Come è noto, sia il Legislatore italiano che europeo hanno ritenuto opportuno apprestare una specifica disciplina ai fini della prevenzione e del contrasto a qualsiasi forma di discriminazione che possa avere luogo nel corso del rapporto di lavoro. In particolare, con riferimento all’ordinamento nazionale, si è da tempo inteso offrire una specifica tutela ai lavoratori oggetto di discriminazioni – sia in forma diretta che indiretta – basate sul sesso. Ciò è stato possibile per mezzo dell’approvazione del Decreto Legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (il c.d. “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”), in forza del quale, nello specifico, si rinvengono numerose disposizioni volte ad assicurare la piena parità di trattamento e di opportunità a qualsivoglia lavoratore, a prescindere dal genere. Il decreto prescrive, con ciò, diverse misure finalizzate, appunto, ad “eliminare ogni discriminazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza o come scopo di compromettere o impedire il riconoscimento, il godimento o l’esercizio dei diritti umani e delle libertà fondamentali” in tutti i campi, ivi compresi “quelli dell’occupazione, del lavoro e della retribuzione” (art. 1, D.Lgs. 198/2006). Parimenti, anche in ambito europeo il Parlamento e il Consiglio hanno provveduto all’emanazione di una Direttiva (Direttiva 2006/54/CE), ancora una volta atta a promuovere un principio paritario in materia di occupazione e impiego.

In linea generale, può dirsi come siano configurabili più divieti posti in capo al datore di lavoro nel corso dello svolgimento del rapporto che precludono, in particolar modo, la possibilità di dar luogo a disparità nell’accesso (e, quindi, in fase di assunzione), nelle condizioni di lavoro, nella determinazione della retribuzione (avendo riguardo di considerare qualsivoglia elemento retributivo), nella progressione di carriera, nonché nell’accesso alle prestazioni previdenziali.

Premessa la tutela di cui sopra, occorre interrogarsi sull’effettività della stessa in sede giurisdizionale. Su chi grava l’onere di dimostrare l’avvenuta disparità? Può il lavoratore (o la lavoratrice) limitarsi ad asserire un preteso intento discriminatorio del titolare con riferimento ad un determinato atto nel corso del rapporto? In questo senso, il giudice di legittimità è recentemente intervenuto a fornire idonei chiarimenti in materia. In particolare, per mezzo della sentenza n. 25543 del 12 ottobre 2018, la Suprema Corte di Cassazione ha provveduto ad una ricostruzione organica del quadro normativo, nonché dei propri precedenti giurisprudenziali, in merito, appunto, alla ripartizione di detto onere.

Nel caso di specie, una lavoratrice in gravidanza (impiegata di banca) ricorreva in sede giurisdizionale per impugnare l’avvenuto e alla stessa intimato trasferimento presso un’altra filiale, sostenendone la natura discriminatoria. Orbene, sia in sede di giudizio di primo grado che innanzi alla Corte d’Appello – e in assenza di specifiche dimostrazioni – i giudici avevano ritenuto non sussistenti gli estremi per una violazione della normativa ex D.Lgs. 198/2006. La ricorrente si era, infatti, limitata “a denunciare in termini generici, una non compiuta attuazione del principio di parità di genere”, non corroborata da ulteriori riscontri.

Investita della questione, la Cassazione ha avuto modo di affermare che per quanto la legge configuri un onere della prova pressoché “attenuato” nei confronti dei lavoratori, ciò non possa spingersi sino ad una condanna del datore scevra da qualsivoglia allegazione. In tal senso, occorre fare riferimento all’articolo 40 del richiamato D.Lgs. 198/2006, a mente del quale quando l’attore “fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti,, alla progressione di carriera ed ai licenziamenti idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso” il convenuto è chiamato a dimostrare l’“insussistenza della discriminazione”. Ebbene, dalla lettura della disposizione, alcuni interpreti avevano individuato una possibile ipotesi di inversione dell’onere probatorio. I giudici di legittimità, in proposito, hanno rilevato che l’art. 40 si astiene dall’operare una simile inversione, prescrivendo quanto più una mera “attenuazione del regime ordinario”, cosicché soltanto nel caso in cui sia il soggetto asseritamente discriminato ad aver provato almeno alcuni fatti od elementi di prova il datore di lavoro può ritenersi onerato di dimostrare “l’inesistenza della discriminazione” (sia essa diretta ovvero indiretta) o, in ogni caso, l’insussistenza dell’intento discriminatorio.

Tale assunto si pone decisamente in linea con quanto già a più riprese affermato dalla stessa Cassazione che, già con la sentenza n. 14206 del 5 giugno 2013, aveva optato per la tesi della non inversione dell’onere. Ciò sarebbe, peraltro, altresì desumibile dalla richiamata normativa europea, posto che, secondo lo stesso giudice: “non pare possa leggersi nelle direttive citate una esortazione al legislatore nazionale a prevedere una vera e propria inversione dell’onere della prova”.  In altri termini, la generale presunzione di avvenute disparità in ragione del sesso dei lavoratori scatta esclusivamente ove alcuni elementi – anche se non gravi – permettano, in ogni caso, di dedurre un contesto discriminatorio dotato di maggior serietà.

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