimità non può imporsi all’organizzazione l’ulteriore – “indiscriminato e inesigibile” – obbligo di impedire che “qualsivoglia singolo manifestante ponga in essere una protesta deviata”, posto che, in caso contrario, si sconfinerebbe in una forma di vera e propria responsabilità oggettiva o per fatto altrui.