In Italia, la norma che per ultima si è occupata del fenomeno del distacco è la legge Biagi (D.Lgs. n. 276/2003). Si parla di distacco quando, emergendo esigenze di carattere produttivo temporanee (che non presentano, cioè, l’elemento della “definibilità”), il datore di lavoro decide di inviare (appunto, “distaccare”) alcuni dei propri dipendenti al servizio di un altro datore; tale scambio può verificarsi tra due aziende di uguale nazionalità, o fra datori di lavoro di Paesi diversi. I requisiti che devono essere soddisfatti dal datore di lavoro che decide di avvalersi di tale opzione, sono due: il consenso del lavoratore, nel caso in cui in detto periodo gli venga richiesta l’esecuzione di attività che, sebbene poste sullo stesso livello di quelle per le quali è impiegato presso l’azienda di provenienza, si caratterizzano per alcuni elementi di diversità; nonché una valida motivazione che giustifichi lo spostamento, laddove esso consti di una distanza, rispetto al luogo di lavoro di provenienza, di più di 50 km.

Il distacco trasnazionale

La causa in esame vede, tuttavia, una situazione definita dalla presenza dell’elemento transfrontaliero tra Paesi europei e, perciò, non può che parlarsi di distacco intracomunitario; la normativa che definisce tale istituto fa perno, essenzialmente, sulla Direttiva 96/71/Ce, il cui contenuto ha valore attuativo di diversi elementi riguardanti la libera circolazione di servizi di cui all’art. 57 TFUE; essa si applica “alle imprese stabilite in uno Stato membro che, nel quadro di una prestazione di servizi transnazionale, distacchino lavoratori […] nel territorio di uno Stato membro ” (art. 1 della Direttiva in esame).

La normativa generale sul distacco prevede, dunque, che il lavoratore di un Paese membro, il quale venga inviato (per l’appunto “distaccato”) in territorio di altro Stato europeo al fine di ivi eseguire una prestazione lavorativa per conto del datore con residenza nel luogo di provenienza, venga assoggettato alle normative previste dallo Stato di destinazione, al pari degli altri impiegati che ivi vi prestano – regolarmente – attività lavorativa. A detta regola generale, tuttavia, può farsi eccezione nel caso in cui il lavoratore distaccato presenti (nei luoghi di interesse della prestazione) il c.d. “certificato A1”, che gli consentirebbe di usufruire delle previsioni previdenziali del proprio Stato di origine, pur prestando la propria attività in territorio europeo terzo. Tale eccezione è però consentita solo previo soddisfacimento dei due requisiti essenziali posti dalla normativa in esame: il periodo durante il quale l’attività lavorativa da prestare in regime di distacco non deve superare i 24 mesi; ed entrambe le parti coinvolte (datore del luogo di provenienza e datore del luogo di destinazione) devono, in tal senso, prestare il proprio consenso.

La Direttiva in esame tocca diversi elementi propri del distacco, tra cui il rispetto dei contratti collettivi e delle disposizioni legislative che regolano i contratti di lavoro nel luogo in cui l’attività lavorativa verrà prestata dal distaccato, indipendentemente dalla sede legale del datore di lavoro – dette normative dovranno essere rispettate per quanto riguarda gli elementi sostanziali del rapporto, e cioè i periodi di occupazione e di ferie retribuite; le questioni inerenti alle tariffe minime salariali, alla sicurezza sul lavoro, alle tutele apprestate nei confronti delle donne nei periodi di maternità, nonché riguardo la parità di trattamento fra i lavoratori indipendentemente dal loro sesso, provenienza, credo religioso o politico. Ancora, la Direttiva fa riferimento alle indennità di distacco, nonché al calcolo del periodo di questo.

Non mancano riferimenti al sistema di informazione necessario alla cooperazione tra i vari Stati membri, il quale si pone l’obiettivo di rendere più fluido il rapporto tra i governi e le amministrazioni dei Paesi coinvolti da rapporti che derivano dal distacco tra datori di lavoro. Secondo il disposto della Direttiva, sono gli stessi Stati che designano le autorità competenti allo scambio di dette informazioni. A tal proposito, il comma 2 dell’art. 4 recita: “tale cooperazione consiste, in particolare, nel rispondere alle richieste motivate di informazioni da parte di dette amministrazioni a proposito della cessione temporanea transnazionale di lavoratori, compresi gli abusi evidenti o presunti casi di attività transnazionali illegali”.

Le recenti Direttive 67/2014 e 957/2018

La Direttiva n. 67/2014 (recepita in Italia con il D.Lgs. n. 136/2016) ha modificato la precedente disciplina comunitaria con particolare attenzione all’elemento della comunicazione obbligatoria, nonché alla definizione di un migliore sistema di informazione tra i vari Paesi membri istituendo, in tal senso, l’“Internal market information”(Imi), che prevede, fra questi, una più stretta collaborazione a livello amministrativo. Si ricordi che, in Italia, detta comunicazione deve essere operata da parte del datore di lavoro distaccatario nei confronti del lavoratore (laddove il distacco vada a comportare il cambiamento di elementi del contratto di lavoro originale), nonché, in via anticipatoria, nei confronti dell’apposito sistema delle comunicazioni obbligatorie al Centro per l’Impiego provinciale (essa deve riguardare gli elementi di definizione del distacco stesso). Ad intervenire di recente sul caso, una nuova Direttiva (2018/957) che si occupa di modificare la precedente (1971/96): come deducibile dal suo testo, essa si ispira al principio sempreverde della parità di trattamento dei lavoratori, sia la provenienza di questi nostrana o estera (ma pur sempre comunitaria, considerato l’ambito di applicazione della norma in esame).

Gli obiettivi che la Direttiva si pone, in base a quanto fuoriesce dal suo testo, riguardano l’armonizzazione delle norme nazionali, specialmente in tema antidumping sul distacco transazionale dei lavoratori, nonché la garanzia di una migliore protezione dei lavoratori distaccati. Detta Direttiva si pone in linea con i precedenti regimi applicabili a detto argomento, facendo riferimento ad elementi che rafforzino la parità di trattamento tra lavoratore distaccato e locale, quali la garanzia di un salario minimo, il periodo minimo di riposo e di lavoro, il congedo annuale retribuito, elementi circa il lavoro interinale, della sicurezza e della salute dei lavoratori.

I certificati E101 prima, e A1 poi

Elemento centrale del distacco in sostituzione, sono i nuovi certificati A1, i cui tratti caratteristici sono oggetto della sentenza della Corte di Giustizia di cui in argomento. Nel 2010, sono entrati in vigore i Regg. 883/2004 e 987/2009, introducendo detto nuovo formulario, in sostituzione del vecchio E101. Ad essi si devono alcune novità, fra cui l’estensione della durata massima del distacco nell’ambito della circolazione all’interno dei confini Ue; ma il cambiamento più importante riguarda il contenuto del formulario, laddove l’A1 consentirebbe, per accordo di entrambe le parti, di mantenere l’iscrizione del lavoratore distaccato presso l’ente assicurativo dello Stato di provenienza lavorativa, per un periodo massimo di 24 mesi (invece dei 12 precedenti), oltre i quali questi dovrà sottoporsi ad assoggettamento alla disciplina del luogo in cui presta la propria attività.

Con la presentazione del certificato, che in Italia, deve essere richiesto all’Inps prima della partenza (sia che si tratti di lavoratore dipendente sia autonomo), l’ente a tali funzioni competente si onera anche di presentare informazioni importanti, sia al lavoratore richiedente sia ai rispettivi enti del territorio di destinazione di questi. Tra le altre cose, la sottoscrizione di detto certificato accerta che il lavoratore non abbia alcun onere economico di carattere contributivo nel nuovo Stato in cui si consuma la prestazione lavorativa, elenca quali siano le formalità che questi dovrà espletare per godere dei propri diritti previdenziali anche all’estero, e specifica che l’istituzione di sicurezza sociale dello Stato membro d’arrivo, in caso di necessità, si occuperà di fornire, in forza della legislazione vigente, le prestazioni speciali necessarie in caso di infortunio sul lavoro o di malattia professionale, in via provvisoria e che, dunque, il lavoratore verrà tutelato riducendo al massimo le differenze con quanto sarebbe successo se si fosse trovato nel territorio sede del proprio datore.

La disciplina specifica – i Regolamenti 883/2004 e 987/2009

Preliminarmente, è opportuno citare alcune norme generali che possano essere applicate, in via di principio, al caso specifico del distacco in sostituzione. Infatti, bisogna intanto tener conto del fatto che le norme di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale sono inseriti nel più ampio genus della libera circolazione delle persone (come desumibile dal citato Reg. 883/2004); ancora, che tutti i lavoratori – ed a maggior ragione quelli transfrontalieri – sono sottoposti ad un generale principio di parità di trattamento rispetto alle diverse legislazioni nazionali: perché essa venga assicura, è questo stesso Regolamento che, più e più volte, chiarisce che la legislazione applicabile è generalmente quella dello Stato membro nel cui territorio l’attività lavorativa (subordinata o autonoma che sia) viene prestata. In prima istanza, sull’efficacia vincolante dei documenti, si veda l ’art. 1, Reg. del 2009, che al par. 2, lett. c) identifica, come prima cosa, nel concetto di documento “un insieme di dati, su qualsiasi supporto, strutturati in modo da poter essere scambiati per via elettronica, la cui comunicazione è necessaria per il funzionamento  [dei regolamenti di cui al titolo di tale paragrafo]”. Più specificatamente, l’art. 5 dello stesso Regolamento recita, al suo par. 1: “I documenti rilasciati dall’istituzione di uno Stato membro che attestano la situazione di una persona ai fini dell’applicazione [dei due Regolamenti in argomento], nonché le certificazioni su cui si è basato il rilascio dei documenti, sono accettati dalle istituzioni degli altri membri fintantoché essi non siano ritirati o dichiarati non validi dallo Stato membro in cui sono stati rilasciati”.

Negli altri paragrafi dell’articolo 5, si prosegue prevedendo che, in caso di dubbio, gli Stati membri coinvolti da tale discrasia debbano collaborare scambiandosi informazioni riguardo il caso di specie e, laddove la controversia non sia di semplice risoluzione, è prevista la possibilità di adire la Commissione amministrativa, di cui si è già parlato, tramite le autorità competenti di ciascun Paese. Sempre il Reg. del 2009 viene in aiuto al Giudice europeo, chiarendo, all’art. 19, rubricato“Informazione agli interessati e ai datori di lavoro”, che l’obbligo di informazione di cui sopra deve essere adempiuto dall’istituzione competente dello Stato membro direttamente nei confronti del lavoratore (o, laddove il caso lo richieda, del suo datore), al fine di fornire l’aiuto necessario perché le formalità del distacco vengano tutte espletate. Sulla questione che maggiormente rileva ai fini di questo approfondimento, e dunque, nell’eventualità che l’efficacia di detti documenti sia limitata, ci si chiede, altresì, se sussista una violazione del divieto previsto dall’art. 12, Regolamento n. 883/2004.

Va chiarita, in tale sede, una ulteriore peculiarità del caso in esame: nel periodo che va dal 2012 al 2014 – biennio in cui si è verificata la sostituzione dei lavoratori tra le due compagnie ungheresi in ordine alle prestazioni fornite all’azienda austriaca – detto art. 12, veniva modificato. La versione precedente che, in effetti, secondo le regole procedurali è quella applicabile al caso di specie, recitava: “La persona che esercita un’attività subordinata in uno Stato membro per conto di un datore di lavoro che vi esercita abitualmente le sue attività ed è da questo distaccata, per svolgervi un lavoro per suo conto, in un altro Stato membro rimane soggetta alla legislazione del primo Stato membro, a condizione che la durata prevedibile di tale lavoro non superi i ventiquattro mesi e che essa non sia inviata in sostituzione di un’altra persona”. La nuova versione, tuttavia, aggiunge solo una parola alla fine di tutto il periodo, cioè “distaccata”, chiarendo, così, che, perché gli venga riconosciuta la possibilità di soggiacere alla legislazione del Paese del datore, il lavoratore distaccato non possa essere inviato a ricoprire detta mansione in qualità di sostituto di un altro impiegato, a sua volta, distaccato. Tale novità, seppur non applicabile al caso di specie, rende più chiara la ratio della previsione europea, aiutando a comprendere quella che sarà la decisione del Giudice comunitario.

Il caso

Un’azienda di commercializzazione di bestiame e carni con sede in Salisburgo (Austria), nel 2007, concludeva un accordo con una compagnia ungherese, perché si occupasse delle operazioni di confezionamento di una parte delle carni lavorate dalla prima nei locali di proprietà di questa. L’accordo prosegue con una breve interruzione che si verifica nel periodo intercorrente tra il 1° febbraio 2012 ed il 31 gennaio 2014, biennio in cui le attività delegate passavano a circa 250 dei lavoratori di una terza azienda, (come la prima, di nazionalità ungherese). In considerazione del luogo dell’adempimento della prestazione lavorativa, la Cassa malattia di Strasburgo emetteva, a tutela degli impiegati distaccati dalla seconda azienda ungherese, (in ossequio alla legislazione del codice della previdenza sociale e della legge sull’assicurazione contro la disoccupazione austriaci), certificati A1 (di cui si parlerà in seguito).

Nonostante ciò, l’ente di sicurezza sociale ungherese provvedeva, da parte sua, alla emissione di questi stessi certificati (in parte con efficacia retroattiva e in parte anche dopo essere venuta a conoscenza della già accertata sussistenza di un obbligo di assicurazione in Austria dei lavoratori interessati).

La problematica

Accadeva, dunque, che certificati A1 venissero emessi, a tutela dei lavoratori ungheresi, dagli organi competenti dell’uno e dell’altro Stato membri coinvolti, creando confusione in merito alla normativa applicabile ai lavoratori distaccati. La questione veniva sollevata dal Ministro federale austriaco del lavoro, della sicurezza sociale e della tutela dei consumatori, di fronte al Tribunale amministrativo austriaco (Verwaltungsgericht), il quale annullava, per incompetenza, la decisione della cassa malattia di Strasburgo. Veniva eccepito, invece, come, territorialmente legittimato ad emettere un simile riconoscimento, fosse l’ente di sicurezza sociale ungherese, il quale aveva, come detto in precedenza, già in tal senso provveduto.

La sentenza del Tribunale amministrativo austriaco veniva, a quel punto, impugnata di fronte al giudice del rinvio, con la motivazione che i certificati A1, emessi dal competente ente ungherese, non avessero efficacia vincolante anche per gli altri Stati membri e che, anzi, se l’avessero avuta, ciò avrebbe di certo violato il principio di leale cooperazione tra gli Stati membri, di cui all’art. 4, par. 3 TFUE. L’Ungheria, ovviamente, si opponeva ad una revoca dei certificati A1 emessi da un proprio ente nazionale.

La Commissione amministrativa per il coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale

A ciò deve aggiungersi che alla controversia si era anche interessata la “Commissione amministrativa per il coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale”: si tratta di un organo che trova la propria base legislativa agli artt. 71 e 72, Regolamento 883/2004, istituito presso la Commissione europea, composto da un rappresentante governativo di ciascuno degli Stati membri, il quale ha il compito, tra gli altri, di “trattare ogni questione amministrativa e di interpretazione derivante dalle disposizioni del presente regolamento [883/2004] o da quelle del [Regolamento 987/2009] o di ogni altro accordo concluso o che dovesse intervenire nell’ambito di questi […]”.

La Commissione amministrativa lavora, dunque, al fine di armonizzare il più possibile le legislazioni dei singoli Stati membri, laddove sorgano conflitti tra questi nell’ambito del trattamento previdenziale dei lavoratori transfrontalieri. Incaricata di ciò, in data 20 e 21 giugno 2016 essa si è espressa stabilendo che l’Ungheria si fosse erroneamente dichiarata competente per la tutela dei lavoratori ungheresi in territorio austriaco e che, dunque, i certificati emessi dagli enti di detta nazionalità dovessero essere revocati.

I quesiti del giudice del rinvio

La Corte amministrativa, stante la questione, decideva di fare appello all’art. 267 TFUE e rinviare, per dette questioni pregiudiziali, alla Corte di Giustizia europea, perché si esprimesse circa:

1) l’efficacia vincolante dei certificati A1 (se questa si abbatta non solo gli enti competenti dei vari Stati, ma anche le autorità giudiziarie degli stessi);

2) a) se detta efficacia operi anche laddove venga confutata, eventualmente, da una decisione della Commissione amministrativa (e, dunque, che peso abbiano dette decisioni) o

b) se, in ogni caso, essa abbia il potere di agire retroattivamente (laddove venga rilasciato, come nel caso di specie, dopo che lo Stato membro ospitante abbia accertato che la propria disciplina nazionale preveda un obbligo di assicurazione dei lavoratori);

3) ancora, laddove l’efficacia di detti certificati sia riconosciuta come limitata ai soli enti previdenziali e non anche fino alla magistratura nazionale, se sussista un divieto di sostituzione tra lavoratori distaccati che facciano riferimento a datori di lavoro diversi fra loro ma che condividano elementi di base, quali il luogo della sede legale o elementi sotto il profilo del personale o dell’organizzazione dell’attività.

La decisione della Corte

Considerate tutte le normative esposte supra, la Corte si è espressa sul caso il 6 settembre 2018.

• Per quanto riguarda la prima questione (efficacia del certificato): la Corte aveva manifestato la propria posizione in merito nelle sentenze 26 gennaio 2006, HerboschKiere, C-2/05 e 27 aprile 2017, A-Rosa Flussschiff, C-620/15, rilevando il carattere vincolante già del certificato E101, per quanto riguarda sia i lavoratori subordinati che i loro familiari che si spostino all’interno della Comunità, sia nei confronti delle istituzioni che dei Giudici dello Stato membro in cui l’attività lavorativa viene, appunto, certificata. La Corte rinviene, nelle nuove normative europee che sono oggi in argomento, una codificazione di detta giurisprudenza, formalizzando, quindi, il carattere vincolante dei certificati di cui supra, riconoscendo, inoltre, la competenza esclusiva dell’istituzione emittente riguardo la valutazione della loro validità. Viene altresì data solida base, nei Regg. 883/2004 e 987/2009, al principio dell’affiliazione dei lavoratori dipendenti a un solo regime di sicurezza sociale, nonché di quello di leale collaborazione, considerate tutte le previsioni inerenti agli obblighi di scambio di informazioni tra gli Stati coinvolti dal distacco di cui supra. Nonostante risulti superfluo, è bene chiarire che la validità di detti certificati venga meno, per espressa previsione normativa, nei casi di frode o abuso del diritto.

• Sul primo quesito della seconda questione (valore delle decisioni della Commissione amministrativa): la Corte ricorda di essersi già espressa in tal senso, con riguardo al Regolamento n. 1408/71 (predecessore di quelli attualmente vigenti), il quale prevedeva che, laddove la Commissione – il cui compito principale era quello di conciliare le due parti di una controversia vertente su questioni sui sistemi di sicurezza sociale transfrontalieri – vedesse le proprie competenze esaurirsi a seguito del mancato raggiungimento di un accordo, la risoluzione del caso passava direttamente nelle mani dello Stato membro nel cui territorio si consumava la prestazione lavorativa; detto Stato diventava, a questo punto, titolare di
una mera facoltà di promuovere un procedimento per inadempimento ai sensi dell’articolo 259 TFUE, al fine di consentire alla Corte di esaminare il caso di specie ed avere una soluzione circa la legislazione applicabile. Nessuna di queste previsioni, in ogni caso, tange il diritto di ciascuno Stato di ricorrere alle normali vie giurisdizionali.

• Sulla seconda parte del secondo quesito (retroattività della efficacia vincolante dei certificati): la Corte specifica, in tale ambito, che l’art. 11-bis, Reg. 574/72 (previgente rispetto ai nuovi Regg. 883/2004 e 987/2009), relativo ai precedenti certificati E101, prevedeva che questi ultimi potessero avere efficacia retroattiva: potevano essere rilasciati – sebbene sia sempre preferibile una certa puntualità – nel corso del periodo in cui esplicavano essi i propri effetti o, addirittura, alla loro scadenza (cfr. sent. 30 marzo 2000, Banks e a., C.178/97). Pertanto, “nulla impedisce che ciò valga anche per i certificati A1)”. Nonostante tale interpretazione del tutto positiva in merito alla richiesta, la Corte, all’interno della sentenza in esame, preferisce chiarire che: “Si deve quindi verificare, poi, se un certificato A1 possa applicarsi retroattivamente, sebbene alla data del suo rilascio esistesse già una decisione dell’istituzione competente dello Stato membro in cui l’attività è svolta, secondo la quale il lavoratore interessato è soggetto alla legislazione di tale Stato membro”. – ciò, comunque, facendo salva la possibilità dell’efficacia retroattiva a livello generale.

• Sulla terza questione (sussistenza di violazione del divieto di sostituzione in distacco ex art. 12, par. 1, Reg. 883/2004): tale elemento di petitum, è bene chiarirlo, è stato formulato solo per il caso che la Corte dichiarasse limitata l’efficacia vincolante del certificato A1 rilasciato dai competenti istituti; avendo questa risposto in maniera opposta, la richiesta avrebbe dovuto decadere. Tuttavia, in una interpretazione corretta dell’art. 267 TFUE, tutti i quesiti che possano chiarire circostanze suscettibili di effettivo accadimento, dovrebbero sempre ricevere tutti i chiarimenti di cui la Corte sia capace. Pertanto, essa decide di esprimersi in risposta a tale questione, specificando che, già in prima istanza, la “condizione di non sostituzione” (quella per cui, cioè, perché un lavoratore possa godere delle previsioni legislative del proprio Stato di provenienza lavorativa, non deve essere distaccato in un altro Stato a sostituzione di un altro distaccato) osti, di per sé, alla possibilità che detto lavoratore goda della tutela apprestata dal luogo in cui ha sede il proprio datore (o la propria attività principale) che, in un certo senso, detta condizione si applica cumulativamente alla condizione temporale (24 mesi) del distacco. Inoltre, in nessuna parte del caso presentato di fronte la Corte si fa riferimento alle sedi dei datori di lavoro e, ragionando a contrario, sembrerebbe corretto assumere che detta questione non sia, in definitiva, di grande rilievo ai fini della decisione. Si sottolinea, inoltre, che la previsione ex art. 12, par. 1, Reg. 883/2004, rientri in quelle norme particolari per la determinazione delle legislazioni in materia di sicurezza sociale per i lavoratori transfrontalieri e che, dunque, interpretare in modo diverso a seconda della sede del datore del caso specifico di volta in volta in esame, snaturerebbe la norma stessa. In merito a tale punto, a parere di chi scrive, è bene riportare il parere della Corte per come essa stessa ha scelto di esprimerlo nella sentenza oggetto dell’approfondimento in argomento, essendo questa stata estremamente chiara nel definire le proprie ragioni poste a fondamento della decisione di cui ci si occupa: “nel caso in cui un lavoratore, che sia distaccato dal datore di lavoro per effettuare un lavoro in un altro Stato membro, sia sostituito da un altro lavoratore distaccato da un altro datore di lavoro, quest’ultimo lavoratore dev’essere considerato “inviato in sostituzione di un’altra persona”, ai sensi di tale disposizione, cosicché non può beneficiare della norma particolare prevista in detta disposizione al fine di continuare ad essere assoggettato alla legislazione dello Stato membro in cui il suo datore di lavoro esercita abitualmente le sue attività. Il fatto che i datori di lavoro dei due lavoratori interessati abbiamo la loro sede nello stesso Stato membro o il fatto che essi intrattengano eventuali legami sotto il profilo personale od organizzativo sono irrilevanti al riguardo”.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA