Nella successione tra diverse imprese in un contratto d’appalto si pone il delicato problema di individuare le possibili tutele applicabili ai lavoratori alle dipendenze del primo appaltatore. Il mantenimento della posizione lavorativa del dipendente è, infatti, subordinato alla sussistenza dei presupposti del trasferimento d’azienda, posto che, in caso contrario – ove sia configurabile un mero subentro – l’opportunità di far salvi i rapporti di lavoro precedentemente instaurati è rimessa esvlusivamente ad accordi o altre fonti.
Questo assunto trova una recente conferma nell’ordinanza 33 del 2 agosto 2018 con la quale il Tribunale di Cagliari, in linea con la giurisprudenza prevalente in materia. ha offerto spunti interessanti per individuare il confine tra le due ipotesi. Quando scatta il diritto alla conservazione del posto?
Il trasferimento d’azienda
L’articolo 2112 del Codice civile prevede esplicitamente che, in caso di trasferimento d’azienda, “il rapporto di lavoro continua con il cessionario” e il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. La stessa norma, peraltro, configura una cessione/trasferimento aziendale in tutte le operazioni per le quali, “in seguito a cessione contrattuale o fusione“, cambi il titolare di un’attivitò economica organizzata (preesistente), ma la stessa conservi in seguito all’evento traslativo “la propria identità“. Ciò vale, in ogni caso, anche ove a essere oggetto di trasferimento sia esclusivamente un ramo d’azienda, purchè questo, oltre a preesistere rispetto alla cessione, abbia i caratteri dell’autonomia e dell’organizzazione. In altri termini, deve trattarsi di una componente che consenta di per sè di esercitare l’attività imprenditoriale, a prescindere da un suo inserimento nell’intero complesso aziendale (in questo senso, si legga la sentenza della Cassazione 10542 del 2016).
Ebbene, nello specifico caso della successione nei contratti d’appalto, a venire in rilievo è anche la disposizione dell’articolo 29, comma 3 del D.Lgs. 276/2003, che esclude espressamente la configurabilità delle tutele ex articolo 2112 del Codice civile ove il nuovo appaltatore sia dotato di una propria struttura organizzativa e operativa e siano presenti elementi di discontinuità “che determinano una specifica identità di impresa“.
La valutazione dei giudici
Spetta, con ciò, ai giudici effettuare una valutazione in concreto – a prescindere dalla qualificazione operata dalle parti – sulla natura dell’evento traslativo e verificare, quindi, il diritto del lavoratore alla conservazione del posto. In questo senso, assumono rilevanza svariati fattori presuntivi. In primo luogo si ha trasferimento – e scattano dunque le tutele connesse – quando tra un appaltatore e l’altro si registra il passaggio di beni “di non trascurabile entità” (Tribunale di Cagliari, ordinanza 33/2018), purché gli stessi siano ceduti non nella loro individualità, bensì nella loro funzione unitaria, “strumentale” all’esercizio dell’impresa. I beni in oggetto possono, in ogni caso, essere immateriali, tuttavia ciò non può ritenersi sufficiente a integrare il concetto di azienda di cui all’articolo 2555 del Codice civile (“l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa“). Infatti, è sempre – e comunque – richiesta la presenza di beni materiali organizzati per le finalità esposte.
A fungere da possibile parametro che consenta di propendere per la fattispecie del trasferimento, c’è indubbiamente il grado di somiglianza tra le attività esercitate dalla prima impresa con la subentrante. In ogni caso, il mantenimento dei lavoratori precedentemente impiegati – quand’anche sussistente – non può di per sè costituire indice dell’avvenuto trasferimento d’azienda.
Il lavoro rappresenta, infatti, soltanto uno dei fattori produttivi che caratterizzano l’attività imprenditoriale. Perchè possa trovare applicazione la totalità delle tutele in favore dei dipendenti, la cessione dei relativi contratti di lavoro al nuovo appaltatore deve, a ben vedere, essere accompagnata dal trasferimento di un determinato know how, da intendersi come un complessivo bagaglio di conoscenze, capacità tecniche ed esperienze, interamente finalizzato alla realizzazione di un “risultato produttivo definito e predeterminato” (Cassazione, 1769/2018)
RESTA LA DOTE DI ANZIANITA’, FERIE MATURATE E ORARIO
Nell’ambito della cessione d’azienda (o di un ramo) e dalla lettura dell’articolo 2112 del Codice civile, emerge innanzitutto un principio di continuità dei rapporti di lavoro in corso al momento dell’operazione traslativa. Il lavoratore alle dipendenze del cedente, infatti, nel proseguire il proprio rapporto con il cessionario, “conserva tutti i diritti che ne derivano“. Nello specifico, a un mutamento soggettivo di una parte contrattuale (il datore) non si accompagna giuridicamente una modifica sostanziale delle condizioni del rapporto.
Il nuovo datore, in particolare, succede legalmente nel contratto originariamente sottoscritto dal cedente e questo effetto si realizza senza l’espressione del consenso del lavoratore.
I diritti oltre al posto di lavoro
E’ indubbio, in primo luogo, che il dipendente conservi i diritti concretamente già maturati e, quindi, non suscettibili di peggioramento. Si segnalano, tra gli altri, la maturazione dell’anzianità di servizio, del trattamento di fine rapporto, delle ferie e il livello retributivo raggiunto. Il cessionario è chiamato, in altri termini, a riconoscere al lavoratore, oltre alle garanzie a vario titolo riconosciute dalla legge, anche il mantenimento delle condizioni pattuite contrattualmente con il cedente, non potendo con ciò procedere liberamente, ad esempio, a diminuire la retribuzione o ad aumentare l’orario di lavoro.
I crediti del lavoratore
La legge prevede, poi, una solidarietà in capo a cedente e cessionario che “restano obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento“. A garanzia del lavoratore – in considerazione del rischio di pratiche elusive – questi può, quindi, agire indifferentemente verso l’uno o l’altro soggetto per il pagamento delle somme cui aveva diritto in forza del rapporto di lavoro stipulato con la parte originaria. Ciò vale, invero, a meno che sia lo stesso dipendente a “consentire la liberazione del cedente“.
Il principio sopra esposto, indubbiamente applicabile con riferimento ai crediti retributivi, non si estende tuttavia in uguale misura ai crediti di natura contributiva nei confronti degli istituti di previdenza. Si pensi all’ipotesi dell’omissione, da parte del primo datore, del pagamento dei contributi previdenziali dovuti: in questa circostanza il creditore è rappresentato da un terzo (l’istituto) e, con ciò, al di fuori del rapporto di lavoro e dell’ambito di operatività dell’articolo 2112 del Codice civile. La Cassazione ha rilevato, a questo proposito, che il lavoratore non gode di veri e propri “diritti di credito verso il datore di lavoro per l’omesso versamento dei contributi previdenziali“, in quanto, appunto, estraneo al cosidetto “rapporto contributivo” (Cassazione, sentenza 8179/2001).
Il rischio di licenziamento
In base all’articolo 2112 del Codice civile (comma 4) il trasferimento d’azienda non può di per sè costituire legittimo motivo di licenziamento. Ciò vale, peraltro, sia per il cedente che per il cessionario. Questa previsione, tuttavia, non pone al riparo il lavoratore da provvedimenti espulsivi. E’, infatti, sempre fatta salva la facoltà del cessionario di comminare il recesso sulla base – e alle condizioni – della normativa sui licenziamenti e, in partivolare, ove sussista effettivamente un giustificato motivo oggettivo.