Come è noto, la legge n. 104/1992, rubricata “Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, si occupa – ispirandosi al principio di uguaglianza definito all’art. 3, Costituzione – di rimuovere gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo delle persone affette da disabilità, al pari di qualsiasi altro individuo, nonché di fornire un aiuto concreto a loro ed a coloro i quali se ne prendano cura. Detta rimozione viene operata attraverso diversi canali, che si concretizzano in aiuti quali sostegni psicologici o supporti economici e finanziari che spianino la strada verso una integrazione sociale effettiva.

AMBITO DI APPLICAZIONE

L’art. 3, legge n. 104/1992 identifica due diversi livelli di gravità in cui può trovarsi la “persona con handicap”: il comma 1 definisce i caratteri di una disabilità più lieve, mentre il comma 3 detta i tratti distintivi di unaingravescente forma di handicap. Nel primo caso, si ha a che fare con un soggetto “che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva , che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”. Il successivo comma 3, invece, recita: “Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici”.

Perché ad un soggetto con disabilità sia concesso di fruire dei benefici previsti dalla legge 104/1992, è necessario che la sua condizione di handicap venga accertata secondo modalità ben precise; ciò sia per assicurare che la persona in argomento abbia effettivamente bisogno di ausilio, sia per individuarne la corretta misura. La fase di accertamento dell’handicap è descritta all’art. 4, legge, che prevede che esso sia effettuato dalle Unità sanitarie locali attraverso gli organi delle commissioni mediche che, in base a quanto disposto dalla legge n. 295/1990, sono composte da tre medici scelti tra il personale Asl del luogo di residenza della persona disabile: tra questi, uno deve necessariamente essere specialista in medicina legale (e assume le funzioni di Presidente della commissione), e un altro specialista in medicina del lavoro. Se lo desidera, l’accertando può, inoltre, richiedere la presenza del proprio medico di fiducia.

I BENEFICI EX LEGE

I benefici ex lege n. 104/1992 toccano ambiti di diversa natura, assicurando – a chi dimostri di averne bisogno – la possibilità di accedere a servizi e di vedersi tutelati diritti di vario genere, indipendentemente dalla propria situazione (economica e non). A titolo esemplificativo, il testo della legge in argomento tutela le persone disabili in merito a cure e riabilitazioni, al diritto all’educazione e all’istruzione, all’eliminazione delle barriere architettoniche, al diritto al voto, alle agevolazioni fiscali. Oltre a tutti questi elementi, il legislatore si è occupato di emanare previsioni specifiche per quanto riguarda il rapporto che intercorre tra le persone disabili (e chi se ne prende cura) e il mondo del lavoro.

Gli articoli della legge n. 104/1992 a ciò dedicati, saranno di seguito brevemente esaminati.

LAVORO E INTEGRAZIONE LAVORATIVA

L’art. 18 istituisce un registro regionale in cui siano elencati gli enti e i luoghi di lavoro che favoriscono “l’integrazione lavorativa di persone handicappate”. Ciascuna Regione, poi, disciplinerà con leggi proprie non solo le singole agevolazioni adatte alle persone disabili (che serviranno, ad esempio, ad aiutarle a recarsi sul luogo di lavoro, o per l’avvio e lo svolgimento di attività autonome), ma anche gli incentivi, le agevolazioni ed i contributi ai datori di lavoro anche ai fini dell’adattamento del posto di lavoro per l’assunzione delle persone handicappate. Ancora, l’art. 19, rimandando alla legge n. 482/1968, determina i soggetti aventi diritto al collocamento obbligatorio; le previsioni qui inserite “devono intendersi applicabili anche a coloro che sono affetti da minorazione psichica, i quali abbiano una capacità lavorativa che ne consente l’impiego in mansioni compatibili. Ai fini dell’avviamento al lavoro, la valutazione della persona handicappata tiene conto della capacità lavorativa e relazionale dell’individuo e non solo della minorazione fisica o psichica”.

Successivamente, è inserito un particolare riferimento al trattamento che il portatore di handicap ha diritto a vedersi riconosciuto in situazioni quali il sostenimento di prove d’esame per posti di lavoro pubblici o privati: in tali occasioni, questi dovrà avere a disposizione più tempo; inoltre, egli avrà preferenza, rispetto ad altri eventuali candidati, nella scelta delle sedi di lavoro in caso di esito positivo della prova (art. 21).

I PERMESSI LAVORATIVI EX ART. 33

Le agevolazioni di cui all’articolo citato sono riconosciute ai lavoratori dipendenti – anche con contratto a tempo parziale – che siano assicurati per le prestazioni economiche e di maternità presso l’Inps. Altro requisito per usufruirne è che le loro esigenze di vita siano quelle di (o collegate a quelle di) un soggetto con handicap grave. Alcune circolari Inps (nn. 80/1995 e 133/2000) hanno escluso il riconoscimento di dette agevolazioni a determinate categorie di lavoratori: a domicilio, domestici e familiari, agricoli a tempo determinato occupati a giornata, autonomi e parasubordinati.

Sono, invece, riconosciuti (nelle seguenti modalità):

ai lavoratori dipendenti genitori di bambini con handicap

Nell’art. 33, rubricato “agevolazioni”, si fa riferimento ai permessi lavorativi riconosciuti in capo ai genitori di minore disabile che siano lavoratori dipendenti, i quali “[…] possono chiedere ai rispettivi datori di lavoro di usufruire, in alternativa al prolungamento fino a tre anni del periodo di astensione facoltativa, di due ore di permesso giornaliero retribuito fino al compimento del terzo anno di vita del bambino. 3. Successivamente al compimento del terzo anno di vita del bambino, la lavoratrice madre o, in alternativa, il lavoratore padre, anche adottivi, di minore con handicap in situazione di gravità parente o affine entro il terzo grado, convivente, hanno diritto a tre giorni di permesso mensile coperti da contribuzione figurativa, fruibili anche in maniera continuativa a condizione che la persona con handicap in situazione di gravità non sia ricoverata a tempo pieno” (commi 2 e 3). Giova proporre, a questo punto, una lieve digressione per ricordare che il permesso lavorativo di cui in oggetto al presente articolo è citato alla legge n. 1204/1971 (art. 7). Si tratta di un permesso facoltativo genericamente riconosciuto ai genitori di figli fino ad otto anni di età, che non duri, complessivamente, più di 10 mesi nell’arco degli anni appena citati. I commi dell’art. 33 che si occupano dei permessi riconosciuti in capo ai genitori di minori disabili, di poi, prosegue offrendo, in alternativa al prolungamento per 3 anni del permesso facoltativo testé citato, la possibilità di usufruire di due ore di permesso giornaliero fino al compimento del terzo anno di età del bambino; successivamente rispetto a questo momento il padre, la madre, il parente o l’affine entro il terzo grado del bambino disabile hanno diritto a tre giorni di permessi al mese, i quali sono coperti da contribuzione figurativa e fruibili anche in maniera continuativa;

ai parenti ed affini entro il 2° grado

Oltre che ai coniugi, parenti o affini entro il 2° grado di familiari disabili in situazione di gravità, a seguito di una pronuncia della Corte costituzionale, l’Inps ha emesso una circolare con cui estendeva il riconoscimento dei benefici in argomento alle parti di unione civile e conviventi di fatto (sentenza n. 213/2016). Si noti bene che detta previsione può essere estesa a parenti e affini di 3° grado qualora i parenti elencati in precedenza abbiano compiuto i 65 anni di età, o siano essi stessi disabili. L’art. 33 dispone, infatti, che: “il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede” (comma 5);

ai disabili in situazione di handicap grave

Oltre che in questi casi, i permessi lavorativi ex art. 33 sono riconosciuti anche ai disabili stessi in situazione di handicap grave. Per essi è previsto, laddove ovviamente siano impiegati in un rapporto lavorativo, un riposo giornaliero di 1 o 2 ore a seconda dell’orario di lavoro, o, alternativamente, tre giorni di permesso mensile – al pari delle altre posizioni – frazionabili in ore. Secondo l’ultimo comma dell’art. 33, difatti: “la persona handicappata maggiorenne in situazione di gravità può usufruire alternativamente dei permessi di cui ai commi 2 e 3, ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferita in altra sede, senza il suo consenso” (comma 6). La fruizione di tutte queste previsioni è lecita fintantoché la persona con handicap in situazione di gravità non sia ricoverata a tempo pieno. La spiegazione dell’effettivo significato di quest’ultimo inciso è stato oggetto di una circolare dell’Inps (n. 155/2010), che ha chiarito che per tempo pieno si debba considerare quello che si prolunga per le intere ventiquattro ore, presso strutture ospedaliere o simili, pubbliche o private, che assicurino assistenza sanitaria continuativa. La ratio di detta limitazione è chiara: i permessi vengono riconosciuti laddove vi sia un effettivo bisogno a che il soggetto disabile riceva cure costanti; se dette cure vengono già fornite da una struttura a ciò preposta, la condizione di esigenza che giustificherebbe l’allontanamento del dipendente dal posto di lavoro viene, automaticamente, meno.

QUANTIFICAZIONE MONETARIA DEI PERMESSI

Chi usufruisce dei permessi in oggetto, riceverà un indennizzo parametrato al 100% della retribuzione normalmente percepita, ad eccezione di chi fruisce di quelli concessi a titolo di prolungamento del godimento esteso fino al dodicesimo anno di età del figlio con handicap grave (chiaramente, dunque, nei soli confronti dei genitori lavoratori dipendenti). In detti casi, i corrispondenti permessi saranno corrisposti nella misura del 30% della retribuzione normalmente prevista.

ABUSI E CONSEGUENZE GIURIDICHE

Ai fini della corretta definizione di “abuso”, si tenga conto che nel 2010 (legge n. 183) il legislatore è intervenuto nel merito, abrogando l’obbligo di prestare assistenza “continuativa ed esclusiva”: ciò significa che, seppur la presenza presso il familiare disabile debba certamente verificarsi, essa non deve comunque essere intesa in termini troppo rigidi.

Tale modifica, tra l’altro, ha consentito che alcune domande – precedentemente rigettate perché provenienti da lavoratori in luoghi molto distanti dal soggetto bisognoso di cure – potessero ora essere considerate idonee al riconoscimento dei permessi ex lege n. 104/1992. Sul punto si è espressa anche la Suprema Corte (sentenza n. 54712/2016), asserendo che, durante il periodo di permesso, se pure l’assistenza prestata resta l’attività principale da svolgere in detto lasso di tempo, essa non può, tuttavia, essere stringente al punto da non lasciare al lavoratore neppure un – seppur breve – momento utile per prendersi cura dei propri bisogni.

Sulla stessa scia, sembra utile riportare in questa sede la pronuncia di merito del Tribunale di Pordenone (4 maggio 2018) nella quale si è specificato che l’attività di assistenza non debba necessariamente esplicarsi in casa, ma anche al di fuori delle mura domestiche (attraverso, ad esempio, l’acquisto di beni presso locali commerciali) purché dette attività siano comunque finalizzate all’assistenza del disabile. Chi commette un abuso – nel senso or ora descritto – della disciplina che regola i permessi a beneficio dei disabili gravi e dei loro familiari, oltre a violare i principi di buona fede e correttezza vigenti tra datore di lavoro e dipendente, può altresì incorrere in due diverse tipologie di reato. Il primo, inserito nel Titolo II, Codice penale (dei delitti contro la pubblica amministrazione) è quello di “indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato”: l ’indennizzo, infatti, viene prima anticipato dal datore di lavoro, e poi a questi versato dall’Inps.

Si tratta di un reato previsto all’art. 316-ter c.p., perseguibile d’ufficio, pertanto non è necessario che tale atteggiamento sia oggetto di querela da chi sia legittimato a presentarla (Inps o datore di lavoro). A seconda che la somma indebitamente percepita sia inferiore o superiore a 3.999,96 euro, detto reato viene punito, alternativamente, con una sanzione amministrativa pecuniaria, quantificata in una somma compresa tra i 5.164,00 e i 25.822 euro (essa non può comunque superare il triplo del beneficio conseguito) o – nel caso la somma indebitamente percepita sia superiore alla cifra prima indicata con la reclusione da sei mesi a tre anni. Il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato viene integrato ogni qualvolta “chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee”.

Il secondo reato integrato da chi fruisce illecitamente dei permessi ex lege n. 104/1992, facente parte della categoria dei reati contro il patrimonio, è quello di “truffa ai danni dello Stato” (art. 640, comma secondo n. 2 c.p.), punita con la reclusione da uno a cinque anni e con una multa il cui ammontare è compreso tra 309,00 e 1.549,00 euro. Tale pena è più grave di quella prevista dal 1° comma del citato articolo – il quale si riferisce alla truffa in generale, senza che venga specificata l’identità della vittima – in considerazione del fatto che la condotta integrante il reato, oltre che di per sé già meritevole di essere punita, presenta altresì l’aggravante di essere stata compiuta nei confronti dello Stato, riconoscendo in tale comportamento un pregiudizio all’erario pubblico, e per ciò meritevole di un provvedimento più incisivo.
Il reato di truffa si considera integrato ogni qualvolta, chiunque mediante “artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri ingiusto profitto con altrui danno”. Pertanto, tale condizione risulta essere diversa rispetto al reato ex art. 316-ter (di cui supra) per la gravità della condotta posta in essere dal lavoratore, che non si è solo limitato ad arricchirsi indebitamente (come nel caso dell’art. 316-ter), ma lo ha fatto attraverso una manipolazione della realtà che non può che meritare una pena più pesante.

Oltre a dette sanzioni, in un certo senso esterne al rapporto di lavoro, la conseguenza principale di chi indebitamente fruisce delle agevolazioni ex lege n. 104/1992 è, ovviamente, la piena legittimazione del datore di licenziare per giusta causa il dipendente che si sia macchiato di detto abuso (cioè “in tronco”, e quindi senza alcun preavviso).

IL DIRITTO ALLA PRIVACY DEL LAVORATORE

Di fronte alla possibilità che il dipendente agisca abusando dei benefici riconosciutigli in costanza dei requisiti previsti dalla legge n. 104/1992, sembrerebbe opportuno munire il datore di una serie di strumenti atti ad agire in via preventiva al fine di difendersi da detta eventualità. Questa premessa apre il vaso di Pandora sulle numerose diatribe che, da sempre, caratterizzano la discussione in merito a dove debba essere tracciata la linea di separazione tra la vita lavorativa e quella privata dei dipendenti.

Da un lato, è il caso di ricordare, la legge n. 300/1970, e segnatamente l’art. 4, che prevede la liceità degli strumenti di controllo dell’attività lavorativa (anche in base alle novità introdotte dal pacchetto Jobs Act del 2015) fintantoché i controlli audiovisivi eseguiti sul lavoratore siano motivati da determinate esigenze tecnico-produttive dell’azienda datrice di lavoro o, al massimo, previste da apposite norme del Ccnl di riferimento. Dall’altro lato, tuttavia, non è a questo genere di controlli che il datore potrebbe fare ricorso, in considerazione del fatto che l’attività illecita verrebbe posta in essere al di fuori del luogo di lavoro.

Per giurisprudenza costante, in merito a detta ipotesi si mantiene un atteggiamento favorevole, riconoscendo sia al datore che all’Inps (legittimati perché vittime dell’abuso eventualmente perpetrato) la possibilità di chiedere la collaborazione degli altri dipendenti allo scopo di “smascherare” il lavoratore fraudolento, o di ingaggiare investigatori privati – e, dunque, professionisti – che accertino in via definitiva l’integrazione o meno dell’illecito.

L’ORDINANZA N. 4670/2018 DELLA SUPREMA CORTE

Nell’ordinanza n. 4670/2018 la Corte di Cassazione si è espressa su una questione che riguarda l’indebita fruizione dei permessi di cui alla legge n. 104 (scaturita nel licenziamento del dipendente), in connessione alla contestata legittimità della modalità con cui il datore di lavoro sia venuto a conoscenza di detta situazione. Nello specifico, la Corte d’Appello di Napoli aveva confermato la legittimità del licenziamento intimato nei confronti del ricorrente, motivato dall’indebito uso che questi aveva fatto, per un totale di 6 giorni, dei permessi a lui concessi in qualità di familiare di soggetto con disabilità grave. Il datore di lavoro aveva appreso dell’illiceità della fruizione di detti permessi grazie al lavoro di una agenzia di investigazione privata, la quale asseriva che in quelle giornate il ricorrente sbrigava questioni personali (lo confermava la sua presenza presso diversi esercizi commerciali, e, comunque, luoghi diversi da quelli deputati all’assistenza di persona disabile, quale avrebbe dovuto essere). Sia il Tribunale che la Corte territoriale sostenevano che la violazione fosse talmente grave, da giustificare la massima sanzione prevista nell’ambito del rapporto di lavoro. Ciò, in forza del fatto che le investigazioni erano dalle Corti ritenute utilizzabili poiché non effettuate con riguardo alla prestazione lavorativa in re ipsa, ma in riferimento ad attività poste in essere al di fuori dell’orario di lavoro.

Proprio su quest ’ultimo punto la stessa Suprema Corte ha confermato le decisioni prese dai giudici di merito, anche in considerazione di precedenti simili che avevano consolidato questo stesso orientamento (Cass. sentenza n. 3590/2011; Cass. sentenza n. 848/2015). Sulla scia di quanto appena esposto, la Suprema Corte ha sostenuto la non preclusione, ai sensi degli artt. 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori di questo genere di controlli, “restando giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione” (Cass. ordinanza n. 4670/2018). Pertanto, secondo la Suprema Corte il datore di lavoro agirebbe sempre in maniera lecita ogni qualvolta, di fronte al mero sospetto che un proprio dipendente stia usufruendo in maniera indebita delle agevolazioni riconosciutegli ex lege n. 104/1992, egli assuma dei professionisti in grado di effettuare gli accertamenti del caso. Il fatto che la Suprema Corte, con la sentenza citata, si sia limitata a motivare rinviando ad alcune sentenze precedenti senza argomentare molto oltre il detto richiamo, e che non si sia neppure discostata da quanto giudicato dal Tribunale, prima, e dalla Corte d’Appello, dopo, è un’ulteriore conferma della liceità della condotta posta in essere dal datore di lavoro nel caso di specie.

Tale Ordinanza, pertanto, ha effettuato un equo bilanciamento tra le contrapposte istanze di tutela previste dal diritto alla privacy del lavoratore e le legittime istanze in materia di controlli del datore.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA